Il lettore non si lasci ingannare: il titolo del libro è Scritti filosofici, ma con le pagine qui raccolte la filosofia in realtà ha ben poco a che fare e, quando invece è evidentemente presente, lo è ad un livello assai modesto, che non esclude addirittura errori.
La realtà è che il marxismo deve la sua
complessità anche al fatto di essere varie cose, per quanto
collegate l’una all’altra.
Il
marxismo,
ad esempio, è un certo
modo di disporsi di fronte al mondo,
riconoscendosi il soggetto umano parte attiva di esso, principalmente
perché orientato – il soggetto – all’umanizzazione
del mondo (e qui si vede la grande influenza, in particolare, della
Fenomenologia
hegeliana su Marx); impegnato a fare del mondo qualcosa, che
concreta, potenzia ed arricchisce la libertà umana e non
l’avvilisce, invece, alla condizione della mèra dipendenza dalla
“leggi del mondo” (o di dio: è la stessa cosa).
In
altre parole il marxismo è una visione
del mondo
(Weltanschauung),
il che significa non solo un modo di giudicar le cose (ad esempio,
l’affermazione del loro esser conoscibili e non rappresentare,
invece, quella sostanza vera, che travalicando le apparenze, si
colloca oltre le possibilità conoscitive umane).
Ma
proprio perché visione del mondo, il marxismo è, anche, assunzione
di un atteggiamento
morale (per fare gli
esempi più ovvi, si pensi all’anti-talmudismo di cui diceva
Togliatti o alla serrata critica della tradizione giudaico-cristiana
– e di ogni religione –, che si trova esplicitamente in Marx, non
a caso allievo di Hegel e di una lunga tradizione classica).
È
utile qui ricordare Lenin,
quando afferma della religione che essa è << … una delle
cose più ignobili, che possano esistere al mondo …>>.
Si
potrebbe dire che è, quindi, quasi ovvio il fatto che l’interesse
del marxismo sia
focalizzato essenzialmente sulla storia
e sull’economia,
dunque, sulle complessità
della concreta vita sociale
umana.
E proprio qui il marxismo raggiunge quelli, che
forse sono i suoi più rilevanti risultati: riuscire a fornire la
scienza sociale degli strumenti per cogliere le connessioni (anche
variamente contraddittorie) tra i diversi livelli della realtà
sociale; ed ancora una riorganizzazione della tradizionale disciplina
economica, che così diventa effettivamente parte fondamentale della
vicenda storica complessiva.
Dunque,
il marxismo come visione
del mondo, come
modo di concepire la
storia dell’uomo
ed, ancora, il marxismo
come critica
dell’economia
politica, in nome di
una radicale
riorganizzazione dell’economico.
Perché dell’insieme di queste angolazioni, attraverso cui il marxismo si rapporta al mondo, deriva una precisa potenzialità politica del marxismo stesso: è questo che, solo, si può intendere legittimamente, quando si afferma che il marxismo è guida dell’azione rivoluzionaria del proletariato.
Il
fatto, però, è che questo intrinseco rapporto fra teoria
marxista
e prassi
politico-sindacale del
proletariato, col tempo, è divenuto l’unico
senso, accettato come
vero, del nesso,
enfaticamente affermato, fra
teoria e prassi.
L’errore è evidente: infatti, non esiste
unicamente una prassi politico-sindacale, ma sì anche una prassi
morale, scientifica, matematica, artistica ecc.
E
sarebbe gravissimo errore
(compiuto in particolare – ma non solo – dal marxismo della III
Internazionale) quello
di non comprendere che per ognuno di questi ambiti prassi
ha un significato particolare, implicita procedure particolari e, di
rimando, presuppone non una generica teoria, ma sì, volta a volta,
una teoria matematica,
filosofica o
artistica o
che altro si voglia.
Appare
del tutto evidente come da questo “errore”
(ma non è il termine giusto) derivi la tesi che il segretario
del partito (sia Mao, sia Stalin o sia Togliatti) è anche il miglior
marxista; che la
cultura e l’arte in particolare siano soggette alla direzione
del partito (il massimo
organo della prassi) ed, infine, che la stessa filosofia,
la stessa dialettica
abbiano concretamente l’unico compito di sancire
il deliberato politico.
Che a questo punto proprio la dialettica sia
scomparsa appare del tutto evidente.
Ma non dobbiamo commettere l’errore di
destoricizzare gli eventi.
Mao
è un grande dirigente politico, che affronta giganteschi problemi e
riesce, in qualche misura, a cavarne fuori il popolo cinese, in
ciò – voglio
dire non nei suoi Scritti,
ma nella sua azione
politica – quella
sensibilità
dialettica, che gli
permette di comprendere come alla dottrina
marxista ed ai suoi
impliciti, s’ha da intrecciare quell’analisi
concreta della situazione determinata,
che costituisce forse il più forte legame fra Mao e Lenin.
In
altre parole, la
“ricaduta” politica del marxismo
non è opera, neanche per Mao, di deduzione,
di esplicitazione
dell’implicito,
non è un procedere analiticamente.
Ben
al contrario, si tratta di comprendere quale senso
possano avere certe proposizioni generali, in contesti che son –
sempre – specifici, originali e che, dunque, costringono
all’inventività,
alla creatività.
In
realtà, è questo che Mao – con ragione – chiama dialettica.
Ma
quando Mao produce esempi di dialettica e di situazioni dialettiche,
risulta chiaro che il suo problema è come risolvere complessi,
variegati problemi politici, in una Cina in cui 650 milioni di
persone (siamo negli anni Cinquanta) devono
vivere quotidianamente.
Ed
allora il lettore si imbatte in pagine particolarmente vive, che ti
danno l’impressione di trovarti dentro quella concreta
situazione, che Mao e i
comunisti debbono affrontare e risolvere; insomma è come se
il lettore riuscisse a toccare con mano le specifiche complessità di
quella
Cina in quel
momento.
Che
tutto questo abbia a che fare con la dialettica è evidente;
tuttavia, la dialettica non è solo qui, se è vero – in
definitiva – che il ragionamento
politico di Mao molte
volte esibisce tratti di prudenza, di cautela e di capacità di
scadenzare realisticamente tempi e scopi, se insomma il suo discorso
si avvicina a quello di un principe “machiavellicamente”
addestrato, allora è vero che per parlar di dialettica manca ancora
qualcosa.
E
il qualcosa mancante è quell’insieme
di aspetti diversi, che
caratterizzano il
marxismo e di cui
abbiamo accennato, ma che – a partire dagli
anni Trenta almeno
–subiscono un processo
di scolasticizzazione,
di dogmatizzazione
(ben rintracciabili, si badi, già nella II
Internazionale) e che
finiscono collo svolgere il mèro ruolo di garanti
puramente ideologici
della funzione di guida del proletariato.
Insomma,
finiscono col trasformarsi in giustificazioni
della direzione politica.
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