Da: https://www.autistici.org/operaismo/Autonomi3/index.html - Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/11/storia-del-sessantotto-michele-brambilla.html
Il manifesto 20-02-83/22-02-83
Queste
pagine, scritte da undici detenuti del 7 aprile a Rebibbia, non sono
un documento per la difesa. Sono un tracciato di identità e una
proposta di interpretazione di quel che è stata l’Autonomia nella
realtà sociale e politica dell’Italia degli anni ’70. Da
sottoporre una discussione, che già noi cominceremo.
Fin
d’ora vorremmo dire due cose. La prima è che questo scritto è un
atto di lealtà; gli imputati del 7 aprile non si presentano come
vittime e tanto meno come pentiti, anche se si interrogano su una
sconfitta; pur sapendo che questo non accattiverà loro la
benevolenza di una opinione che oggi rigetta lontano da sé ogni
memoria (e di qui il titolo ironico e autoironico da loro scelto). La
seconda è che di questo loro documento tutto, ci sembra, può essere
discusso, e anche radicalmente ma dovrebbe esserlo con onestà,
ricollocando le parole e il loro senso nel contesto degli anni cui si
riferiscono («violenza» sarà il test del buon teorico). Dopo di
che, si può anche dissentire da tutto. Il manifesto è aperto a ogni
contributo che abbia questo spirito. (r. r.)
Do
you remember revolution? Proposta
di lettura storico-politica per il movimento degli anni Settanta
Guardando
indietro, riesaminando ancora una volta con la memoria e la ragione
gli anni ’70, di una cosa almeno siamo certi: che la storia del
movimento rivoluzionario, dell’opposizione extraparlamentare prima
e dell’autonomia poi, non è stata storta di emarginati o di
eccentrici, cronaca di allucinazioni settarie, vicenda catacombale o
furore di ghetto. Crediamo realistico affermare, viceversa, che
questa storia – una cui parte è divenuta materia processuale –
sia intrecciata inestricabilmente alla storia complessiva del paese,
ai passaggi cruciali e alle cesure che l’hanno scandita.
Tenendo
fermo questo punto di vista (In sé banale, eppure, di questi tempi,
temerario e persino provocatorio), avanziamo un blocco d’ipotesi
storico-politiche sul passato decennio, che esulano da preoccupazioni
d’immediata difesa giudiziaria. Le considerazioni che seguono
sovente in forma di semplice posizione di problemi, non sono rivolte
ai giudici, finora interessati solo alla mercanzia dei «pentiti»,
ma a tutti coloro che negli anni trascorsi hanno lottato: ai compagni
del ’68, a quelli del ’77, agli intellettuali che hanno
«dissentito» (è così che s’usa dire, ora?) giudicando razionale
la rivolta. Perché intervengano a loro volta, rompendo il circolo
vizioso della rimozione e del nuovo conformismo.
Riteniamo
sia venuto il momento di riaffrontare la verità storica degli anni
’70. Contro i pentiti, la verità. Dopo e contro i pentiti, un
giudizio politico. Una complessiva assunzione di responsabilità è oggi possibile e necessaria: e uno dei passi funzionali
all’affermazione piena del «post-terrorismo» come dimensione
propria del confronto fra nuovi movimenti e istituzioni.
Che
non abbiamo nulla da spartire col terrorismo è ovvio; che siamo
stati «sovversivi» lo è altrettanto. Fra queste due «ovvietà»
si gioca il nostro processo. Nulla è scontato, la volontà dei giudici di omologare sovversione e terrorismo è nota, è intensa:
condurremo con i mezzi idonei, tecnico-politici, la battaglia
difensiva. Ma la ricostruzione storica degli anni ’70 non può
svilupparsi convenientemente solo nell’aula del Foro Italico:
occorre che si apra un dibattito franco e di ampio respiro, in
parallelo al processo, fra i soggetti reali che sono stati
protagonisti della «grande trasformazione». È, questo, fra l’altro
o soprattutto, un requisito irrinunciabile per parlare in termini
adeguati delle tensioni che pervadono i nostri anni ’80.
1–
La caratteristica specifica del ’68 Italiano è la commistione fra
fenomeni sociali innovativi e dirompenti – per molti versi tipici
di una industrializzazione matura – e il paradigma classico della
rivoluzione politica comunista.
La
critica radicale del lavoro salariato, il suo rifiuto di massa, è il
contenuto eminente del movimento di lotta, la matrice di un
antagonismo forte e durevole, la «sostanza di cose sperate». Di
essa si alimenta la contestazione dei ruoli e delle gerarchie,
l’egualitarismo salariale, l’attacco all’organizzazione del
sapere sociale, la tensione a modificare la vita quotidiana: in una
parola, l’aspirazione ad una libertà concreta.
In
altri paesi dell’occidente capitalistico (Germania, Usa), queste
stesse spinte trasformative si erano sviluppate come mutamento
molecolare del rapporti sociali, senza porre direttamente e
immediatamente il problema del potere politico, di una gestione
alternativa dello Stato. In Francia e in Italia, a causa delle
rigidità istituzionali e della forma assai semplificata di
regolamentazione del conflitto, il tema del potere, della sua
«presa», diviene subito preminente.
In
Italia, in special modo, nonostante che per molti aspetti il '68
marcasse un’acuta discontinuità rispetto alla tradizione
«lavorista» e statalista del movimento operaio storico, il modello
politico comunista si innesta in modo vitale sul corpo del nuovi
movimenti. L’estrema polarizzazione dello scontro di classe e la
povertà di un tessuto di mediazione politica (da un lato le
commissioni interne, dall’altra, prima della nascita degli enti
locali, un Welfare ancora ipercentralistico) favoriscono un effettivo
intreccio fra la richiesta di maggior reddito e maggior libertà e
l’obiettivo leninista dello «spezzare la macchina dello Stato».
2
– Fra il ’68 e i primi anni ’70, il problema dello sbocco
politico delle lotte è stato all’ordine del giorno di tutta intera
la sinistra, sia «vecchia» che «nuova».
Tanto
il Pci e il sindacato quanto i gruppi extraparlamentari puntavano a
una modificazione drastica negli equilibri di potere, che portasse a
fondo e stabilizzasse il cambiamento nei rapporti di forza già
avvenuto nelle fabbriche e nel mercato del lavoro. Sulla natura e la
qualità di questo sbocco di potere – comunemente ritenuto
necessario e decisivo – c’è stata una lunga e tormentata
battaglia per l’egemonia all’interno della sinistra.
I
gruppi rivoluzionari, maggioritari nelle scuole e nelle università,
ma radicati anche nelle fabbriche e nei servizi, avevano ben presente
come il recente moto di trasformazione fosse coinciso con
un’eclatante rottura del quadro di legalità precedente; su quella
strada intendevano insistere, impedendo un recupero istituzionale dei margini di comando e di profitto. L’estensione delle lotte
all’intero territorio metropolitano e la costruzione di forme di
contropotere erano indicati come i passi necessari per contrastare il
ricatto della crisi economica. Pci e sindacato, invece, vedevano
nello sbaraccamento del centro-sinistra e nelle «riforme di
struttura» l’esito naturale del ’68. Un nuovo «quadro di
compatibilità» e una più complessa e articolata rete di mediazione
istituzionale avrebbero dovuto garantire una sorta di protagonismo
operalo nel rilancio dello sviluppo economico.
Se
la polemica più aspra si è avuta fra organizzazioni
extraparlamentari e sinistra storica, è però vero che la lotta
ideale per qualificare l’esito del movimento ha attraversato anche
orizzontalmente questi due schieramenti. Basti qui ricordare, a puro
titolo d’esempio, la critica amendoliana nel confronti della Flm
torinese e, in genere, del «sindacato di movimento». Oppure le
diverse, spesso diversissime interpretazioni che le componenti del
sindacato unitario davano del nascenti «consigli di zona». Allo
stesso modo, sull’altro versante, è sufficiente citare la
differenza fra il filone operaista e quello marxista-leninista.
Tuttavia,
la divisione degli orientamenti si produceva, come si è detto,
attorno ad un unico, essenziale problema: la traduzione in termini di
potere politico del sommovimento verificatosi nei rapporti sociali a
partire dal ’68.
3
– Nei primi anni ’70, i gruppi extraparlamentari impostarono il
problema dell'uso della forza, della violenza, in assoluta coerenza
con la tradizione comunista rivoluzionaria: ossia giudicando, questo,
uno degli strumenti necessari ad intaccare il terreno del potere.
Nessun
feticismo del mezzo violento, anzi sua strettissima subordinazione
all’avanzamento dello scontro di massa; tuttavia, al tempo stesso,
accettazione piena della sua pertinenza. Rispetto allo spesso tessuto
della conflittualità sociale, la questione del potere politico
presentava un’indubbia discontinuità, un carattere non lineare,
specifico. Dopo Avola, dopo Corso Traiano, dopo Battipaglia, il
«monopolio statale della forza» appariva ostacolo ineludibile, con
cui confrontarsi sistematicamente.
Da
un punto di vista programmatico, dunque, la rottura violenta della
legalità viene concepita in termini offensivi, come manifestazione
di un diverso potere: parole d’ordine come «prendersi la città»
o «insurrezione» sintetizzavano questa prospettiva, considerata
inevitabile seppur non immediata.
Da
un punto di vista concreto, invece, l’organizzazione sul piano
dell’illegalità è cosa assai modesta, con una finalizzazione
esclusivamente difensiva e contingente: difesa dei picchetti,
dell’occupazione delle case, dei cortei, misure preventive di
sicurezza rispetto a un’eventuale reazione di destra (non più
escludibile dopo Piazza Fontana).
In
definitiva: una teoria d’attacco, di rottura, conseguente
all’intreccio fra nuovo soggetto politico del ’68 e cultura
comunista, e, d’altra parte, realizzazioni pratiche minimali. È
tuttavia chiaro come, dopo il «biennio rosso» ’68-’69, per
migliaia e migliaia di militanti, compresi i quadri di base del
sindacato, fosse assolutamente un fatto di senso comune l’attrezzarsi
sul terreno «illegale», come pure dibattere pubblicamente tempi e
modi dell’impatto con le strutture repressive dello Stato.
4
– In quegli anni, il ruolo delle prime organizzazioni clandestine
(GAP, BR) è del tutto marginale, estraneo alle tematiche del
movimento.
La
clandestinità, il richiamo ossessivo alla tradizione partigiana, il
riferimento all’operaio professionale non hanno nulla a che
spartire con l’organizzazione della violenza da parte delle
avanguardie di classe e del gruppi rivoluzionari.
I
Gap, ricollegandosi all’antifascismo resistenziale e alla
tradizione comunista del «doppio binario» degli anni ’50,
propugnavano l’adozione di misure preventive in vista di un golpe
dato per imminente. Le Br – formatesi dalla confluenza dei
marxisti-leninisti di Trento, degli ex-Pci della bassa milanese e
degli ex-Fgci emiliani – cercarono, durante tutta la prima fase,
simpatie e contatti nella base comunista, non nel movimento
rivoluzionario. Antifascismo e «lotta armata per le riforme»
caratterizzavano il loro operato.
Paradossalmente,
proprio l’accettazione di una prospettiva di lotta anche illegale e
violenta da parte delle avanguardie comuniste di movimento rendeva
assoluta e incolmabile la distanza rispetto alla clandestinità e
alla «lotta armata» come opzione strategica. Gli sporadici
contatti, che pure vi furono, tra «gruppi» e prime organizzazioni
armate non attenuarono, ma anzi sottolinearono nel modo più netto
l’inconciliabilità di culture e linee politiche.
5
– Nel ’73-’74, lo sfondo politico complessivo su cui era
cresciuto per anni il movimento va in pezzi. In un breve arco di
tempo si producono molteplici rotture di continuità, mutano
prospettive e comportamenti, si alterano le stesse condizioni entro
cui ha luogo il conflitto sociale. Questa brusca svolta si spiega in
base a numerose cause concomitanti ed interagenti. La prima è
costituita dal giudizio del Pci sulla chiusura di spazi a livello
internazionale, con la conseguente urgenza di praticare uno «sbocco
politico» immediato, alle condizioni date.
Ciò
ha comportato una frattura, destinata ad approfondirsi, all’interno
di quello schieramento politico-sociale, composito ma fino ad allora
sostanzialmente unitario, che aveva ricercato, dopo il ’68, un
approdo sul terreno del potere che riflettesse la radicalità delle
lotte e dei loro contenuti trasformativi. Una parte della sinistra
(Pci e sindacato confederale) comincia ad approssimare il terreno
governativo contro larghi settori del movimento.
L’opposizione
extraparlamentare è costretta a ridefinirsi rispetto al
«compromesso» perseguito dal Pci. E questa ridefinizione significa
crisi e progressiva perdita d’identità. Infatti la lotta per
l’egemonia nella sinistra, che in certa misura aveva giustificato
l’esistenza dei «gruppi», sembra ora risolta da una decisione
unilaterale, che spacca, separa le prospettive, mette fine alla
dialettica.
D’ora
in avanti il tema dello «sbocco politico», della gestione
alternativa dello Stato, s’identifica col moderatismo della
politica del Pci. Alle organizzazioni extraparlamentari intenzionate
a muoversi ancora su quel terreno non resta che cercare d’inseguire
e condizionare la traiettoria del «compromesso», costituendone la
versione estremista (si ricordi la presentazione di liste
«rivoluzionarie» alle amministrative del ’75 e alle politiche del
’76). Altri gruppi, invece, toccano con mano tutti i limiti della
propria esperienza, e in tempi più o meno lunghi vanno incontro allo
scioglimento.
6
– In secondo luogo, con i contratti del ’72-’73, la figura
centrale delle lotte di fabbrica, l’operaio della linea di
montaggio, l’operaio massa, esaurisce il suo ruolo ricompositivo e
offensivo. Ha inizio la ristrutturazione della grande impresa.
Il
ricorso alla cassa integrazione e il primo parziale rinnovamento
delle tecnologie modificano in radice l'assetto produttivo, smussando
l’incisività delle precedenti forme di lotta, sciopero compreso. I
«gruppi omogenei» e il loro potere sull’organizzazione del lavoro
vengono sconvolti dalla ristrutturazione del macchinario e della
giornata lavorativa. La rappresentatività dei consigli di fabbrica,
e quindi la dialettica tra «destra» e «sinistra» al loro interno,
rattrappisce in fretta.
Il
potere dell’operaio di linea non è indebolito dalla pressione di
un tradizionale quanto fantomatico «esercito industriale di
riserva», insomma dalla concorrenza di disoccupati. Il punto è che
la riconversione industriale privilegia investimenti in settori
diversi dalla produzione di massa, rendendo così centrali, da
relativamente marginai che erano, altri segmenti di forza-lavoro
(femminile, giovanile, ad alta scolarizzazione) con minore storia
organizzativa alle spalle. Ora il terreno di scontro sempre più
riguarda gli equilibri complessivi del mercato del lavoro, la spesa
pubblica, la riproduzione proletaria e giovanile, la distribuzione di
quote di reddito indipendenti dalla prestazione lavorativa.
7
– In terzo luogo, si ha un mutamento per linee interne della
soggettività del movimento, della sua «cultura», del suo orizzonte
progettuale. Per dirla in breve: si consuma una rottura con l’intera
tradizione del movimento operaio, con l’idea stessa di «presa del
potere», con l’obiettivo canonico della «dittatura proletaria»,
con i residui bagliori del «socialismo reale», con qualsivoglia
vocazione gestionale.
Quanto
gli strideva nel connubio sessantottesco tra contenuti innovativi del
movimento e modello della rivoluzione politica comunista, ora si
divarica nel modo più completo. Il potere è visto come una realtà
estranea e nemica, dalla quale ci si deve difendere, che però non
serve né conquistare né abbattere, ma solo ridurre, tenere lontano.
Il punto decisivo è l’affermazione di sé come società
alternativa, come ricchezza di comunicazione, di libere capacità
produttive, di forme di vita. Conquistare e gestire propri «spazi»
– questa diviene la pratica dominante dei soggetti sociali per i
quali il lavoro salariato non è più il luogo forte della
socializzazione – ma puro e semplice «episodio», contingenza,
disvalore.
Il
movimento femminista, con la sua pratica di comunità e di
separatezza, con la sua critica della politica e del poteri, con la
sua aspra diffidenza per ogni rappresentazione istituzionale e
«generale» di bisogni e desideri, col suo amore per le differenze,
è emblematico della nuova fase. Ad esso, esplicitamente o meno,
s’ispireranno i percorsi del proletariato giovanile a metà degli
anni ’70. Lo stesso referendum sul divorzio è una spia di grande
significato sulla tendenza all’«autonomia del sociale».
Impossibile
parlare ancora di «album di famiglia», sia pure di una famiglia
rissosa. La nuova soggettività di massa è un alieno per il
movimento operaio: linguaggi e obiettivi non comunicano più. La
stessa categoria dell’«estremismo» ormai non spiega nulla, e anzi
confonde e intorbida. Si può essere «estremisti» solo rispetto a
qualcosa di simile: ma è proprio tale «somiglianza» che viene
rapidamente meno. Chi cerca continuità, chi ha a cuore l’«album»,
può rivolgersi solo all’universo separato delle «organizzazioni
combattenti» marxiste-leniniste.
8
– Tutti e tre gli aspetti del giro di boa avvenuto fra il ’73 e
il ’75, ma in particolare l’ultimo, concorrono alta nascita dell’
«autonomia operaia».
L’autonomia
si forma contro il progetto di «compromesso», in risposta al
fallimento del gruppi, oltre il fabbrichismo, interagendo
conflittualmente con la ristrutturazione produttiva. Ma soprattutto
esprime la nuova soggettività, la ricchezza delle sue differenze, la
sua estraneità alla politica formale e ai meccanismi della
rappresentanza. Non «sbocco politico», ma concreta e articolata
potenza del sociale.
In
questo senso, il localismo è un carattere definitorio
dell’esperienza autonoma: la profonda distanza dalla prospettiva di
una possibile gestione alternativa dello Stato esclude una
centralizzazione del movimento. Ogni filone regionale dell’autonomia
ricalca le particolarità concrete della composizione di classe,
senza sentire questo come un limite, ma anzi come una ragione
d’essere. È letteralmente impossibile, quindi, tracciare una
storia unitaria dell’autonomia romana e di quella milanese, o di
quella veneta e di quella meridionale.
9
– Dal ’74 al ’76 s’intensifica e si diffonde la pratica
dell’illegalità e della violenza. Ma questa dimensione
dell’antagonismo, sconosciuta nel periodo precedente, non ha alcuna
finalizzazione complessiva antistatuale, non prefigura alcuna
«rottura rivoluzionaria». Questo è l’aspetto essenziale. Nelle
metropoli la violenza cresce in funzione di una soddisfazione
immediata di bisogni, della conquista di «spazi» da gestire in
piena indipendenza, come reazione ai tagli della spesa pubblica.
Nel
’74 l’autoriduzione dei trasporti, organizzata a Torino dal
sindacato, rilancia con clamore l’illegalità di massa, già
sperimentata in precedenza soprattutto a proposito degli affitti.
Pressoché dovunque, e in riferimento a tutto il ventaglio delle
spese sociali, viene attuata questa particolare forma di garanzia del
reddito. Se il sindacato aveva inteso l’autoriduzione come gesto
simbolico, il movimento ne fa un percorso materiale generalizzato.
Ma
più ancora che l’autoriduzione è l’occupazione delle case a S.
Basilio nell’ottobre ’74 a segnare un punto di svolta, giacché
presentava un alto grado di «militarizzazione» spontanea, di difesa
di massa in risposta alla sanguinaria aggressione poliziesca. L’altra
tappa decisiva per il movimento consiste nelle grandi manifestazioni
milanesi della primavera ’75 in seguito all’uccisione di Varani e
Zibecchi ad opera di fascisti e carabinieri. Gli scontri durissimi di
piazza sono il punto di partenza per una sequenza di lotte che
investono le misure economiche dell’«austerità», anzi quelli che
sono già i primi passi della «politica del sacrifici». Lungo tutto
il ’75 e il ’76 si ha il passaggio – per molti versi «classico»
nella storia del Welfare – dall’autoriduzione all’appropriazione:
da un comportamento difensivo nel confronti del continui aumenti
delle tariffe ad una pratica offensiva di soddisfazione collettiva
del bisogni, che punta a ribaltare i meccanismi della crisi.
L’appropriazione
– la cui massima esemplificazione sul piano internazionale è la
notte del black-out newyorkese – riguarda tutti gli aspetti
dell’esistenza metropolitana: è «spesa politica», occupazione di
locali per attività associative libere, è la «serena abitudine»
del proletariato giovanile di non pagare il biglietto al cinema e ai
concerti, è blocco degli straordinari e dilatazione delle pause in
fabbrica. Ma soprattutto è appropriazione del «tempo di vita»,
liberazione dal comando di fabbrica, ricerca di comunità.
10
– A metà degli anni ’70, si profilano due tendenze distinte alla
riproduzione allargata delta violenza. Se si vuole, schematizzando
con buona approssimazione, due diverse genesi della spinta alla
«militarizzazione del movimento». La prima è la resistenza ad
oltranza alla ristrutturazione produttiva nelle grandi e medie
fabbriche.
Ne
sono protagonisti molti quadri operai formatisi politicamente tra il
’68 e il ’73, decisi a difendere a tutti i costi l'assetto
materiale su cui era maturata la loro forza contrattuale. La
ristrutturazione è vissuta come catastrofe politica. Soprattutto i
militanti di fabbrica che si erano impegnati più a fondo
nell’esperienza dei consigli sono portati a identificare
ristrutturazione e sconfitta, confermati in ciò dai ripetuti
cedimenti sindacali sulle condizioni materiali di lavoro. Lasciar la
fabbrica com’era per preservare un rapporto di forza favorevole:
questo il nocciolo di tale posizione.
Ed
e su questo grumo di problemi e fra le fila di questo personale
politico-sindacale che le BR, dal ’74- ’75 in poi, riscuotono
simpatie e riescono a conseguire un certo livello di radicamento.
11
– L’altro filone d’illegalità – per molti versi
diametralmente opposto al primo – è costituito dai soggetti
sociali che sono il risultato delta ristrutturazione, del
decentramento produttivo, della mobilità. La violenza è qui
generata dall’assenza di garanzia, dalle forme frantumate e
precarie di conseguimento del reddito, dall’impatto immediato con
la dimensione sociale, territoriale, complessiva del comando
capitalistico.
La
figura proletaria emergente dalla ristrutturazione si scontra
violentemente con l’organizzazione della metropoli, con
l’amministrazione dei flussi di reddito, per l’autogoverno della
giornata lavorativa. Questo secondo genere d’illegalità, che
grossomodo può essere collegato all’esperienza autonoma, non ha
mai il carattere di un progetto organico, ma è contraddistinto dalla
totale coincidenza fra la forma della lotta e l’ottenimento
dell’obiettivo. Ciò comporta l’assenza di «strutture» o
«funzioni» separate, specifiche, predisposte all’uso della forza.
A
meno che non si voglia accettare il «pasolinismo» come suprema
categoria di comprensione sociologica, non si può non rilevare come
la violenza diffusa del movimento di quegli anni fosse un necessario
strumento di autoidentificazione e di affermazione di un nuovo,
potente soggetto produttivo nato dal declino della centralità della
fabbrica e sottoposto alla pressione massiccia della crisi economica.
12
– Il movimento del ’77, nei suoi connotati essenziali, esprime la
nuova composizione di classe, non fenomeni d’emarginazione.
La
«seconda società» è, o si avvia ad essere, la «prima» quanto a
capacità produttive, intelligenza tecnico-scientifica, ricchezza di
cooperazione. I nuovi soggetti delle lotte riflettono, o anticipano,
l’identificazione crescente fra processo lavorativo materiale e
attività comunicativa, in breve la realtà della fabbrica
informatizzata e del terziario avanzato.
Il
movimento è forza produttiva ricca, indipendente, conflittuale. La
critica del lavoro salariato mostra ora un versante affermativo,
creativo, sotto forma di «autoimprenditorialità» e di parziale
gestione dal basso del meccanismi del Welfare.
La
«seconda società» che occupa la scena nel ’77 è «asimmetrica»
rispetto al potere statale: non contrapposizione frontale, ma
elusione, ossia, concretamente, ricerca di spazi di libertà e di
reddito ove consolidarsi e crescere.
Questa
«asimmetricità» era un dato prezioso, che testimoniava della
consistenza del processi sociali in corso. Ma richiedeva tempo. Tempo
e mediazione. Tempo e trattativa.
13
– Invece l’operazione restaurativa del compromesso storico nega
tempo e spazi al movimento, ripropone una simmetricità
contrappositiva fra Stato e lotte.
Il
movimento si trova sottoposto a uno spaventoso processo di
accelerazione, bloccato nella sua potenziale articolazione. In totale
assenza di margini di mediazione. Diversamente da quanto avviene in
altri paesi europei, e segnatamente in Germania, dove l’operazione
repressiva si accompagna a forme di contrattazione con i movimenti e
pertanto non intacca la loro riproduzione, il compromesso storico
procede con un largo maglio negando legittimità a tutto ciò che
sfugge e si oppone alla nuova regolamentazione corporativa del
conflitto. In Italia l’intenzione repressiva ha una tale generalità
da volgersi direttamente contro le spinte sociali spontanee.
Accade
così che l’adozione sistematica di provvedimenti politico-militari
da parte governativa reintroduce in modo «esogeno» la necessità
della lotta politica generale, spesso come pura e semplice «lotta
per la sopravvivenza», mentre marginalizza e costringe al ghetto le
pratiche emancipative del movimento, la sua densa positività sul
terreno della qualità della vita e della soddisfazione diretta del
bisogni.
14
– L’autonomia organizzata si trova stretta nella forbice fra
«ghetto» e scontro immediato con lo Stato. La sua «schizofrenia»
e poi la sua sconfitta hanno origine dal tentativo di richiudere
questa forbice, mantenendo un rapporto fra ricchezza e articolazione
sociale del movimento, da un lato, e necessità proprie dello scontro
antistatuale, dall’altro.
Questo
tentativo risulta, nel giro di pochi mesi, del tutto impossibile,
fallisce su entrambi i fronti. L’«accelerazione» senza precedenti
del ’77 fa sì che l’autonomia organizzata perda lentamente i
contatti con quei soggetti, che, sottraendosi alla lotta politica
tradizionale, percorrono sentieri diversificati – talvolta
«individuali», talaltra persino «cogestionali» – per lavorare
di meno, vivere meglio, produrre liberamente. E, d’altronde, la
stessa «accelerazione» porta l’autonomia a recidere ogni contatto
con quelle pulsioni militariste, che, presenti all’interno del
movimento e della stessa autonomia, diventano in breve tempo tendenza
separata alla formazione di bande armate.
La
forbice, anziché richiudersi, non fa che approfondirsi. La forma
organizzativa dell’autonomia, il suo discorso sul potere, la sua
concezione della politica sono pesantemente messi in discussione sia
dal «ghetto» sia dalle posizioni «militariste».
Bisogna
aggiungere, tuttavia, che l’autonomia sconta allora anche tutte le
debolezze del proprio modello politico-culturale, incentrato sulla
crescita lineare del movimento, sulla sua continua espansione e
radicalizzazione. È un modello in cui s’intrecciano vecchio e
nuovo: «vecchio» estremismo anti-istituzionale e nuovi bisogni
emancipativi. La separatezza e l’«alterità» che
contraddistinguono i nuovi soggetti e le loro lotte vengono spesso
lette da autonomia come negazione di qualsiasi mediazione politica,
anziché come supporto di essa. L’antagonismo immediato si
contrappone ad ogni interlocuzione, ad ogni «trattativa», ad ogni
«uso» delle istituzioni.
15
– Sul finire del ’77 e lungo tutto il ’78 si moltiplicano le
formazioni organizzate operanti su un terreno specificamente
militare, mentre si accentua la crisi dell’autonomia organizzata.
Agli
occhi di molti l’equazione «lotta politica=lotta armata» appare
l’unica risposta realistica alla morsa che il compromesso storico
ha stretto attorno al movimento. In una prima fase – secondo uno
schema ripetutosi innumerevoli volte – gruppi di militanti, interni
al movimento, compiono il cosiddetto «salto» dalla violenza
endemica alla lotta armata, concependo però questa scelta e le sue
pesanti obbligazioni come «articolazione» delle lotte, come
creazione di una specie di «struttura di servizio». Ma una forma
d’organizzazione specificamente finalizzata all’azione armata si
rivela strutturalmente disomogenea con le pratiche del movimento, non
può che separarsene in tempi più o meno brevi. Avviene pertanto che
le numerose sigle di «organizzazioni combattenti» nate tra il ’77
e il ’78 finiscono per ricalcare il modello, inizialmente
avversato, delle Br, o addirittura per confluire in esse. I
guerriglieri storici, le Br, proprio in quanto detentori di una
«guerra contro lo stato» completamente sganciata dalle dinamiche di
movimento, finiscono per ampliarsi «parassitariamente» sulle
sconfitte della lotta di massa.
In
particolare a Roma, alla fine del ’77, si realizza un reclutamento
di grandi proporzioni delle Br fra le fila di un movimento in crisi.
L’autonomia, nel corso di quell’anno, aveva toccato con mano
tutti i propri gravi limiti, opponendo al militarismo di stato
un’iterativa radicalizzazione dello scontro di piazza, che non
permetteva di consolidare, ma anzi disperdeva le potenzialità del
movimento. La stretta repressiva e gli errori dell’autonomia a Roma
e in qualche altra città hanno spianato la strada alle Br.
Quest’ultima organizzazione, che aveva criticato con asprezza le
lotte del ’77, si è ritrovata, paradossalmente, a raccoglierne
frutti cospicui in termini di rafforzamento organizzativo.
16
– La sconfitta del movimento del 1977 inizia col rapimento e
l’uccisione di Aldo Moro.
Le
Br, in modo analogo seppur tragicamente parodistico a quanto aveva
fatto la sinistra storica a metà degli anni ’70, perseguono un
loro «sbocco politico» separato sulla pelle dell’antagonismo
sociale.
La
«cultura» delle Br – coi suoi tribunali, carceri, prigionieri,
processi – e la loro pratica di «frazione armata» tutta interna
all’autonomia del politico, sono giocate tanto contro i nuovi
soggetti del conflitto quanto contro l’assetto istituzionale.
Con
l’«operazione Moro» si rompe definitivamente l’unità del
movimento, comincia una fase di crepuscolo e di deriva,
caratterizzata dalla lotta frontale dell’autonomia contro il
brigatismo, ma anche dal recedere dalla lotta politica di larghi
settori proletari e giovanili. L’«emergenza», di cui stato e Pci
battono la grancassa, mena colpi al buio, e anzi sceglie ciò che è
emerso e pubblico e «sovversivo» come testa di turco su cui
esercitare in prima istanza la propria distruttività. Autonomia si
trova cosi sottoposta a un violentissimo attacco che punta anzitutto
a fare terra bruciata nelle grandi fabbriche del nord. Così i
«collettivi autonomi» di fabbrica sono senz’altro accusati di
probabile filo-terrorismo da parte del sindacato e del Pci,
sospettati, denunciati, schedati. E quando, proprio nel giorni del
sequestro Moro, autonomia lancia la lotta contro i sabati lavorativi
all’Alfa Romeo, la risposta della sinistra storica è una risposta
«antiterroristica», militaresca, demonizzante. Comincia così il
processo d’espulsione dalle fabbriche della nuova generazione di
avanguardie di lotta – processo che culminerà col licenziamento
dei 61 Fiat nell’autunno ’79.
17
– Dopo Moro, sullo scenario desolato di una società civile
militarizzata, stato e Br si scontrano con logica speculare.
Le
Br percorrono rapidamente quella parabola irreversibile che porta la
lotta armata a divenire «terrorismo» in senso proprio: iniziano le
campagne di annientamento. Carabinieri, giudici, magistrati,
dirigenti d’azienda, sindacalisti vengono uccisi ormai solo per la
loro «funzione» – come in seguito spiegheranno i «pentiti». I
rastrellamenti contro autonomia, nel ’79, hanno peraltro eliminato
l’unico tessuto connettivo politico del movimento in grado di
contrastare efficacemente la logica terroristica. Così, fra il ’79
e l’81, le Br possono per la prima volta reclutare militanti non
solo nelle «organizzazioni combattenti» minori, ma direttamente tra
giovani e giovanissimi appena politicizzati, il cui scontento e
rabbia sono ormai privi di qualsiasi mediazione politica e
programmatica.
18
– I pentiti, come fenomeno di massa, sono l’altra faccia del
terrorismo, ugualmente militaresca, ugualmente orrida.
Il
pentitismo è la variante estrema del terrorismo, il suo pavloviano
«riflesso condizionato», la testimonianza ultima della sua totale
estraneità e astrattezza rispetto al tessuto di movimento.
L’incompatibilità tra nuovo soggetto sociale e lotta armata si
manifesta in modo distorto e terribile nei
verbali mercanteggiati.
Il
pentitismo è «logica d’annientamento» giudiziaria, vendetta
indiscriminata, celebrazione dell’assenza di memoria storica
proprio mentre si fa funzionare in modo perverso e manovrato una
«memoria» individuale. I pentiti dicono il falso anche quando
dicono la «verità», giacché unificano ciò che è diviso,
aboliscono le motivazioni e il contesto, rievocano gli effetti senza
le cause, stabiliscono nessi presunti, interpretano con gli occhi dei
vari «teoremi».
Il
pentitismo è terrorismo introiettato nelle istituzioni. Non si dà
post-terrorismo senza un parallelo superamento della cultura del
pentimento.
19
– La sconfitta secca e definitiva delle organizzazioni politiche di
movimento, alla fine degli anni ’70, non ha coinciso nemmeno in
parte con una sconfitta del nuovo soggetto politico e produttivo, che
nel ’77 ha fatto la sua "prova generate".
Questo
soggetto ha compiuto una lunga marcia nei luoghi di lavoro,
nell’organizzazione del sapere sociale, nell’«economia
alternativa», negli enti locali, negli apparati amministrativi. Si è
diffuso procedendo rasoterra, rifuggendo lo scontro politico diretto,
destreggiandosi tra ghetto e trattativa, fra separatezza e
cogestione. Seppur compresso e sovente costretto alla passività,
costituisce oggi più di ieri il nodo irrisolto della crisi italiana.
La
riarticolazione della giornata lavorativa e la pressione sulla spesa
pubblica, le questioni della tutela dell’ambiente e della scelta
fra le tecnologie, la crisi del sistema dei partiti e il problema di
una nuova pattuizione costituzionale: dietro tutto ciò, e non solo
nelle pieghe del Rapporto Censis, vive intatta la densità di un
soggetto di massa con le sue esigenze di salario, di libertà, di
pace.
20
– Dopo il compromesso storico e dopo il terrorismo, si tratta di
nuovo, esattamente come nel ’77, di aprire spazi di mediazione, che
consentano ai movimenti di esprimersi e crescere.
Lotta
e mediazione politica. Lotta e trattativa con le istituzioni. Questa
prospettiva – da noi come in Germania – è resa possibile e
necessaria non dalla timidezza e dall’arretratezza del conflitto
sociale, ma, al contrario, dall’estrema maturità del suoi
contenuti.
Contro
il militarismo statale e contro ogni riproposizione della «lotta
armata», (di cui non c’è una versione «buona», alternativa al
terzinternazionalismo brigatista, ma nel suo insieme, come tale,
risulta incongrua e nemica ai nuovi movimenti) bisogna riprendere e
sviluppare il filo del ’77. Una potenza produttiva, collettiva e
individuale, che si colloca contro e oltre il lavoro salariato, e con
cui lo stato deve fare i conti anche in termini amministrativi ed
econometrici, può essere, al tempo stesso, separata, antagonista e
capace di mediazione.
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