lunedì 9 aprile 2018

INTRODUZIONE a “Scritti filosofici” di Mao - Stefano Garroni


Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano. 


Il lettore non si lasci ingannare: il titolo del libro è Scritti filosofici, ma con le pagine qui raccolte la filosofia in realtà ha ben poco a che fare e, quando invece è evidentemente presente, lo è ad un livello assai modesto, che non esclude addirittura errori.

La realtà è che il marxismo deve la sua complessità anche al fatto di essere varie cose, per quanto collegate l’una all’altra.

Il marxismo, ad esempio, è un certo modo di disporsi di fronte al mondo, riconoscendosi il soggetto umano parte attiva di esso, principalmente perché orientato – il soggetto – all’umanizzazione del mondo (e qui si vede la grande influenza, in particolare, della Fenomenologia hegeliana su Marx); impegnato a fare del mondo qualcosa, che concreta, potenzia ed arricchisce la libertà umana e non l’avvilisce, invece, alla condizione della mèra dipendenza dalla “leggi del mondo” (o di dio: è la stessa cosa).

In altre parole il marxismo è una visione del mondo (Weltanschauung), il che significa non solo un modo di giudicar le cose (ad esempio, l’affermazione del loro esser conoscibili e non rappresentare, invece, quella sostanza vera, che travalicando le apparenze, si colloca oltre le possibilità conoscitive umane).

Ma proprio perché visione del mondo, il marxismo è, anche, assunzione di un atteggiamento morale (per fare gli esempi più ovvi, si pensi all’anti-talmudismo di cui diceva Togliatti o alla serrata critica della tradizione giudaico-cristiana – e di ogni religione –, che si trova                                                                          esplicitamente in Marx, non a caso allievo di Hegel e di una lunga tradizione classica).

È utile qui ricordare Lenin, quando afferma della religione che essa è << … una delle cose più ignobili, che possano esistere al mondo …>>. 

Si potrebbe dire che è, quindi, quasi ovvio il fatto che l’interesse del marxismo sia focalizzato essenzialmente sulla storia e sull’economia, dunque, sulle complessità della concreta vita sociale umana.

E proprio qui il marxismo raggiunge quelli, che forse sono i suoi più rilevanti risultati: riuscire a fornire la scienza sociale degli strumenti per cogliere le connessioni (anche variamente contraddittorie) tra i diversi livelli della realtà sociale; ed ancora una riorganizzazione della tradizionale disciplina economica, che così diventa effettivamente parte fondamentale della vicenda storica complessiva.

Dunque, il marxismo come visione del mondo, come modo di concepire la storia dell’uomo ed, ancora, il marxismo come critica dell’economia politica, in nome di una radicale riorganizzazione dell’economico.

Ma non basta.

Perché dell’insieme di queste angolazioni, attraverso cui il marxismo si rapporta al mondo, deriva una precisa potenzialità politica del marxismo stesso: è questo che, solo, si può intendere legittimamente, quando si afferma che il marxismo è guida dell’azione rivoluzionaria del proletariato.

Il fatto, però, è che questo intrinseco rapporto fra teoria marxista e prassi politico-sindacale del proletariato, col tempo, è divenuto l’unico senso, accettato come vero, del nesso, enfaticamente affermato, fra teoria e prassi.

L’errore è evidente: infatti, non esiste unicamente una prassi politico-sindacale, ma sì anche una prassi morale, scientifica, matematica, artistica ecc.

E sarebbe gravissimo errore (compiuto in particolare – ma non solo – dal marxismo della III Internazionale) quello di non comprendere che per ognuno di questi ambiti prassi ha un significato particolare, implicita procedure particolari e, di rimando, presuppone non una generica teoria, ma sì, volta a volta, una teoria matematica, filosofica o artistica o che altro si voglia.

Appare del tutto evidente come da questo “errore” (ma non è il termine giusto) derivi la tesi che il segretario del partito (sia Mao, sia Stalin o sia Togliatti) è anche il miglior marxista; che la cultura e l’arte in particolare siano soggette alla direzione del partito (il massimo organo della prassi) ed, infine, che la stessa filosofia, la stessa dialettica abbiano concretamente l’unico compito di sancire il deliberato politico.

Che a questo punto proprio la dialettica sia scomparsa appare del tutto evidente.
Ma non dobbiamo commettere l’errore di destoricizzare gli eventi.

Mao è un grande dirigente politico, che affronta giganteschi problemi e riesce, in qualche misura, a cavarne fuori il popolo cinese, in ciò – voglio dire non nei suoi Scritti, ma nella sua azione politica – quella sensibilità dialettica, che gli permette di comprendere come alla dottrina marxista ed ai suoi impliciti, s’ha da intrecciare quell’analisi concreta della situazione determinata, che costituisce forse il più forte legame fra Mao e Lenin.

In altre parole, la “ricaduta” politica del marxismo non è opera, neanche per Mao, di deduzione, di esplicitazione dell’implicito, non è un procedere analiticamente.

Ben al contrario, si tratta di comprendere quale senso possano avere certe proposizioni generali, in contesti che son – sempre – specifici, originali e che, dunque, costringono all’inventività, alla creatività.

In realtà, è questo che Mao – con ragione – chiama dialettica.

Ma quando Mao produce esempi di dialettica e di situazioni dialettiche, risulta chiaro che il suo problema è come risolvere complessi, variegati problemi politici, in una Cina in cui 650 milioni di persone (siamo negli anni Cinquanta) devono vivere quotidianamente.

Ed allora il lettore si imbatte in pagine particolarmente vive, che ti danno l’impressione di trovarti dentro quella concreta situazione, che Mao e i comunisti debbono affrontare e risolvere; insomma è come se il lettore riuscisse a toccare con mano le specifiche complessità di quella Cina in quel momento.

Che tutto questo abbia a che fare con la dialettica è evidente; tuttavia, la dialettica non è solo qui, se è vero – in definitiva – che il ragionamento politico di Mao molte volte esibisce tratti di prudenza, di cautela e di capacità di scadenzare realisticamente tempi e scopi, se insomma il suo discorso si avvicina a quello di un principe “machiavellicamente” addestrato, allora è vero che per parlar di dialettica manca ancora qualcosa.

E il qualcosa mancante è quell’insieme di aspetti diversi, che caratterizzano il marxismo e di cui abbiamo accennato, ma che – a partire dagli anni Trenta almeno –subiscono un processo di scolasticizzazione, di dogmatizzazione (ben rintracciabili, si badi, già nella II Internazionale) e che finiscono collo svolgere il mèro ruolo di garanti puramente ideologici della funzione di guida del proletariato.

Insomma, finiscono col trasformarsi in giustificazioni della direzione politica.

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