sabato 7 aprile 2018

7 aprile. Una interpretazione degli anni Settanta e dell’autonomia operaia proposta da undici imputati detenuti a Rebibbia

Di: Lucio Castellano, Arrigo Cavallina, Giustino Cortiana, Mario Dalmaviva, Luciano Ferrari Bravo. Chicco Funaro, Antonio Negri, Paolo Pozzi, Franco Tommei. Emilio Vesce, Paolo Virno. 
Da: https://www.autistici.org/operaismo/Autonomi3/index.html  - Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/11/storia-del-sessantotto-michele-brambilla.html 




Il manifesto 20-02-83/22-02-83
Queste pagine, scritte da undici detenuti del 7 aprile a Rebibbia, non sono un documento per la difesa. Sono un tracciato di identità e una proposta di interpretazione di quel che è stata l’Autonomia nella realtà sociale e politica dell’Italia degli anni ’70. Da sottoporre una discussione, che già noi cominceremo.
Fin d’ora vorremmo dire due cose. La prima è che questo scritto è un atto di lealtà; gli imputati del 7 aprile non si presentano come vittime e tanto meno come pentiti, anche se si interrogano su una sconfitta; pur sapendo che questo non accattiverà loro la benevolenza di una opinione che oggi rigetta lontano da sé ogni memoria (e di qui il titolo ironico e autoironico da loro scelto). La seconda è che di questo loro documento tutto, ci sembra, può essere discusso, e anche radicalmente ma dovrebbe esserlo con onestà, ricollocando le parole e il loro senso nel contesto degli anni cui si riferiscono («violenza» sarà il test del buon teorico). Dopo di che, si può anche dissentire da tutto. Il manifesto è aperto a ogni contributo che abbia questo spirito. (r. r.)


Do you remember revolution? Proposta di lettura storico-politica per il movimento degli anni Settanta
Guardando indietro, riesaminando ancora una volta con la memoria e la ragione gli anni ’70, di una cosa almeno siamo certi: che la storia del movimento rivoluzionario, dell’opposizione extraparlamentare prima e dell’autonomia poi, non è stata storta di emarginati o di eccentrici, cronaca di allucinazioni settarie, vicenda catacombale o furore di ghetto. Crediamo realistico affermare, viceversa, che questa storia – una cui parte è divenuta materia processuale – sia intrecciata inestricabilmente alla storia complessiva del paese, ai passaggi cruciali e alle cesure che l’hanno scandita.
Tenendo fermo questo punto di vista (In sé banale, eppure, di questi tempi, temerario e persino provocatorio), avanziamo un blocco d’ipotesi storico-politiche sul passato decennio, che esulano da preoccupazioni d’immediata difesa giudiziaria. Le considerazioni che seguono sovente in forma di semplice posizione di problemi, non sono rivolte ai giudici, finora interessati solo alla mercanzia dei «pentiti», ma a tutti coloro che negli anni trascorsi hanno lottato: ai compagni del ’68, a quelli del ’77, agli intellettuali che hanno «dissentito» (è così che s’usa dire, ora?) giudicando razionale la rivolta. Perché intervengano a loro volta, rompendo il circolo vizioso della rimozione e del nuovo conformismo.
Riteniamo sia venuto il momento di riaffrontare la verità storica degli anni ’70. Contro i pentiti, la verità. Dopo e contro i pentiti, un giudizio politico. Una complessiva assunzione di responsabilità è oggi possibile e necessaria: e uno dei passi funzionali all’affermazione piena del «post-terrorismo» come dimensione propria del confronto fra nuovi movimenti e istituzioni.
Che non abbiamo nulla da spartire col terrorismo è ovvio; che siamo stati «sovversivi» lo è altrettanto. Fra queste due «ovvietà» si gioca il nostro processo. Nulla è scontato, la volontà dei giudici di omologare sovversione e terrorismo è nota, è intensa: condurremo con i mezzi idonei, tecnico-politici, la battaglia difensiva. Ma la ricostruzione storica degli anni ’70 non può svilupparsi convenientemente solo nell’aula del Foro Italico: occorre che si apra un dibattito franco e di ampio respiro, in parallelo al processo, fra i soggetti reali che sono stati protagonisti della «grande trasformazione». È, questo, fra l’altro o soprattutto, un requisito irrinunciabile per parlare in termini adeguati delle tensioni che pervadono i nostri anni ’80.

1– La caratteristica specifica del ’68 Italiano è la commistione fra fenomeni sociali innovativi e dirompenti – per molti versi tipici di una industrializzazione matura – e il paradigma classico della rivoluzione politica comunista.
La critica radicale del lavoro salariato, il suo rifiuto di massa, è il contenuto eminente del movimento di lotta, la matrice di un antagonismo forte e durevole, la «sostanza di cose sperate». Di essa si alimenta la contestazione dei ruoli e delle gerarchie, l’egualitarismo salariale, l’attacco all’organizzazione del sapere sociale, la tensione a modificare la vita quotidiana: in una parola, l’aspirazione ad una libertà concreta.
In altri paesi dell’occidente capitalistico (Germania, Usa), queste stesse spinte trasformative si erano sviluppate come mutamento molecolare del rapporti sociali, senza porre direttamente e immediatamente il problema del potere politico, di una gestione alternativa dello Stato. In Francia e in Italia, a causa delle rigidità istituzionali e della forma assai semplificata di regolamentazione del conflitto, il tema del potere, della sua «presa», diviene subito preminente.
In Italia, in special modo, nonostante che per molti aspetti il '68 marcasse un’acuta discontinuità rispetto alla tradizione «lavorista» e statalista del movimento operaio storico, il modello politico comunista si innesta in modo vitale sul corpo del nuovi movimenti. L’estrema polarizzazione dello scontro di classe e la povertà di un tessuto di mediazione politica (da un lato le commissioni interne, dall’altra, prima della nascita degli enti locali, un Welfare ancora ipercentralistico) favoriscono un effettivo intreccio fra la richiesta di maggior reddito e maggior libertà e l’obiettivo leninista dello «spezzare la macchina dello Stato».

2 – Fra il ’68 e i primi anni ’70, il problema dello sbocco politico delle lotte è stato all’ordine del giorno di tutta intera la sinistra, sia «vecchia» che «nuova».
Tanto il Pci e il sindacato quanto i gruppi extraparlamentari puntavano a una modificazione drastica negli equilibri di potere, che portasse a fondo e stabilizzasse il cambiamento nei rapporti di forza già avvenuto nelle fabbriche e nel mercato del lavoro. Sulla natura e la qualità di questo sbocco di potere – comunemente ritenuto necessario e decisivo – c’è stata una lunga e tormentata battaglia per l’egemonia all’interno della sinistra.
I gruppi rivoluzionari, maggioritari nelle scuole e nelle università, ma radicati anche nelle fabbriche e nei servizi, avevano ben presente come il recente moto di trasformazione fosse coinciso con un’eclatante rottura del quadro di legalità precedente; su quella strada intendevano insistere, impedendo un recupero istituzionale dei margini di comando e di profitto. L’estensione delle lotte all’intero territorio metropolitano e la costruzione di forme di contropotere erano indicati come i passi necessari per contrastare il ricatto della crisi economica. Pci e sindacato, invece, vedevano nello sbaraccamento del centro-sinistra e nelle «riforme di struttura» l’esito naturale del ’68. Un nuovo «quadro di compatibilità» e una più complessa e articolata rete di mediazione istituzionale avrebbero dovuto garantire una sorta di protagonismo operalo nel rilancio dello sviluppo economico.
Se la polemica più aspra si è avuta fra organizzazioni extraparlamentari e sinistra storica, è però vero che la lotta ideale per qualificare l’esito del movimento ha attraversato anche orizzontalmente questi due schieramenti. Basti qui ricordare, a puro titolo d’esempio, la critica amendoliana nel confronti della Flm torinese e, in genere, del «sindacato di movimento». Oppure le diverse, spesso diversissime interpretazioni che le componenti del sindacato unitario davano del nascenti «consigli di zona». Allo stesso modo, sull’altro versante, è sufficiente citare la differenza fra il filone operaista e quello marxista-leninista.
Tuttavia, la divisione degli orientamenti si produceva, come si è detto, attorno ad un unico, essenziale problema: la traduzione in termini di potere politico del sommovimento verificatosi nei rapporti sociali a partire dal ’68.

3 – Nei primi anni ’70, i gruppi extraparlamentari impostarono il problema dell'uso della forza, della violenza, in assoluta coerenza con la tradizione comunista rivoluzionaria: ossia giudicando, questo, uno degli strumenti necessari ad intaccare il terreno del potere.
Nessun feticismo del mezzo violento, anzi sua strettissima subordinazione all’avanzamento dello scontro di massa; tuttavia, al tempo stesso, accettazione piena della sua pertinenza. Rispetto allo spesso tessuto della conflittualità sociale, la questione del potere politico presentava un’indubbia discontinuità, un carattere non lineare, specifico. Dopo Avola, dopo Corso Traiano, dopo Battipaglia, il «monopolio statale della forza» appariva ostacolo ineludibile, con cui confrontarsi sistematicamente.
Da un punto di vista programmatico, dunque, la rottura violenta della legalità viene concepita in termini offensivi, come manifestazione di un diverso potere: parole d’ordine come «prendersi la città» o «insurrezione» sintetizzavano questa prospettiva, considerata inevitabile seppur non immediata.
Da un punto di vista concreto, invece, l’organizzazione sul piano dell’illegalità è cosa assai modesta, con una finalizzazione esclusivamente difensiva e contingente: difesa dei picchetti, dell’occupazione delle case, dei cortei, misure preventive di sicurezza rispetto a un’eventuale reazione di destra (non più escludibile dopo Piazza Fontana).
In definitiva: una teoria d’attacco, di rottura, conseguente all’intreccio fra nuovo soggetto politico del ’68 e cultura comunista, e, d’altra parte, realizzazioni pratiche minimali. È tuttavia chiaro come, dopo il «biennio rosso» ’68-’69, per migliaia e migliaia di militanti, compresi i quadri di base del sindacato, fosse assolutamente un fatto di senso comune l’attrezzarsi sul terreno «illegale», come pure dibattere pubblicamente tempi e modi dell’impatto con le strutture repressive dello Stato.

4 – In quegli anni, il ruolo delle prime organizzazioni clandestine (GAP, BR) è del tutto marginale, estraneo alle tematiche del movimento.
La clandestinità, il richiamo ossessivo alla tradizione partigiana, il riferimento all’operaio professionale non hanno nulla a che spartire con l’organizzazione della violenza da parte delle avanguardie di classe e del gruppi rivoluzionari.
I Gap, ricollegandosi all’antifascismo resistenziale e alla tradizione comunista del «doppio binario» degli anni ’50, propugnavano l’adozione di misure preventive in vista di un golpe dato per imminente. Le Br – formatesi dalla confluenza dei marxisti-leninisti di Trento, degli ex-Pci della bassa milanese e degli ex-Fgci emiliani – cercarono, durante tutta la prima fase, simpatie e contatti nella base comunista, non nel movimento rivoluzionario. Antifascismo e «lotta armata per le riforme» caratterizzavano il loro operato.
Paradossalmente, proprio l’accettazione di una prospettiva di lotta anche illegale e violenta da parte delle avanguardie comuniste di movimento rendeva assoluta e incolmabile la distanza rispetto alla clandestinità e alla «lotta armata» come opzione strategica. Gli sporadici contatti, che pure vi furono, tra «gruppi» e prime organizzazioni armate non attenuarono, ma anzi sottolinearono nel modo più netto l’inconciliabilità di culture e linee politiche.

5 – Nel ’73-’74, lo sfondo politico complessivo su cui era cresciuto per anni il movimento va in pezzi. In un breve arco di tempo si producono molteplici rotture di continuità, mutano prospettive e comportamenti, si alterano le stesse condizioni entro cui ha luogo il conflitto sociale. Questa brusca svolta si spiega in base a numerose cause concomitanti ed interagenti. La prima è costituita dal giudizio del Pci sulla chiusura di spazi a livello internazionale, con la conseguente urgenza di praticare uno «sbocco politico» immediato, alle condizioni date.
Ciò ha comportato una frattura, destinata ad approfondirsi, all’interno di quello schieramento politico-sociale, composito ma fino ad allora sostanzialmente unitario, che aveva ricercato, dopo il ’68, un approdo sul terreno del potere che riflettesse la radicalità delle lotte e dei loro contenuti trasformativi. Una parte della sinistra (Pci e sindacato confederale) comincia ad approssimare il terreno governativo contro larghi settori del movimento.
L’opposizione extraparlamentare è costretta a ridefinirsi rispetto al «compromesso» perseguito dal Pci. E questa ridefinizione significa crisi e progressiva perdita d’identità. Infatti la lotta per l’egemonia nella sinistra, che in certa misura aveva giustificato l’esistenza dei «gruppi», sembra ora risolta da una decisione unilaterale, che spacca, separa le prospettive, mette fine alla dialettica.
D’ora in avanti il tema dello «sbocco politico», della gestione alternativa dello Stato, s’identifica col moderatismo della politica del Pci. Alle organizzazioni extraparlamentari intenzionate a muoversi ancora su quel terreno non resta che cercare d’inseguire e condizionare la traiettoria del «compromesso», costituendone la versione estremista (si ricordi la presentazione di liste «rivoluzionarie» alle amministrative del ’75 e alle politiche del ’76). Altri gruppi, invece, toccano con mano tutti i limiti della propria esperienza, e in tempi più o meno lunghi vanno incontro allo scioglimento.

6 – In secondo luogo, con i contratti del ’72-’73, la figura centrale delle lotte di fabbrica, l’operaio della linea di montaggio, l’operaio massa, esaurisce il suo ruolo ricompositivo e offensivo. Ha inizio la ristrutturazione della grande impresa.
Il ricorso alla cassa integrazione e il primo parziale rinnovamento delle tecnologie modificano in radice l'assetto produttivo, smussando l’incisività delle precedenti forme di lotta, sciopero compreso. I «gruppi omogenei» e il loro potere sull’organizzazione del lavoro vengono sconvolti dalla ristrutturazione del macchinario e della giornata lavorativa. La rappresentatività dei consigli di fabbrica, e quindi la dialettica tra «destra» e «sinistra» al loro interno, rattrappisce in fretta.
Il potere dell’operaio di linea non è indebolito dalla pressione di un tradizionale quanto fantomatico «esercito industriale di riserva», insomma dalla concorrenza di disoccupati. Il punto è che la riconversione industriale privilegia investimenti in settori diversi dalla produzione di massa, rendendo così centrali, da relativamente marginai che erano, altri segmenti di forza-lavoro (femminile, giovanile, ad alta scolarizzazione) con minore storia organizzativa alle spalle. Ora il terreno di scontro sempre più riguarda gli equilibri complessivi del mercato del lavoro, la spesa pubblica, la riproduzione proletaria e giovanile, la distribuzione di quote di reddito indipendenti dalla prestazione lavorativa.

7 – In terzo luogo, si ha un mutamento per linee interne della soggettività del movimento, della sua «cultura», del suo orizzonte progettuale. Per dirla in breve: si consuma una rottura con l’intera tradizione del movimento operaio, con l’idea stessa di «presa del potere», con l’obiettivo canonico della «dittatura proletaria», con i residui bagliori del «socialismo reale», con qualsivoglia vocazione gestionale.
Quanto gli strideva nel connubio sessantottesco tra contenuti innovativi del movimento e modello della rivoluzione politica comunista, ora si divarica nel modo più completo. Il potere è visto come una realtà estranea e nemica, dalla quale ci si deve difendere, che però non serve né conquistare né abbattere, ma solo ridurre, tenere lontano. Il punto decisivo è l’affermazione di sé come società alternativa, come ricchezza di comunicazione, di libere capacità produttive, di forme di vita. Conquistare e gestire propri «spazi» – questa diviene la pratica dominante dei soggetti sociali per i quali il lavoro salariato non è più il luogo forte della socializzazione – ma puro e semplice «episodio», contingenza, disvalore.
Il movimento femminista, con la sua pratica di comunità e di separatezza, con la sua critica della politica e del poteri, con la sua aspra diffidenza per ogni rappresentazione istituzionale e «generale» di bisogni e desideri, col suo amore per le differenze, è emblematico della nuova fase. Ad esso, esplicitamente o meno, s’ispireranno i percorsi del proletariato giovanile a metà degli anni ’70. Lo stesso referendum sul divorzio è una spia di grande significato sulla tendenza all’«autonomia del sociale».
Impossibile parlare ancora di «album di famiglia», sia pure di una famiglia rissosa. La nuova soggettività di massa è un alieno per il movimento operaio: linguaggi e obiettivi non comunicano più. La stessa categoria dell’«estremismo» ormai non spiega nulla, e anzi confonde e intorbida. Si può essere «estremisti» solo rispetto a qualcosa di simile: ma è proprio tale «somiglianza» che viene rapidamente meno. Chi cerca continuità, chi ha a cuore l’«album», può rivolgersi solo all’universo separato delle «organizzazioni combattenti» marxiste-leniniste.

8 – Tutti e tre gli aspetti del giro di boa avvenuto fra il ’73 e il ’75, ma in particolare l’ultimo, concorrono alta nascita dell’ «autonomia operaia».
L’autonomia si forma contro il progetto di «compromesso», in risposta al fallimento del gruppi, oltre il fabbrichismo, interagendo conflittualmente con la ristrutturazione produttiva. Ma soprattutto esprime la nuova soggettività, la ricchezza delle sue differenze, la sua estraneità alla politica formale e ai meccanismi della rappresentanza. Non «sbocco politico», ma concreta e articolata potenza del sociale.
In questo senso, il localismo è un carattere definitorio dell’esperienza autonoma: la profonda distanza dalla prospettiva di una possibile gestione alternativa dello Stato esclude una centralizzazione del movimento. Ogni filone regionale dell’autonomia ricalca le particolarità concrete della composizione di classe, senza sentire questo come un limite, ma anzi come una ragione d’essere. È letteralmente impossibile, quindi, tracciare una storia unitaria dell’autonomia romana e di quella milanese, o di quella veneta e di quella meridionale.

9 – Dal ’74 al ’76 s’intensifica e si diffonde la pratica dell’illegalità e della violenza. Ma questa dimensione dell’antagonismo, sconosciuta nel periodo precedente, non ha alcuna finalizzazione complessiva antistatuale, non prefigura alcuna «rottura rivoluzionaria». Questo è l’aspetto essenziale. Nelle metropoli la violenza cresce in funzione di una soddisfazione immediata di bisogni, della conquista di «spazi» da gestire in piena indipendenza, come reazione ai tagli della spesa pubblica.
Nel ’74 l’autoriduzione dei trasporti, organizzata a Torino dal sindacato, rilancia con clamore l’illegalità di massa, già sperimentata in precedenza soprattutto a proposito degli affitti. Pressoché dovunque, e in riferimento a tutto il ventaglio delle spese sociali, viene attuata questa particolare forma di garanzia del reddito. Se il sindacato aveva inteso l’autoriduzione come gesto simbolico, il movimento ne fa un percorso materiale generalizzato.
Ma più ancora che l’autoriduzione è l’occupazione delle case a S. Basilio nell’ottobre ’74 a segnare un punto di svolta, giacché presentava un alto grado di «militarizzazione» spontanea, di difesa di massa in risposta alla sanguinaria aggressione poliziesca. L’altra tappa decisiva per il movimento consiste nelle grandi manifestazioni milanesi della primavera ’75 in seguito all’uccisione di Varani e Zibecchi ad opera di fascisti e carabinieri. Gli scontri durissimi di piazza sono il punto di partenza per una sequenza di lotte che investono le misure economiche dell’«austerità», anzi quelli che sono già i primi passi della «politica del sacrifici». Lungo tutto il ’75 e il ’76 si ha il passaggio – per molti versi «classico» nella storia del Welfare – dall’autoriduzione all’appropriazione: da un comportamento difensivo nel confronti del continui aumenti delle tariffe ad una pratica offensiva di soddisfazione collettiva del bisogni, che punta a ribaltare i meccanismi della crisi.
L’appropriazione – la cui massima esemplificazione sul piano internazionale è la notte del black-out newyorkese – riguarda tutti gli aspetti dell’esistenza metropolitana: è «spesa politica», occupazione di locali per attività associative libere, è la «serena abitudine» del proletariato giovanile di non pagare il biglietto al cinema e ai concerti, è blocco degli straordinari e dilatazione delle pause in fabbrica. Ma soprattutto è appropriazione del «tempo di vita», liberazione dal comando di fabbrica, ricerca di comunità.

10 – A metà degli anni ’70, si profilano due tendenze distinte alla riproduzione allargata delta violenza. Se si vuole, schematizzando con buona approssimazione, due diverse genesi della spinta alla «militarizzazione del movimento». La prima è la resistenza ad oltranza alla ristrutturazione produttiva nelle grandi e medie fabbriche.
Ne sono protagonisti molti quadri operai formatisi politicamente tra il ’68 e il ’73, decisi a difendere a tutti i costi l'assetto materiale su cui era maturata la loro forza contrattuale. La ristrutturazione è vissuta come catastrofe politica. Soprattutto i militanti di fabbrica che si erano impegnati più a fondo nell’esperienza dei consigli sono portati a identificare ristrutturazione e sconfitta, confermati in ciò dai ripetuti cedimenti sindacali sulle condizioni materiali di lavoro. Lasciar la fabbrica com’era per preservare un rapporto di forza favorevole: questo il nocciolo di tale posizione.
Ed e su questo grumo di problemi e fra le fila di questo personale politico-sindacale che le BR, dal ’74- ’75 in poi, riscuotono simpatie e riescono a conseguire un certo livello di radicamento.

11 – L’altro filone d’illegalità – per molti versi diametralmente opposto al primo – è costituito dai soggetti sociali che sono il risultato delta ristrutturazione, del decentramento produttivo, della mobilità. La violenza è qui generata dall’assenza di garanzia, dalle forme frantumate e precarie di conseguimento del reddito, dall’impatto immediato con la dimensione sociale, territoriale, complessiva del comando capitalistico.
La figura proletaria emergente dalla ristrutturazione si scontra violentemente con l’organizzazione della metropoli, con l’amministrazione dei flussi di reddito, per l’autogoverno della giornata lavorativa. Questo secondo genere d’illegalità, che grossomodo può essere collegato all’esperienza autonoma, non ha mai il carattere di un progetto organico, ma è contraddistinto dalla totale coincidenza fra la forma della lotta e l’ottenimento dell’obiettivo. Ciò comporta l’assenza di «strutture» o «funzioni» separate, specifiche, predisposte all’uso della forza.
A meno che non si voglia accettare il «pasolinismo» come suprema categoria di comprensione sociologica, non si può non rilevare come la violenza diffusa del movimento di quegli anni fosse un necessario strumento di autoidentificazione e di affermazione di un nuovo, potente soggetto produttivo nato dal declino della centralità della fabbrica e sottoposto alla pressione massiccia della crisi economica.

12 – Il movimento del ’77, nei suoi connotati essenziali, esprime la nuova composizione di classe, non fenomeni d’emarginazione.
La «seconda società» è, o si avvia ad essere, la «prima» quanto a capacità produttive, intelligenza tecnico-scientifica, ricchezza di cooperazione. I nuovi soggetti delle lotte riflettono, o anticipano, l’identificazione crescente fra processo lavorativo materiale e attività comunicativa, in breve la realtà della fabbrica informatizzata e del terziario avanzato.
Il movimento è forza produttiva ricca, indipendente, conflittuale. La critica del lavoro salariato mostra ora un versante affermativo, creativo, sotto forma di «autoimprenditorialità» e di parziale gestione dal basso del meccanismi del Welfare.
La «seconda società» che occupa la scena nel ’77 è «asimmetrica» rispetto al potere statale: non contrapposizione frontale, ma elusione, ossia, concretamente, ricerca di spazi di libertà e di reddito ove consolidarsi e crescere.
Questa «asimmetricità» era un dato prezioso, che testimoniava della consistenza del processi sociali in corso. Ma richiedeva tempo. Tempo e mediazione. Tempo e trattativa.

13 – Invece l’operazione restaurativa del compromesso storico nega tempo e spazi al movimento, ripropone una simmetricità contrappositiva fra Stato e lotte.
Il movimento si trova sottoposto a uno spaventoso processo di accelerazione, bloccato nella sua potenziale articolazione. In totale assenza di margini di mediazione. Diversamente da quanto avviene in altri paesi europei, e segnatamente in Germania, dove l’operazione repressiva si accompagna a forme di contrattazione con i movimenti e pertanto non intacca la loro riproduzione, il compromesso storico procede con un largo maglio negando legittimità a tutto ciò che sfugge e si oppone alla nuova regolamentazione corporativa del conflitto. In Italia l’intenzione repressiva ha una tale generalità da volgersi direttamente contro le spinte sociali spontanee.
Accade così che l’adozione sistematica di provvedimenti politico-militari da parte governativa reintroduce in modo «esogeno» la necessità della lotta politica generale, spesso come pura e semplice «lotta per la sopravvivenza», mentre marginalizza e costringe al ghetto le pratiche emancipative del movimento, la sua densa positività sul terreno della qualità della vita e della soddisfazione diretta del bisogni.

14 – L’autonomia organizzata si trova stretta nella forbice fra «ghetto» e scontro immediato con lo Stato. La sua «schizofrenia» e poi la sua sconfitta hanno origine dal tentativo di richiudere questa forbice, mantenendo un rapporto fra ricchezza e articolazione sociale del movimento, da un lato, e necessità proprie dello scontro antistatuale, dall’altro.
Questo tentativo risulta, nel giro di pochi mesi, del tutto impossibile, fallisce su entrambi i fronti. L’«accelerazione» senza precedenti del ’77 fa sì che l’autonomia organizzata perda lentamente i contatti con quei soggetti, che, sottraendosi alla lotta politica tradizionale, percorrono sentieri diversificati – talvolta «individuali», talaltra persino «cogestionali» – per lavorare di meno, vivere meglio, produrre liberamente. E, d’altronde, la stessa «accelerazione» porta l’autonomia a recidere ogni contatto con quelle pulsioni militariste, che, presenti all’interno del movimento e della stessa autonomia, diventano in breve tempo tendenza separata alla formazione di bande armate.
La forbice, anziché richiudersi, non fa che approfondirsi. La forma organizzativa dell’autonomia, il suo discorso sul potere, la sua concezione della politica sono pesantemente messi in discussione sia dal «ghetto» sia dalle posizioni «militariste».
Bisogna aggiungere, tuttavia, che l’autonomia sconta allora anche tutte le debolezze del proprio modello politico-culturale, incentrato sulla crescita lineare del movimento, sulla sua continua espansione e radicalizzazione. È un modello in cui s’intrecciano vecchio e nuovo: «vecchio» estremismo anti-istituzionale e nuovi bisogni emancipativi. La separatezza e l’«alterità» che contraddistinguono i nuovi soggetti e le loro lotte vengono spesso lette da autonomia come negazione di qualsiasi mediazione politica, anziché come supporto di essa. L’antagonismo immediato si contrappone ad ogni interlocuzione, ad ogni «trattativa», ad ogni «uso» delle istituzioni.

15 – Sul finire del ’77 e lungo tutto il ’78 si moltiplicano le formazioni organizzate operanti su un terreno specificamente militare, mentre si accentua la crisi dell’autonomia organizzata.
Agli occhi di molti l’equazione «lotta politica=lotta armata» appare l’unica risposta realistica alla morsa che il compromesso storico ha stretto attorno al movimento. In una prima fase – secondo uno schema ripetutosi innumerevoli volte – gruppi di militanti, interni al movimento, compiono il cosiddetto «salto» dalla violenza endemica alla lotta armata, concependo però questa scelta e le sue pesanti obbligazioni come «articolazione» delle lotte, come creazione di una specie di «struttura di servizio». Ma una forma d’organizzazione specificamente finalizzata all’azione armata si rivela strutturalmente disomogenea con le pratiche del movimento, non può che separarsene in tempi più o meno brevi. Avviene pertanto che le numerose sigle di «organizzazioni combattenti» nate tra il ’77 e il ’78 finiscono per ricalcare il modello, inizialmente avversato, delle Br, o addirittura per confluire in esse. I guerriglieri storici, le Br, proprio in quanto detentori di una «guerra contro lo stato» completamente sganciata dalle dinamiche di movimento, finiscono per ampliarsi «parassitariamente» sulle sconfitte della lotta di massa.
In particolare a Roma, alla fine del ’77, si realizza un reclutamento di grandi proporzioni delle Br fra le fila di un movimento in crisi. L’autonomia, nel corso di quell’anno, aveva toccato con mano tutti i propri gravi limiti, opponendo al militarismo di stato un’iterativa radicalizzazione dello scontro di piazza, che non permetteva di consolidare, ma anzi disperdeva le potenzialità del movimento. La stretta repressiva e gli errori dell’autonomia a Roma e in qualche altra città hanno spianato la strada alle Br. Quest’ultima organizzazione, che aveva criticato con asprezza le lotte del ’77, si è ritrovata, paradossalmente, a raccoglierne frutti cospicui in termini di rafforzamento organizzativo.

16 – La sconfitta del movimento del 1977 inizia col rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.
Le Br, in modo analogo seppur tragicamente parodistico a quanto aveva fatto la sinistra storica a metà degli anni ’70, perseguono un loro «sbocco politico» separato sulla pelle dell’antagonismo sociale.
La «cultura» delle Br – coi suoi tribunali, carceri, prigionieri, processi – e la loro pratica di «frazione armata» tutta interna all’autonomia del politico, sono giocate tanto contro i nuovi soggetti del conflitto quanto contro l’assetto istituzionale.
Con l’«operazione Moro» si rompe definitivamente l’unità del movimento, comincia una fase di crepuscolo e di deriva, caratterizzata dalla lotta frontale dell’autonomia contro il brigatismo, ma anche dal recedere dalla lotta politica di larghi settori proletari e giovanili. L’«emergenza», di cui stato e Pci battono la grancassa, mena colpi al buio, e anzi sceglie ciò che è emerso e pubblico e «sovversivo» come testa di turco su cui esercitare in prima istanza la propria distruttività. Autonomia si trova cosi sottoposta a un violentissimo attacco che punta anzitutto a fare terra bruciata nelle grandi fabbriche del nord. Così i «collettivi autonomi» di fabbrica sono senz’altro accusati di probabile filo-terrorismo da parte del sindacato e del Pci, sospettati, denunciati, schedati. E quando, proprio nel giorni del sequestro Moro, autonomia lancia la lotta contro i sabati lavorativi all’Alfa Romeo, la risposta della sinistra storica è una risposta «antiterroristica», militaresca, demonizzante. Comincia così il processo d’espulsione dalle fabbriche della nuova generazione di avanguardie di lotta – processo che culminerà col licenziamento dei 61 Fiat nell’autunno ’79.

17 – Dopo Moro, sullo scenario desolato di una società civile militarizzata, stato e Br si scontrano con logica speculare.
Le Br percorrono rapidamente quella parabola irreversibile che porta la lotta armata a divenire «terrorismo» in senso proprio: iniziano le campagne di annientamento. Carabinieri, giudici, magistrati, dirigenti d’azienda, sindacalisti vengono uccisi ormai solo per la loro «funzione» – come in seguito spiegheranno i «pentiti». I rastrellamenti contro autonomia, nel ’79, hanno peraltro eliminato l’unico tessuto connettivo politico del movimento in grado di contrastare efficacemente la logica terroristica. Così, fra il ’79 e l’81, le Br possono per la prima volta reclutare militanti non solo nelle «organizzazioni combattenti» minori, ma direttamente tra giovani e giovanissimi appena politicizzati, il cui scontento e rabbia sono ormai privi di qualsiasi mediazione politica e programmatica.

18 – I pentiti, come fenomeno di massa, sono l’altra faccia del terrorismo, ugualmente militaresca, ugualmente orrida.
Il pentitismo è la variante estrema del terrorismo, il suo pavloviano «riflesso condizionato», la testimonianza ultima della sua totale estraneità e astrattezza rispetto al tessuto di movimento. L’incompatibilità tra nuovo soggetto sociale e lotta armata si manifesta in modo distorto e terribile nei verbali mercanteggiati.
Il pentitismo è «logica d’annientamento» giudiziaria, vendetta indiscriminata, celebrazione dell’assenza di memoria storica proprio mentre si fa funzionare in modo perverso e manovrato una «memoria» individuale. I pentiti dicono il falso anche quando dicono la «verità», giacché unificano ciò che è diviso, aboliscono le motivazioni e il contesto, rievocano gli effetti senza le cause, stabiliscono nessi presunti, interpretano con gli occhi dei vari «teoremi».
Il pentitismo è terrorismo introiettato nelle istituzioni. Non si dà post-terrorismo senza un parallelo superamento della cultura del pentimento.

19 – La sconfitta secca e definitiva delle organizzazioni politiche di movimento, alla fine degli anni ’70, non ha coinciso nemmeno in parte con una sconfitta del nuovo soggetto politico e produttivo, che nel ’77 ha fatto la sua "prova generate".
Questo soggetto ha compiuto una lunga marcia nei luoghi di lavoro, nell’organizzazione del sapere sociale, nell’«economia alternativa», negli enti locali, negli apparati amministrativi. Si è diffuso procedendo rasoterra, rifuggendo lo scontro politico diretto, destreggiandosi tra ghetto e trattativa, fra separatezza e cogestione. Seppur compresso e sovente costretto alla passività, costituisce oggi più di ieri il nodo irrisolto della crisi italiana.
La riarticolazione della giornata lavorativa e la pressione sulla spesa pubblica, le questioni della tutela dell’ambiente e della scelta fra le tecnologie, la crisi del sistema dei partiti e il problema di una nuova pattuizione costituzionale: dietro tutto ciò, e non solo nelle pieghe del Rapporto Censis, vive intatta la densità di un soggetto di massa con le sue esigenze di salario, di libertà, di pace.

20 – Dopo il compromesso storico e dopo il terrorismo, si tratta di nuovo, esattamente come nel ’77, di aprire spazi di mediazione, che consentano ai movimenti di esprimersi e crescere.
Lotta e mediazione politica. Lotta e trattativa con le istituzioni. Questa prospettiva – da noi come in Germania – è resa possibile e necessaria non dalla timidezza e dall’arretratezza del conflitto sociale, ma, al contrario, dall’estrema maturità del suoi contenuti.
Contro il militarismo statale e contro ogni riproposizione della «lotta armata», (di cui non c’è una versione «buona», alternativa al terzinternazionalismo brigatista, ma nel suo insieme, come tale, risulta incongrua e nemica ai nuovi movimenti) bisogna riprendere e sviluppare il filo del ’77. Una potenza produttiva, collettiva e individuale, che si colloca contro e oltre il lavoro salariato, e con cui lo stato deve fare i conti anche in termini amministrativi ed econometrici, può essere, al tempo stesso, separata, antagonista e capace di mediazione. 

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