martedì 31 ottobre 2017

Alexandre Kojéve, Introduzione alla lettura di Hegel (Fenomenologia dello Spirito) - Silvio Vitellaro

Da:  http://www.vitellaro.it - Silvio Vitellaro, docente di Storia e Filosofia.

Per comprendere l'edificio della storia universale e il processo della sua costruzione, occorre conoscere i materiali che sono serviti a costruirlo. Questi materiali sono gli uomini. Per sapere ciò che è la Storia, occorre dunque sapere ciò che è l'Uomo che la realizza. Certo, l'Uomo è tutt'altra cosa che un mattone. Prima di tutto, se si vuole paragonare la storia universale alla costruzione di un edificio, occorre dire che gli uomini non sono soltanto i mattoni che servono alla costruzione: sono anche i muratori e gli architetti. D'altra parte, l'Uomo è anche colui per il quale questo edificio viene costruito: ci vive, lo vede e lo comprende, lo descrive e lo critica.

L'insieme della Fenomenologia dello spirito, deve rispondere alla domanda: «Cos'è il Sapere assoluto e come è possibile?». Vale a dire: quali devono essere l'Uomo e la sua evoluzione storica perché, a un certo momento di questa evoluzione, un individuo umano, casualmente chiamato Hegel, si veda in possesso di un Sapere assoluto, cioè di un Sapere che gli rivela non più un aspetto particolare e momentaneo dell'Essere, ma l'Essere nel suo insieme integrale, qual è in sé e per sé?

O ancora, per presentare lo stesso problema nel suo aspetto cartesiano: la Fenomenologia dello spirito deve rispondere alla domanda: «Io penso, dunque sono; ma che cosa sono? ».
La risposta cartesiana alla domanda del filosofo: «che cosa sono?», la risposta «Io sono un essere pensante», non soddisfa Hegel. Domandandomi: «che cosa sono?», e rispondendo: «un essere pensante», io comprendo assai poco di me.

Non sono soltanto un essere pensante. Prima di tutto, sono un uomo in carne e ossa, che si sa tale. Poi, quest'uomo non sta sospeso nel vuoto. È seduto su una sedia, davanti a un tavolo, e scrive con una penna su un pezzo di carta. E sa che tutti questi oggetti non sono caduti dal cielo; sa che sono dei prodotti di quella cosa che si chiama il lavoro umano. Sa anche che questo lavoro si effettua in un Mondo umano, in seno a una Natura, di cui egli stesso fa parte. E questo Mondo è presente nel suo spirito. Così, per esempio, ode dei rumori che vengono da lontano. Ma non ode soltanto dei rumori. Sa anche che questi rumori sono colpi di cannone, e sa che i cannoni sono anch'essi prodotti di un Lavoro, fabbricati, questa volta, in vista di una Lotta a morte tra gli uomini.

Nella Fenomenologia dello spirito Hegel dice che il Sapere assoluto è diventato oggettivamente possibile, perché il processo reale dell'evoluzione storica, nel corso della quale l'uomo si è trasformato, è giunto al suo termine. Rivelare il Mondo, cioè rivelare l'essere nella totalità, è diventato possibile perché un uomo chiamato Hegel ha saputo comprendere il Mondo in cui viveva e comprendersi come uno che vive in questo Mondo e lo comprende. Comprendendosi mediante la comprensione della totalità del processo storico antropogeno, comprendendo questo processo mediante l'auto-comprensione, Hegel ha fatto penetrare l'insieme del processo reale universale nella sua coscienza particolare, e ha poi penetrato questa coscienza. Essa è dunque diventata altrettanto totale, universale quanto il processo che, comprendendosi, essa rivela: questa coscienza pienamente cosciente di sé è il Sapere assoluto che, sviluppandosi nel discorso, costituirà il contenuto della filosofia o della Scienza assoluta, di quella Enciclopedia delle scienze filosofiche, che è la summa di ogni sapere possibile.

La filosofia di Descartes è insufficiente, perché la risposta che dà al «che cosa sono?» è stata insufficiente, incompleta. Certo, Descartes non poteva realizzare la filosofia assoluta, al momento in cui egli viveva, la storia non era ancora terminata. Partendo dall'«io penso», Descartes ha fissato la sua attenzione solo sul «penso», trascurando completamente l'«Io». Ma questo Io è essenziale. Infatti l'Uomo, e quindi il Filosofo, è non soltanto Coscienza, ma anche, prima di tutto, Auto-coscienza. L'Uomo non è soltanto un essere che pensa, che cioè rivela l'Essere mediante il Logos, mediante il Discorso formato da parole aventi un senso. Rivela anche, ugualmente mediante un Discorso, l'essere che rivela l'Essere, l'essere che lui stesso è, l'essere rivelatore che egli oppone all'essere rivelato, chiamandolo Ich, Selbst, Io, Me.

Certamente, non c'è esistenza umana senza Bewuβtsein, Coscienza del mondo esterno. Ma perché ci sia veramente esistenza umana occorre che ci sia anche Auto-coscienza. E perché ci sia Auto-coscienza, Selbstbewuβtsein, occorre che ci sia questo Selbst, questo qualcosa di specificamente umano, che l'uomo rivela, che si rivela quando l'uomo dice: « Io... ».

Prima di analizzare l'«Io penso», occorre dunque domandarsi che cos'è questo «soggetto» che si rivela nel e mediante l'io dell'«Io penso». Occorre domandarsi quando, perché e come l'uomo è portato a dire: «Io...». Perché ci sia Auto-coscienza occorre che ci sia, preliminarmente, Coscienza. In altre parole, occorre che ci sia rivelazione dell'Essere mediante la Parola; rivelazione di un Essere che sarà chiamato più tardi «essere oggettivo, esterno», «Mondo», «Natura», ecc., ma che, per il momento, è ancora neutro, perché non c'è ancora Auto-coscienza, e, di conseguenza, non c'è opposizione tra soggetto e oggetto, tra Io e non-Io, tra umano e naturale.

La forma più elementare della Coscienza, della conoscenza dell'Essere e della sua rivelazione mediante la Parola, è studiata da Hegel nel capitolo I, sotto il nome di «Certezza sensibile» (sinnliche Gewiβheit). A partire da questa Coscienza, da questa conoscenza, non c'è alcun mezzo per arrivare alla Auto-coscienza. Per arrivarci, occorre partire da qualcosa che è altro rispetto alla conoscenza contemplativa dell'Essere, alla sua rivelazione passiva che lo lascia qual è in sé, indipendentemente dalla conoscenza che lo rivela.

Infatti, tutti sappiamo che l'uomo che contempla con attenzione una cosa, che vuole vederla qual è, senza nulla mutarvi, è «assorbito» da questa contemplazione, cioè dalla cosa. Egli s'oblia, pensa unicamente alla cosa contemplata; non pensa né alla sua contemplazione, né ancor meno a se stesso, al suo «Sé», al suo Selbst. Tanto meno è auto-cosciente quanto più è cosciente della cosa. Potrà forse parlare della cosa, ma non parlerà mai di se stesso: nel suo discorso non interverrà mai la parola «Io».

Perché questa parola appaia, occorre che ci sia qualcos'altro che la contemplazione puramente passiva, unicamente rivelatrice dell'Essere. E quest'altra cosa è, secondo Hegel, il Desiderio, la Begierde, di cui egli parla all'inizio del capitolo IV.

Infatti, quando l'uomo prova un desiderio, quando ha fame, per esempio, e vuole mangiare — e ne prende coscienza — egli diventa necessariamente auto-cosciente. Il desiderio si rivela sempre come il mio desiderio, e, per rivelarlo, occorre servirsi della parola «Io». L'uomo ha un bell'essere «assorbito» dalla sua contemplazione della cosa; nel momento in cui nasce il desiderio di questa cosa, egli sarà immediatamente «richiamato a sé». Perciò vedrà che, oltre alla cosa, c'è anche la sua contemplazione, c'è anche lui, che non è questa cosa. E la cosa gli appare come un «oggetto» (Gegen-stand), come una realtà esterna, che non è in lui, non è lui, ma è un non-Io.

Quindi alla base dell'Auto-coscienza, cioè dell'esistenza veramente umana, non c'è la contemplazione puramente cognitiva e passiva, ma il Desiderio.

Ora, che cos'è il desiderio — basta pensare al desiderio chiamato «fame» — se non il desiderio di trasformare, mediante un'azione, la cosa-contemplata, di sopprimerla nel suo essere che è senza rapporto con il mio, indipendente da me, di negarla in questa sua indipendenza, e assimilarla a me, farla mia, assorbirla nel e mediante il mio Io? Perché ci sia Auto-coscienza, e pertanto filosofia, occorre dunque che nell'Uomo ci sia non soltanto contemplazione positiva, passiva, unicamente rivelatrice dell'essere, ma anche Desiderio negatore, e quindi Azione trasformatrice dell'essere dato. Occorre che l'Io umano sia un Io del Desiderio, cioè un Io attivo, un Io negatore, un Io che trasforma l'Essere, che crea un essere nuovo distruggendo l'essere dato.

Ora, che cos'è l'Io del Desiderio — l'Io dell'uomo affamato, per esempio — se non un vuoto avido di contenuto, un vuoto che vuole riempirsi mediante ciò che è pieno, riempirsi vuotando questo pieno, mettersi, una volta riempito, al posto di questo pieno, occupare con il suo pieno il vuoto formato dalla soppressione del pieno che non era suo? Dunque, in generale: se la filosofia vera (assoluta) non è, come la filosofia kantiana pre-kantiana, una filosofia della Coscienza, ma una filosofia dell'Auto-coscienza, una filosofia auto-cosciente, occorre che il Filosofo, l'Uomo sia nel fondo stesso del suo essere non soltanto contemplazione passiva e positiva, ma anche Desiderio attivo e negatore. Ora, per poterlo essere, egli non può essere un Essere che è, che è eternamente identico a se stesso, che basta a se stesso. L'uomo deve essere un vuoto, un niente, che non è puro nulla, ma qualcosa che è, nella misura in cui annienta l'Essere, per realizzarsi a sue spese. L'Uomo è l'Azione negatrice che trasforma l'Essere dato e si trasforma, trasformandolo. L'Uomo è ciò che è solo nella misura in cui lo diventa; il suo Essere (Sein) vero è Divenire (Werden), Tempo, Storia, L’Io è Storia solo mediante l'Azione negatrice del dato, l'Azione della Lotta e del Lavoro: del Lavoro che alla fine produrrà il tavolo sul quale Hegel scrive la sua Fenomenologia dello spirito, e della Lotta che sarà infine questa battaglia di Jena, di cui egli ode i rumori mentre scrive la Fenomenologia dello spirito. Ecco Perché, rispondendo al «che cosa sono», Hegel ha dovuto tener conto e di questo tavolo e di questi rumori.

Non c'è esistenza umana senza Coscienza, e neanche senza Auto-coscienza, cioè senza rivelazione dell'Essere mediante la Parola e senza Desiderio rivelatore e creatore dell'Io. Ecco perché all'interno della Fenomenologia dello spirito la possibilità elementare della rivelazione dell'Essere dato mediante la Parola (implicata nella « Certezza sensibile ») da una parte, e, dall'altra, l'Azione distruttiva e negatrice dell'Essere dato (che nasce dal e mediante il Desiderio), sono due dati irriducibili, che la Fenomenologia dello spirito presuppone come sue premesse. Queste premesse, però, non bastano.

L'analisi che scopre il ruolo costitutivo del Desiderio ci fa comprendere perché l'esistenza umana non è possibile se non sulla base di un'esistenza animale: una pietra, una pianta (prive di Desiderio) non pervengono mai all'Auto-coscienza e di conseguenza alla filosofia. Ma nemmeno l'animale vi perviene. Il Desiderio animale è dunque una condizione necessaria, ma non sufficiente, dell'esistenza umana e filosofica. Ed ecco perché: il Desiderio animale — la fame, per esempio — e l'Azione che ne deriva negano, distruggono il dato naturale. Negandolo, modificandolo, facendolo suo, l'animale si eleva al di sopra di questo dato. Secondo Hegel, l'animale, mangiando la pianta, realizza e rivela la sua superiorità su di essa. Ma nutrendosi di piante, l'animale dipende da esse e dunque non perviene a superarle veramente. In generale, il vuoto avido, o l'Io, che si rivela mediante il Desiderio biologico, si riempie, mediante l'azione biologica che ne deriva, solo di un contenuto naturale, biologico. L'Io, o lo pseudo-Io, realizzato dalla soddisfazione attiva di questo Desiderio, è dunque altrettanto naturale, biologico, materiale quanto lo è ciò su cui si dirigono il Desiderio e l'Azione. L'Animale non s'innalza al di sopra della Natura, negata nel suo Desiderio animale, se non per ricadervi immediatamente con la soddisfazione di questo Desiderio. Perciò, l'Animale arriva soltanto al Selbst-gefühl, al Sentimento-di-sé, ma non al Selbst-bewuβtsein, all'Auto-coscienza; esso cioè non può parlare di sé, dire: « Io... ». E questo perché non trascende realmente se stesso in quanto dato, cioè in quanto corpo; non si eleva al di sopra di sé per poter ritornare a sé; non ha distacco da sé, per poter contemplarsi.

Perché ci sia Auto-coscienza, perché ci sia filosofia, occorre che ci sia trascendenza di sé in rapporto a sé in quanto dato. E questo è possibile, secondo Hegel, solo nel caso in cui il Desiderio si diriga non verso un essere dato, bensì verso un non-essere. Desiderare l'Essere è riempirsi di quest'Essere dato, è asservirsi a esso. Desiderare il non-Essere è liberarsi dall'Essere, realizzare la propria autonomia, la propria Libertà. Per essere antropogeno, il Desiderio deve dunque dirigersi verso un non-essere, cioè verso un altro Desiderio, verso un altro vuoto avido, verso un altro Io. Infatti il Desiderio è assenza di Essere (aver fame è essere privato del nutrimento): un Nulla che annienta nell'Essere, non un Essere che è. In altre parole, l'Azione destinata a soddisfare un Desiderio animale, che si dirige verso una cosa data, esistente, non riesce mai a realizzare un Io umano, auto-cosciente. Il Desiderio non è umano, o, più esattamente, «umanizzante», «antropogeno», se non a condizione di essere orientato verso un altro Desiderio e verso un Desiderio altro. Per essere umano, l'uomo deve agire non per sottomettere a sé una cosa, ma per sottomettere a sé un altro Desiderio (della cosa). L'uomo che desidera umanamente una cosa agisce non tanto per impadronirsi della cosa quanto per far riconoscere da un altro il suo diritto su questa cosa, per farsi riconoscere come proprietario della cosa. E questo, in fin dei conti, per far riconoscere dall'altro la sua superiorità su di lui. Solo il Desiderio di questo Riconoscimento (Anerkennung), solo l'Azione che deriva da un tale Desiderio, crea, realizza e rivela un Io umano, non-biologico.

La Fenomenologia dello spirito deve dunque ammettere una terza premessa irriducibile: l'esistenza di più Desideri capaci di desiderarsi reciprocamente, ciascuno dei quali vuol negare, assimilare, far suo, sottomettere a sé l'altro Desiderio in quanto Desiderio. Da questa pluralità dei Desideri si può già prevedere ciò che sarà l'esistenza umana.

Se, da una parte, come dice Hegel, l'Auto-coscienza e l'Uomo in generale non sono, in fin dei conti, nient'altro che il Desiderio tendente a soddisfarsi con il fatto di essere riconosciuto da un altro Desiderio nel suo diritto esclusivo alla soddisfazione, è evidente che l'Uomo non può realizzarsi e soddisfarsi definitivamente se non mediante la realizzazione di un Riconoscimento universale. D'altra parte, se c'è una pluralità di tali Desideri di Riconoscimento universale, è evidente che l'Azione che nasce da questi Desideri non può essere, almeno inizialmente, nient'altro che una Lotta per la vita e la morte (Kampf auf Leben und Tod). Una Lotta, poiché ognuno vorrà sottomettere a sé l'altro, tutti gli altri, mediante un'azione negatrice, distruttiva. Una Lotta per la vita e la morte, perché il Desiderio, che si dirige su un Desiderio dirigentesi a sua volta su un Desiderio, supera il dato biologico. Detto altrimenti, l'Uomo rischierà la propria vita biologica per soddisfare il suo Desiderio nonbiologico. E Hegel dice che l'essere che è incapace di mettere a repentaglio la propria vita per raggiungere gli scopi non immediatamente vitali, che cioè non è in grado di rischiare la propria vita in una Lotta per il Riconoscimento, in una lotta di puro prestigio, non è un essere veramente umano.

L'esistenza umana, storica, cosciente di se stessa, non è dunque possibile se non là dove ci sono, o almeno ci sono state, lotte sanguinose, guerre di prestigio. Di una di queste lotte Hegel udiva i rumori mentre terminava la sua Fenomenologia dello spirito.

È evidente, però, che se tutti gli uomini fossero quali li ho appena descritti, ogni Lotta di prestigio terminerebbe con la morte di uno almeno degli avversari: alla fine, cioè, non resterebbe al mondo che un solo uomo, e, secondo Hegel, egli non sarebbe più, non sarebbe affatto un essere umano, perché la realtà umana non è altro che il riconoscimento di un uomo da parte di un altro uomo.

Per spiegare la fine della Storia occorre situare una quarta e ultima premessa irriducibile all'interno della Fenomenologia dello spirito. Occorre supporre che la Lotta terminerà in maniera tale che i due avversari restino in vita. Ora, perché ciò avvenga, bisogna supporre che uno degli avversari ceda all'altro e gli si sottometta, riconoscendolo senza essere riconosciuto da lui. Bisogna supporre che la Lotta termini con la vittoria di colui che è disposto ad andare fino in fondo su colui che, posto di fronte alla morte, non riesce a sollevarsi al di sopra del suo istinto biologico di conservazione (identità). Bisogna supporre che ci sia un vincitore che diventa il Signore del vinto. Oppure, se si preferisce, un vinto che diventa il Servo del vincitore. La quarta e ultima premessa della Fenomenologia dello spirito è l'esistenza di una differenza tra Signore e Servo, o, più esattamente, è la possibilità di una differenza tra futuro Signore e futuro Servo. Il vinto ha subordinato il suo desiderio umano di Riconoscimento al desiderio biologico della conservazione della vita: questo determina e rivela, a lui e al vincitore, la sua inferiorità. Il vincitore ha rischiato la vita per uno scopo non vitale: questo determina e rivela, a lui e al vinto, la sua superiorità sulla vita biologica e, di conseguenza, sul vinto.

Così, la differenza tra Signore e Servo è realizzata nell'esistenza del vincitore e del vinto, ed è riconosciuta da entrambi.

La superiorità del Signore sulla Natura, fondata sul rischio della vita nella Lotta di prestigio, si realizza mediante il Lavoro del Servo. Questo Lavoro si interpone tra il Signore e la Natura. Il Servo trasforma le condizioni date dell'esistenza in modo da renderle conformi alle esigenze del Signore. La Natura trasformata dal Lavoro del Servo serve il Signore, senza che egli abbia bisogno a sua volta di servirla. Il lato subordinante dell'interazione con la Natura ricade sul Servo: assoggettando il Servo e costringendolo a lavorare, il Signore assoggetta la Natura e realizza così la sua libertà nella Natura. L'esistenza del Signore può dunque restare esclusivamente guerriera: egli lotta, ma non lavora. Quanto al Servo, la sua esistenza si riduce al Lavoro (Arbeit) che egli esegue al Servizio (Dienst) del Signore. Egli lavora, ma non lotta. Secondo Hegel, solo l'azione effettuata al servizio di un altro è «Lavoro» (Arbeit) nel senso proprio del termine, un'azione essenzialmente umana e umanizzante. L'essere che opera per soddisfare i propri istinti, che, in quanto tali, sono sempre naturali, non si eleva al di sopra della Natura: resta un essere naturale, un animale. Ma agendo per soddisfare un istinto che non è mio, io agisco in funzione di ciò che, per me, non è istinto. Agisco in funzione di un'idea, di uno scopo non biologico. Questa trasformazione della Natura in funzione di un'idea non materiale è il Lavoro nel senso proprio del termine, Lavoro che crea un Mondo non naturale, tecnico, umanizzato, adattato al Desiderio umano di un essere che ha dimostrato e realizzato la sua superiorità sulla Natura rischiando la vita per lo scopo non biologico del Riconoscimento. E soltanto questo Lavoro ha potuto alla fine produrre il tavolo sul quale Hegel scriveva la Fenomenologia dello spirito, e che faceva parte del contenuto di quell'Io analizzato da Hegel quando rispondeva al suo: «che cosa sono?».

In generale, ammettendo le quattro premesse menzionate, cioè: l° l'esistenza della rivelazione dell'Essere dato mediante la Parola; 2° l'esistenza di un Desiderio producente un'Azione negatrice, trasformatrice dell'Essere dato; 3° l'esistenza di più Desideri, capaci di desiderarsi reciprocamente, e 4° l'esistenza di una possibilità di differenza tra i Desideri dei (futuri) Signori e i Desideri dei (futuri) Servi: ammettendo queste quattro premesse, si comprende la possibilità di un processo storico, di una Storia che è, nell'insieme, la storia delle Lotte e del Lavoro.

In definitiva, possiamo dunque dire che l'Uomo è nato, e la Storia è cominciata, con la prima Lotta che porta all'apparizione di un Signore e di un Servo. Vale a dire che, alla sua origine, l'Uomo è sempre o Signore o Servo; e non c'è Uomo verace se non là dove c'è un Signore e un Servo. (Occorre essere almeno in due per essere umano). E la storia universale, la storia dell'interazione tra gli uomini e della loro interazione con la Natura, è la storia dell'interazione tra Signori guerrieri e Servi lavoratori. Di conseguenza, la Storia si arresta nel momento in cui sparisce la differenza, l'opposizione tra Signore e Servo; nel momento in cui il Signore cesserà di essere tale, perché non avrà più un Servo, e il Servo cesserà di essere tale, perché non avrà più un Signore, senza, d'altra parte, diventare a sua volta Signore, poiché non ci saranno più Servi.

Ora, secondo Hegel, è nelle e mediante le guerre di Napoleone, e, in particolare, nella e mediante la battaglia di Jena, che si realizza questo compimento della Storia attraverso la soppressione-dialettica (Aufheben) tanto del Signore quanto del Servo. Di conseguenza, la presenza della battaglia di Jena nella coscienza di Hegel è di un'importanza capitale. Perché ode i rumori di questa battaglia, Hegel può sapere che la Storia si compie o si è compiuta, e che, di conseguenza, la sua concezione del Mondo è una concezione totale, il suo sapere è un sapere assoluto.

Solo che, per saperlo, per sapere di essere il pensatore capace di realizzare la Scienza assoluta, egli deve sapere che le guerre napoleoniche realizzano la sintesi dialettica del Signore e del Servo. E per saperlo, egli deve sapere, da una parte, che cos'è l'essenza (Wesen) del Signore e del Servo, e, dall'altra, come e perché la Storia, che è cominciata con la « prima » Lotta di prestigio, è arrivata alle guerre di Napoleone.

L'analisi del carattere essenziale dell'opposizione Signore-Servo, cioè del principio motore del processo storico, si trova nel capitolo xv. Mentre l'analisi del processo storico è data nel capitolo vi.

La Storia universale non è dunque nient'altro che la storia del rapporto dialettico, cioè attivo, tra Signoria e Servitù. La Storia si compirà dunque nel momento in cui sarà realizzata la sintesi del Signore e del Servo, sintesi costituita dall'Uomo integrale, il Cittadino dello Stato universale e omogeneo, creato da Napoleone.

Questa concezione, secondo la quale la Storia è una dialettica o interazione tra Signoria e Servitù, permette di comprendere il senso della divisione del processo storico in tre grandi periodi (di durata, d'altronde, molto diseguale). Se la Storia comincia con la Lotta a seguito della quale un Signore domina un Servo, è necessario che il primo periodo storico sia quello in cui l'esistenza umana è interamente determinata dall'esistenza del Signore. Nel corso di questo periodo sarà dunque la Signoria a rivelare la sua essenza, realizzando attraverso l'azione le sue possibilità esistenziali. Ma, se la Storia non è che una dialettica della Signoria e della Servitù, occorre che anche quest'ultima si riveli interamente, realizzandosi completamente attraverso l'Azione. Occorre dunque che il primo periodo sia completato da un secondo, in cui l'esistenza umana sarà determinata dall'esistenza servile. Da ultimo, se la fine della Storia è la sintesi della Signoria e della Servitù, e la comprensione di questa sintesi, occorre che questi due periodi siano seguiti da un terzo, durante il quale l'esistenza umana in qualche modo neutralizzata, sintetica, si rivela a se stessa, realizzando attivamente le proprie possibilità. Stavolta, queste possibilità includono anche la possibilità di comprendersi, pienamente e definitivamente, cioè perfettamente.

Questi tre grandi periodi storici sono analizzati da Hegel nel capitolo vi.

Ma, beninteso, per scrivere il capitolo vi, per comprendere che cos'è la Storia, non basta sapere che la Storia si compone di tre periodi. Occorre anche sapere ciò che ognuno di questi è, comprendere il perché e il come dell'evoluzione di ciascuno e del passaggio dall'uno all'altro. Ora, per comprenderlo, occorre sapere ciò che è il Wesen, la realtà-essenziale, della Signoria e della Servitù, dei due princìpi che, nella loro interazione, realizzeranno il processo qui esaminato. L'analisi del Signore in quanto tale e del Servo in quanto tale è svolta nella sezione B del capitolo iv.

Cominciamo con il Signore.

Il Signore è l'uomo che è andato fino in fondo in una Lotta di prestigio, che ha rischiato la vita per farsi riconoscere nella sua superiorità assoluta da un altro uomo. Ha dunque preferito alla sua vita reale, naturale, biologica, qualcosa di ideale, di spirituale, di non-biologico: il fatto di essere anerkannt, di essere riconosciuto in e da una coscienza, di portare il nome «Signore», di essere chiamato «Signore». Così, egli ha « mostrato », provato (bewährt), realizzato e rivelato la sua superiorità sull'esistenza biologica, sulla sua esistenza biologica, sul Mondo naturale in generale e su tutto ciò che si sa e che egli sa essere solidale con questo Mondo, in particolare sul Servo. Questa superiorità, dapprima puramente ideale, consistente nel fatto mentale di essere riconosciuto e di sapersi riconosciuto in quanto Signore dal Servo, si realizza, si materializza attraverso il Lavoro del Servo. Il Signore, che ha saputo costringere il Servo a riconoscerlo come Signore, sa anche costringerlo a lavorare per lui, a cedergli il risultato della sua Azione. Così, il Signore non ha più bisogno di fare sforzi per soddisfare i suoi desideri (naturali). Il lato assoggettante di questa soddisfazione è passato al Servo: il Signore, dominando il Servo lavoratore, domina la Natura e vive in essa da Signore. Ora, mantenersi nella Natura senza lottare contro di essa è vivere nel Genuβ, nel Godimento. E il godimento che si ottiene senza fare sforzi è la Lust, il Piacere. La vita dei Signori, nella misura in cui non è Lotta cruenta, Lotta di prestigio con esseri umani, è una vita nel piacere.

A prima vista, sembra che il Signore realizzi il massimo grado dell'esistenza umana, in quanto è l'uomo pienamente soddisfatto (befriedigt), nella e mediante la sua esistenza reale, da ciò che è. Ma, in realtà, non è così.

Quest'uomo che cos'è, che cosa vuole essere, se non un Signore? È per diventarlo, per essere Signore che ha rischiato la vita, non per vivere nel piacere. Ora, quel che voleva ingaggiando la lotta era farsi riconoscere da un altro, cioè da un altro da lui, che però è come lui, da un altro uomo. Ma, in realtà, alla fine della Lotta egli non è riconosciuto se non da un Servo. Per essere uomo, ha voluto farsi riconoscere da un altro uomo. Ma se essere uomo è essere Signore, il Servo non è un uomo, e farsi riconoscere da un Servo non è farsi riconoscere da un uomo. Sarebbe necessario farsi riconoscere da un altro Signore. Ma questo è impossibile, perché, per definizione, il Signore preferisce la morte al riconoscimento servile della superiorità di un altro. In breve, il Signore non perviene mai a realizzare il suo scopo, lo scopo per il quale rischia la sua stessa vita. Il Signore può essere soddisfatto solo nella e dalla morte, la sua o quella del suo avversario. Ma non si può essere befriedigt (pienamente soddisfatto) da ciò che è, da ciò che si è nella e mediante la morte. Infatti, la morte non è, il morto non è, mentre quello che è, quello che vive, è solo un Servo. Ora, valeva veramente la pena di rischiare la propria vita per sapersi riconosciuto da un Servo? No, evidentemente. E per questo, a meno che il Signore non si abbrutisca nel piacere e nel godimento, appena si rende conto del suo vero scopo e del movente delle sue azioni, cioè delle sue azioni guerriere, non sarà affatto, non sarà mai «befriedigt», soddisfatto da ciò che è, da ciò che egli è.

Detto altrimenti, la Signoria è un'impasse esistenziale. Il Signore può o abbrutirsi nel piacere o morire sul campo di battaglia da Signore, ma non può vivere coscientemente, sapendosi soddisfatto da quel che è. Ora, solo la soddisfazione cosciente, la Befriedigung, può dare compimento alla Storia, giacché solamente l'Uomo che si sa soddisfatto da ciò che è non tende più a superarsi, a superare ciò che egli è e ciò che è mediante l'Azione trasformatrice della Natura, mediante l'Azione creatrice della Storia. Se la Storia deve compiersi, se il Sapere assoluto deve essere possibile, soltanto il Servo può fare ciò, arrivando alla Soddisfazione. Per questo Hegel afferma che la «verità» (= realtà rivelata) del Signore è il Servo. L'ideale umano, nato nel Signore, può realizzarsi e rivelarsi, diventare Wahrheit (verità), solo nella e mediante la Servitù.

Per potersi fermare e comprendere, occorre essere soddisfatto. E per questo occorre certo cessare di essere Servo. Ma per poter cessare di essere Servo, bisogna esserlo stato. E poiché c'è Servo solo là dove c'è un Signore, la Signoria, pur essendo essa stessa un'impasse, è « giustificata » come tappa necessaria dell'esistenza storica che porta alla Scienza assoluta di Hegel. Il Signore appare unicamente per produrre il Servo che lo «sopprime» (aufhebt) in quanto Signore, con ciò « sopprimendo » se stesso in quanto Servo. E sarà questo Servo « soppresso » a essere soddisfatto da ciò che egli è e a comprendersi in quanto soddisfatto nella e dalla filosofia di Hegel, nella e dalla Fenomenologia dello spirito. Il Signore non è che il « catalizzatore » della Storia che sarà realizzata, compiuta e « rivelata » dal Servo o dall'ex-Servo diventato Cittadino.

Ma, innanzitutto, vediamo cos'è il Servo ai suoi inizi, il Servo del Signore, il Servo non ancora soddisfatto dalla Cittadinanza, che realizza e rivela la sua Libertà.

L'Uomo è diventato Servo perché ha avuto paura della morte. Certo, da una parte, questa paura (Furcht) rivela la sua dipendenza di fronte alla Natura e così giustifica la sua dipendenza di fronte al Signore, che, lui sì, domina la Natura. Ma, dall'altra, questa stessa paura ha, secondo Hegel, un valore positivo, che determina la superiorità del Servo sul Signore. È che attraverso la paura animale della morte (Angst), il Servo ha provato il Terrore o l'angoscia (Furcht) del Nulla, del suo nulla. Ha intravisto se stesso come nulla, ha compreso che la sua intera esistenza non era che una morte «superata», «soppressa» (aufgehoben): un Nulla mantenuto nell'Essere. Ora, l'abbiamo visto e lo vedremo ancora, la base profonda dell'antropologia hegeliana è formata da questa idea che l'Uomo non è un Essere che è in una identità eterna con se stesso nello Spazio, ma un Nulla che annienta in quanto Tempo nell'Essere spaziale, mediante la negazione di questo Essere; mediante la negazione o trasformazione del dato, a partire da un'idea o da un ideale che non è ancora, che è ancora nulla («pro-getto»); mediante la negazione che si chiama Azione (Tat) della Lotta e del Lavoro (Kampf und Arbeit).

Dunque il Servo che, attraverso la paura della morte, tocca il Nulla che sta al fondo del suo Essere (naturale), si comprende, comprende l'Uomo, meglio del Signore. A partire dalla « prima » Lotta, il Servo ha un'intuizione della realtà umana, e in ciò sta la ragione profonda per la quale in fin dei conti sarà lui, e non il Signore, a compiere la Storia, rivelando la verità sull'Uomo, rivelando la sua realtà mediante la Scienza hegeliana. Ma, sempre grazie al Signore, il Servo ha un altro vantaggio, dovuto al fatto che egli lavora e che lavora al servizio (Dienst) di un altro, che serve un altro lavorando. Lavorare per un altro è agire contro gli istinti che spingono l'uomo a soddisfare i propri bisogni. Non c'è istinto che costringa il Servo a lavorare per il Signore. Se lo fa, è per paura del Signore. Questa paura è però diversa da quella che egli ha provato al momento della Lotta: il pericolo non è più immediato; il Servo sa soltanto che il Signore può ucciderlo; non lo vede nell'atteggiamento omicida. Detto altrimenti, il Servo che lavora per il Signore, reprime i propri istinti in funzione di un'idea, di un concetto. E in ciò sta precisamente quel che rende la sua attività un'attività specificamente umana, un Lavoro, un'Arbeit. Agendo, egli nega, trasforma il dato, la Natura, la sua Natura; e lo fa in funzione di un'idea, di ciò che non è nel senso biologico del termine, in funzione dell'idea di un Signore, cioè di una nozione essenzialmente sociale, umana, storica. Ora, poter trasformare il dato naturale in funzione di un'idea non naturale significa trovarsi in possesso di una tecnica. E l'idea che produce una tecnica è un'idea, un concetto scientifico. Da ultimo, possedere dei concetti scientifici è essere dotati d'Intelletto, di Verstand, della facoltà delle nozioni astratte.

L'Intelletto, il pensiero astratto, la scienza, la tecnica, le arti — tutto questo ha dunque la sua origine nel lavoro forzato del Servo. È dunque il Servo, e non il Signore, a realizzare tutto quanto si riferisce a queste cose. Segnatamente, la fisica newtoniana (che ha tanto impressionato Kant), la fisica della Forza e della Legge, che, secondo Hegel, sono in ultima analisi la forza del vincitore nella Lotta di prestigio e la legge del Signore, riconosciuta dal Servo.

Ma non sono solo questi i vantaggi procurati dal Lavoro. Esso aprirà inoltre il cammino della Libertà, o, più esattamente, della liberazione.

Infatti, il Signore ha realizzato la sua libertà, superando nella Lotta il suo istinto di vita. Ora, lavorando per un altro, il Servo supera anch'egli i suoi istinti, ed elevandosi così al pensiero, alla scienza, alla tecnica, trasformando la Natura in funzione di un'idea, riesce anch'egli a dominare la Natura e la sua «Natura», cioè proprio quella Natura che lo dominava al momento della Lotta e che lo ha reso Servo del Signore. Mediante il suo Lavoro, il Servo perviene dunque al medesimo risultato al quale perviene il Signore rischiando la vita nella Lotta: egli non dipende più dalle condizioni date, naturali, dell'esistenza; le modifica a partire dall'idea che si fa di se stesso. Prendendo coscienza di questo fatto, egli prende coscienza della sua libertà (Freiheit), della sua autonomia (Selbständigkeit). E, servendosi del pensiero che nasce dal suo Lavoro, egli forma la nozione astratta della Libertà che è stata realizzata in lui da questo stesso Lavoro.

Certo, nel Servo propriamente detto, questa nozione della Libertà non corrisponde ancora a una realtà effettiva. Egli si libera mentalmente solo grazie al lavoro forzato, solo perché è Servo di un Signore. In realtà, egli resta Servo. Egli dunque si libera, per così dire, solo per essere liberamente Servo, per essere più Servo ancora di quanto non fosse prima di aver formato l'idea della Libertà. Solo che ciò in cui consiste l'insufficienza del Servo è al contempo la sua perfezione: in quanto non è realmente libero egli ha un'idea della Libertà, un'idea non realizzata, ma che può essere realizzata mediante la trasformazione cosciente e volontaria dell'esistenza data, mediante l'abolizione attiva della Servitù. Il Signore invece è libero; la sua idea della Libertà non è astratta. Ecco perché essa non è un'idea nel senso proprio del termine, un ideale da realizzare. Il progresso nella realizzazione della Libertà può essere effettuato solo dal Servo, il quale parte da un ideale non 8 realizzato della Libertà. Ed è perché egli ha un ideale, un'idea astratta, che il progresso della realizzazione della Libertà può compiersi mediante la comprensione della Libertà, mediante la nascita dell'Idea assoluta della Libertà umana, rivelata nel e dal Sapere assoluto.

In generale, è il Servo, e lui soltanto, che può realizzare un progresso, oltrepassare il dato, e, in particolare, il dato che egli stesso è. Da una parte, possedendo l'idea della Libertà e non essendo libero, egli è portato a trasformare le condizioni (sociali) date della sua esistenza, cioè a realizzare un progresso storico. In secondo luogo, ed è qui il punto importante, questo progresso ha per lui un senso quale non ha, né può avere, per il Signore. La libertà del Signore, nata nella e dalla Lotta, è un'impasse. Per realizzarla, occorre farla riconoscere da un Servo, occorre trasformare in Servo colui che la riconosce. Ora, la mia libertà cessa di essere un sogno, un'illusione, un ideale astratto solo nella misura in cui essa è universalmente riconosciuta da coloro che io riconosco degni di riconoscerla. Ed è precisamente questo che il Signore non può mai ottenere. Certo, la sua libertà è riconosciuta. È dunque reale. Ma non è riconosciuta che da Servi. È dunque insufficiente nella sua realtà, non può soddisfare chi la realizza. E, tuttavia, fintanto che essa resta libertà di Signore, la situazione non può cambiare. Al contrario, se, all'inizio, la libertà del Servo non è riconosciuta da nessun altro al di fuori di lui, se quindi è puramente astratta, essa può finire per realizzarsi, e realizzarsi nella sua perfezione. Infatti, il Servo riconosce la realtà e dignità umane del Signore. Gli basta imporre la sua libertà al Signore per raggiungere la soddisfazione definitiva data dal Riconoscimento reciproco e, in tal modo, arrestare il processo storico.

Certo, per farlo deve lottare contro il Signore, cioè, precisamente, cessare di essere Servo, superare la sua paura della morte. Deve diventare altro da quello che è. Ora, contrariamente al Signore-guerriero, che resterà sempre ciò che già è: Signore, il Servo-lavoratore può cambiare, ed effettivamente cambia grazie al suo lavoro. L'Azione umana del Signore si riduce al rischio della propria vita. Ma il rischio della vita è dovunque e sempre lo stesso. È il fatto del rischio che conta, e poco importa che venga usata un'ascia di pietra o una mitragliatrice. Quindi, non la Lotta in quanto tale, il rischio della vita, ma il Lavoro un giorno produce una mitragliatrice, e non più un'ascia. L'atteggiamento puramente guerresco del Signore non varia nel corso dei secoli, e non sarà dunque questo a produrre un cambiamento storico. Senza il Lavoro del Servo, la « prima » Lotta si riprodurrebbe indefinitamente: nulla cambierebbe in essa; nulla essa cambierebbe nel Signore; nulla cambierebbe dunque nell'Uomo, mediante l'Uomo, per l'Uomo; il Mondo resterebbe identico a se stesso, sarebbe Natura e non Mondo storico, umano.

Del tutto diversa è la situazione creata dal Lavoro. L'Uomo che lavora trasforma la Natura data. Se egli ripete il suo atto, lo ripete dunque in altre condizioni, e il suo atto sarà anch'esso diverso. Dopo aver fabbricato la prima ascia, l'uomo potrà servirsene per fabbricarne una seconda, che, per ciò stesso, sarà diversa, migliore. La produzione trasforma i mezzi di produzione; la modificazione dei mezzi semplifica la produzione; ecc. Là dove c'è Lavoro, c'è dunque necessariamente cambiamento, progresso, evoluzione storica.

Evoluzione storica. Infatti, a cambiare in funzione del Lavoro, non è soltanto il Mondo naturale; è anche, anzi soprattutto, l'Uomo. All'inizio, l'Uomo dipende dalle condizioni date, naturali, della sua esistenza. Certo, egli può elevarsi al di sopra di queste condizioni rischiando la vita in una Lotta di prestigio. Ma, in questo rischio, egli nega in qualche modo l'insieme di queste condizioni, che sono sempre le stesse: le nega in blocco, senza modificarle, e questa negazione è sempre la stessa. Quindi, la libertà che egli crea in e mediante quest'atto di negazione non dipende dalle forme particolari del dato. Solo elevandosi al di sopra delle condizioni date, mediante la negazione che si effettua nel e attraverso il Lavoro, l'Uomo resta in contatto con il concreto, che è diverso a seconda dello spazio e del tempo. Perciò, trasformando il Mondo, egli cambia se stesso. Lo schema dell'evoluzione storica è dunque il seguente:

all'inizio, il futuro Signore e il futuro Servo sono entrambi determinati da un Mondo dato, naturale, indipendente da loro: non sono dunque ancora degli esseri veramente umani, storici. Poi, rischiando la vita, il Signore si innalza al di sopra della Natura data, della sua « natura » data (animale), e diventa un essere umano, un essere che crea se stesso nella e mediante l'Azione negatrice cosciente. Quindi, egli costringe il Servo a lavorare. Questi cambia il Mondo reale dato. Si innalza dunque anche lui al di sopra della Natura, della sua « natura » (animale), perché riesce a renderla altra da quello che è. Certo, il Servo, come il Signore, come l'Uomo in generale, è determinato dal Mondo reale. Ma poiché questo Mondo è stato cambiato, cambia anch'egli. E poiché è lui che ha cambiato il Mondo, è lui che cambia se stesso, mentre il Signore cambia solo per mezzo del Servo. Il processo storico, il divenire storico dell'essere umano, è dunque l'opera del Servo-lavoratore, non del Signore-guerriero. Certo, senza Signore non ci sarebbe stata Storia. Ma questo unicamente perché senza di lui non ci sarebbe stato Servo, e quindi Lavoro.

Dunque, ancora una volta, grazie al suo Lavoro, il Servo può cambiare e diventare altro da quello che è, cioè, in fin dei conti, cessare di essere Servo. Il lavoro è Bildung, nel duplice significato della parola: da una parte, esso forma, trasforma il Mondo, lo umanizza, rendendolo più adatto all'Uomo; dall'altra, esso trasforma, forma, educa l'uomo, lo umanizza, rendendolo più conforme all'idea che egli si fa di se stesso e che, all'inizio, è solo un'idea astratta, un ideale. Se, dunque, all'inizio, nel Mondo dato il Servo aveva una «natura» timorosa e doveva sottomettersi al Signore, al forte, non è detto che la situazione resterà sempre così. Grazie al suo lavoro egli può diventare altro; e, grazie al suo lavoro, il Mondo può diventare altro. Ed è quanto è effettivamente successo, come mostrano la storia universale e, da ultimo, la Rivoluzione francese e Napoleone.

L'educazione creatrice dell'Uomo mediante il lavoro (Bildung) crea la Storia, cioè il Tempo umano. Il Lavoro è Tempo, e perciò è necessariamente nel tempo: richiede tempo. La trasformazione del Servo, che gli permetterà di superare il suo terrore, la sua paura del Signore, superando l'angoscia della morte — questa trasformazione è lunga e dolorosa. All'inizio, il Servo che, mediante il Lavoro, si è innalzato all'idea astratta della sua Libertà, non arriva a realizzarla, perché non osa ancora agire in vista di questa realizzazione, cioè lottare contro il Signore e rischiare la vita in una Lotta per la Libertà.

È così che prima di realizzare la Libertà, il Servo immagina una serie di ideologie, mediante le quali egli cerca di giustificarsi, di giustificare la sua servitù, di conciliare l'ideale della Libertà con il fatto della Servitù. La prima di queste ideologie da Servo è lo Stoicismo. Il Servo cerca di persuadersi di essere effettivamente libero per il solo fatto di sapersi libero, cioè di possedere l'idea astratta della Libertà. Le condizioni reali dell'esistenza non avrebbero alcuna importanza: poco importa che si sia imperatore romano o schiavo, ricco o povero, malato o sano; basta avere l'idea della libertà, cioè, precisamente, dell'autonomia, dell'indipendenza assoluta da tutte le condizioni date dell'esistenza.

La critica di Hegel o, più esattamente, la sua spiegazione del fatto che l'Uomo non si è arrestato a questa soluzione stoica, a prima vista così soddisfacente, può sembrare poco convincente e bizzarra. Hegel dice che l'Uomo abbandona lo Stoicismo perché, da Stoico, si annoia. L'ideologia stoica è stata inventata per giustificare l'inazione del Servo, il suo rifiuto di lottare per realizzare il suo ideale libertario. Dunque, questa ideologia impedisce all'Uomo di agire: lo obbliga ad accontentarsi di parlare. Ora, dice Hegel, ogni discorso che resta tale finisce per annoiare l'Uomo.

Quest'obiezione, o spiegazione, solo a prima vista è semplicistica. In realtà, essa ha una base metafisica profonda. L'Uomo non è Essere che è: egli è un Nulla che annienta mediante la negazione dell'Essere. Ora, la negazione dell'Essere è l'Azione. Ecco perché Hegel dice: « L'essere vero dell'uomo è la sua azione ». Non agire significa dunque non essere in quanto essere veramente umano. Significa essere in quanto Sein, in quanto essere dato, naturale; dunque decadere, abbrutirsi. E questa verità metafisica si rivela all'Uomo mediante il fenomeno della noia: l'Uomo che — al pari della cosa, al pari dell'animale, al pari dell'angelo — resta identico a se stesso, non nega, non si nega, cioè non agisce: si annoia. E solo l'Uomo può annoiarsi.

Comunque sia, è la noia causata dalla chiacchiera stoica che ha costretto l'Uomo a cercare altro. In realtà, l'Uomo non può essere soddisfatto se non dall'azione. Ora, agire è trasformare il reale. E trasformare il reale è negare il dato. Nel caso del Servo, agire effettivamente sarebbe negare la Servitù, cioè negare il Signore, dunque rischiare la propria vita in una Lotta contro di lui. Il Servo non osa ancora farlo. E, poiché la noia lo spinge all'azione, egli si accontenta di attivare in qualche modo il suo pensiero, facendolo negatore del dato. Il Servo stoico diventa il Servo scettico-nichilista.

Questo nuovo atteggiamento culmina nel Solipsismo: il valore, la realtà stessa di tutto ciò che non è me, è negata, e il carattere puramente astratto, verbale di questa negazione è compensato dalla sua universalità e dal suo radicalismo.

Tuttavia, l'Uomo non è in grado di mantenersi in questo atteggiamento scettico-nichilista. Non ne è in grado perché, in realtà, egli si contraddice con la sua stessa esistenza: come e perché vivere, quando si negano il valore e l'essere del Mondo e 'degli altri uomini? Così, prendere sul serio il nichilismo vuol dire suicidarsi, cessare completamente di agire e, quindi, di vivere. Ma lo Scettico radicale non interessa a Hegel, perché, per 10 definizione, scompare suicidandosi, cessa di essere e, pertanto, cessa di essere un essere umano, un agente dell'evoluzione storica. Solo il Nichilista che resta in vita è interessante.

Ora, costui finirà per accorgersi della contraddizione che la sua esistenza implica. E, in generale, è la presa di coscienza di una contraddizione il movente dell'evoluzione umana, storica. Prendere coscienza di una contraddizione è necessariamente volerla eliminare. In realtà, è possibile sopprimere la contraddizione di un'esistenza data solo modificando l'esistenza data, trasformandola mediante l'Azione. Ma, nel caso del Servo, trasformare l'esistenza è anche lottare contro il Signore. Egli però non vuole farlo. Cerca dunque di giustificare con una nuova ideologia questa contraddizione dell'esistenza scettica, che, in fin dei conti, è la contraddizione stoica, cioè servile, tra l'idea o l'ideale della Libertà e la realtà della Servitù. Questa terza e ultima ideologia del Servo è l'ideologia cristiana.

Adesso, il Servo non nega il carattere contraddittorio della sua esistenza. Cerca però di giustificarlo, dicendo che è necessario, inevitabile, che ogni esistenza implica una contraddizione. A questo fine egli immagina un «altro-mondo», che è «al di là» (Jenseits) del Mondo naturale, sensibile. Quaggiù egli è Servo, e non fa nulla per liberarsi. Ma ha ragione, giacché tutto in questo Mondo non è che Servitù, e anche il Signore è in esso Servo come lui. Ma la libertà non è una parola vana, una semplice idea astratta, un ideale irrealizzabile, come nello Stoicismo e nello Scetticismo. La Libertà è reale, reale nell'Aldilà. Nessun bisogno dunque di lottare contro il Signore, perché si è già liberi nella misura in cui si partecipa all'Aldilà, perché si è liberati grazie a questo Aldilà, all'intervento dell'Aldilà nel Mondo sensibile. Nessun bisogno di lottare per farsi riconoscere dal Signore, perché si è riconosciuti da un Dio. Nessun bisogno di lottare per liberarsi in questo Mondo, che è vano e privo di valore tanto per il Cristiano quanto per lo Scettico. Nessun bisogno di lottare, di agire, perché, nell'Aldilà, nel solo Mondo che veramente conta, si è già liberati e uguali al Signore (nella Servitù di Dio). Si può dunque mantenere l'atteggiamento stoico, ma, questa volta, a buon diritto, e senza noia, giacché ora non si resta eternamente lo stesso; si cambia, e bisogna cambiare, bisogna superarsi sempre per innalzarsi al di sopra di sé, di sé in quanto dato nel Mondo reale empirico, per raggiungere il Mondo trascendente, l'Aldilà che resta inaccessibile.

Senza Lotta, senza sforzo, il Cristiano realizza dunque l'ideale del Servo: ottiene, in e da (o per) Dio, l'uguaglianza con il Signore: l'ineguaglianza non è che un'illusione, come tutto il Mondo sensibile, in cui regnano la Servitù e la Signoria.

Soluzione senza alcun dubbio geniale, dirà Hegel. E nessuna meraviglia che l'Uomo per secoli abbia potuto credersi «soddisfatto» da questa ricompensa religiosa del suo Lavoro. Ma, aggiunge Hegel, tutto questo è troppo bello, troppo semplice, troppo facile, per essere vero. In realtà, ciò che ha fatto dell'Uomo un Servo è il rifiuto di rischiare la vita. Egli non cesserà dunque di esserlo, fintanto che non sarà disposto a rischiare la vita in una Lotta contro il Signore, fintanto che non accetterà l'idea della propria morte. Una liberazione senza Lotta cruenta è dunque metafisicamente impossibile. E questa impossibilità metafisica si rivela anche nell'ideologia cristiana.

Infatti, il Servo cristiano non può affermare la sua uguaglianza con il Signore se non ammettendo l'esistenza di un «altro Mondo» e di un Dio trascendente. Ora, questo Dio è necessariamente un Signore, e un Signore assoluto. Il Cristiano non si libera dunque del Signore umano se non per asservirsi al Signore divino. Egli si libera, almeno nella sua idea, del Signore umano. Ma, non avendo più Signore, non cessa d'essere Servo. È Servo senza Signore, è Servo in se stesso, è l'essenza pura della Servitù. E questa Servitù «assoluta» produce un Signore altrettanto assoluto. È davanti a Dio che egli è uguale al Signore. Egli è dunque suo eguale solo nella servitù assoluta. Egli resta dunque Servitore, servitore di un Signore, alla cui gloria e per il cui piacere egli lavora. E questo nuovo Signore è tale che il nuovo Servo cristiano è addirittura più servo di quello pagano.

E se il Servo accetta questo nuovo Signore divino, lo fa per la medesima ragione per la quale ha accettato il Signore umano: per paura della morte. Egli ha accettato, o prodotto, la sua prima Servitù, perché essa era il prezzo della sua vita biologica. Egli accetta, o produce, la seconda, perché essa è il prezzo della sua vita eterna. Infatti, il movente ultimo dell'ideologia dei «due mondi» e della dualità dell'esistenza umana è il desiderio servile della vita a tutti i costi, sublimato nel desiderio di una vita eterna. Il Cristianesimo nasce, in fin dei conti, dall'angoscia del Servo davanti al Nulla, al suo nulla; cioè, per Hegel, dall'impossibilità di sopportare la condizione necessaria dell'esistenza umana: la condizione della morte, della finitudine.

Pertanto, sopprimere l'insufficienza dell'ideologia cristiana, liberarsi del Signore assoluto e dell'Aldilà, realizzare la Libertà e vivere nel Mondo da essere umano, autonomo e libero, tutto questo non è possibile se non a condizione di accettare l'idea della morte e, quindi, l'ateismo. E ogni evoluzione del Mondo cristiano non è altro che un passo verso la presa di coscienza atea dell'essenziale finitudine dell'esistenza umana. È solo così, solo «sopprimendo» la teologia cristiana, che l'Uomo cesserà definitivamente di essere Servo e realizzerà quella stessa idea della Libertà che, restando idea astratta, cioè ideale, ha prodotto il Cristianesimo.

È quanto si realizza nella e mediante la Rivoluzione francese, che porta a compimento l'evoluzione del Mondo cristiano, e inaugura il terzo Mondo storico, in cui la libertà realizzata sarà alla fine concepita (begriffen) dalla filosofia: dalla filosofia tedesca, e per ultimo da Hegel. Ora, affinché una Rivoluzione pervenga realmente a sopprimere il Cristianesimo, occorre che l'ideale cristiano si realizzi innanzitutto sotto forma di un Mondo.

Infatti, affinché un'ideologia possa essere superata, «soppressa» dall'Uomo, occorre che l'Uomo faccia dapprima l'esperienza della realizzazione di questa ideologia nel Mondo reale in cui vive. La questione è dunque quella di sapere come il Mondo pagano della Signoria possa diventare un Mondo cristiano della Servitù senza che ci sia stata Lotta tra Signori e Servi, senza che ci sia stata Rivoluzione propriamente detta. Poiché in tal caso il Servo sarebbe diventato il Lavoratore libero che lotta e rischia la vita, cesserebbe allora di essere Servo e non potrebbe quindi realizzare un Mondo cristiano, essenzialmente servile.

Hegel risolve questo problema nella sezione A del capitolo VI. Vediamo come.

Nella Fenomenologia dello Spirito Hegel non parla della genesi dello Stato pagano. Studiamolo dunque in quanto Stato già formato.

Il carattere essenziale di questo Stato, della Società pagana, è determinato dal suo essere uno Stato, una Società di Signori. Lo Stato pagano riconosceva come cittadini unicamente i Signori. Non è cittadino se non chi fa la guerra, ed è solo il cittadino a fare la guerra. Il lavoro è assegnato ai Servi, che stanno al margine della Società e dello Stato. E lo Stato, nel suo insieme, è quindi uno Stato-Signore, che individua il senso della sua esistenza non nel suo lavoro, ma nel suo prestigio, nelle guerre di prestigio che conduce per far riconoscere, dagli altri Stati, da tutti gli altri Stati, la sua autonomia e la sua supremazia.

Ora, secondo Hegel, da tutto ciò consegue che lo Stato pagano dei Signori guerrieri e oziosi non può riconoscere o realizzare, se non l'elemento universale dell'esistenza umana, dal momento che l'elemento particolare resta al margine della Società e dello Stato propriamente detti.

Quest'opposizione della Particolarità e dell'Universalità, dell'Einzelheit e dell'Allgemeinheit, è fondamentale in Hegel. E se la Storia può essere interpretata come una dialettica tra Signoria e Servitù, essa può anche essere intesa come una dialettica del Particolare e dell'Universale nell'esistenza umana. Queste due interpretazioni si completano d'altronde reciprocamente, perché la Signoria corrisponde all'Universalità e la Servitù alla Particolarità.

Ecco cosa significa questo.

Fin dall'inizio, l'Uomo ricerca l'Anerkennung, il Riconoscimento. Non si accontenta di attribuirsi da se stesso un valore. Vuole che questo valore particolare, suo, sia riconosciuto da tutti, universalmente.

Detto altrimenti: l'Uomo non può essere veramente «soddisfatto», la Storia non può arrestarsi se non nella e mediante la formazione di una Società, di uno Stato, in cui il valore strettamente particolare, personale, individuale, di ciascuno è riconosciuto in quanto tale, nella sua stessa particolarità, da tutti, dall'Universalità incarnata nello Stato in quanto tale, e in cui il valore universale dello Stato è riconosciuto e realizzato dal Particolare in quanto tale, da tutti i Particolari. Ora, un tale Stato, una tale sintesi della Particolarità e dell'Universalità, non è possibile se non dopo la «soppressione» dell'opposizione tra il Signore e il Servo, dato che la sintesi del Particolare e dell'Universale è anche una sintesi della Signoria e della Servitù.

Fintanto che il Signore si oppone al Servo, fintanto che c'è Signoria e Servitù, la sintesi del Particolare e dell'Universale non può essere realizzata, e l'esistenza umana non sarà mai «soddisfatta». Questo non soltanto perché il Servo non è universalmente riconosciuto. E non soltanto perché il Signore stesso non arriva al riconoscimento veramente universale, dato che non riconosce una parte di coloro che lo riconoscono: i Servi. Questa sintesi è impossibile perché il Signore è in grado di realizzare e di far riconoscere solo l'elemento universale nell'Uomo, mentre il Servo riduce la sua esistenza a un valore meramente particolare.

Il Signore costituisce il suo valore umano rischiando la propria vita. Ora, questo rischio è ovunque e sempre, in tutti, il medesimo. L'Uomo che rischia la propria vita non differisce in nulla, per il solo fatto di aver rischiato la vita, da tutti gli altri che hanno fatto altrettanto. Il valore umano costituito dalla Lotta è essenzialmente universale, «impersonale». Ecco perché lo Stato dei Signori, che riconosce un uomo solo in funzione del fatto che egli rischia la propria vita per lo Stato in una guerra di prestigio, riconosce nell'uomo, nel cittadino, soltanto l'elemento puramente universale: il cittadino di questo Stato è un cittadino qualunque; in quanto cittadino riconosciuto dallo Stato, non differisce dagli altri; è un guerriero anonimo, non è il Signor tal dei tali. E lo stesso Capo dello Stato non è che un rappresentante qualunque dello Stato, dell'Universale, non un Individuo propriamente detto: nella sua attività egli è funzione dello Stato; non è lo Stato a essere funzione della sua volontà personale, particolare. In breve, il Capo dello Stato-città greco non è un «dittatore» nell'accezione moderna, cristiana, romantica del termine. Non è un Napoleone, che crea uno Stato con la sua volontà personale, per realizzare e far riconoscere la sua Individualità. Il Capo pagano accetta uno Stato dato, e il suo valore proprio, la sua stessa realtà non è che una funzione di questo Stato, di questo elemento universale dell'esistenza. Ecco perché il Signore, il Pagano non è mai « soddisfatto ». Solo l'Individuo potrà esserlo.

Quanto all'esistenza del Servo, essa si limita all'elemento meramente particolare. Il valore umano costituito dal Lavoro è essenzialmente particolare, «personale». La Bildung, la formazione educatrice del Lavoratore mediante il Lavoro, dipende dalle condizioni concrete in cui il lavoro si effettua, condizioni che variano nello spazio e si modificano nel tempo in funzione di questo stesso lavoro. Dunque, in fin dei conti, è mediante il Lavoro che si costituiscono le differenze tra gli uomini, si formano le «particolarità», le «personalità». Ed è quindi il Servo-lavoratore, e non il Signore-guerriero, a prendere coscienza della sua «personalità» e a immaginare le ideologie «individualiste», in cui il valore assoluto è attribuito alla Particolarità, alla «personalità», e non all'Universalità, allo Stato in quanto tale e al Cittadino considerato come tale.

Solo che a essere riconosciuto universalmente, dagli altri, dallo Stato, dalla Signoria in quanto tale, non è il Lavoro, né la «personalità» del lavoratore, ma tutt'al più il prodotto impersonale del lavoro.

Fintanto che il Servo lavora restando Servo, cioè fintanto che egli non rischia la vita, fintanto che non lotta per imporre il suo valore personale allo Stato, fintanto che non interviene attivamente nella vita sociale, il suo valore particolare resta puramente soggettivo: egli è il solo a riconoscerlo. Il suo valore è dunque unicamente particolare; la sintesi del Particolare e dell'Universale, cioè l'Individualità, è realizzata nel Servo altrettanto poco che nel Signore. Ecco perché, ancora una volta, la sintesi della Particolarità e dell'Universalità nell'Individualità, che sola può veramente «soddisfare» l'Uomo, non può realizzarsi se non nella e mediante la «soppressione» sintetica della Signoria e della Servitù.

Ma torniamo allo Stato pagano, allo Stato-città dei Signori-guerrieri non-lavoratori.

Questo Stato, come ogni Stato, si interessa a e riconosce solo l'Azione dei cittadini, che qui si riduce all'azione guerriera. Lo Stato pagano non riconosce dunque nel Cittadino se non l'aspetto universale dell'esistenza umana. Tuttavia, l'elemento particolare non è, né può essere, del tutto escluso. Infatti, il Signore non è soltanto Signore di servi e cittadino-guerriero di uno Stato. Egli è anche necessariamente membro di una Famiglia. E alla Famiglia, nel Signore pagano, appartiene l'aspetto particolare della sua esistenza.

In seno alla sua Famiglia, l'Uomo non è un Signore qualunque, un Cittadino, un guerriero. È padre, marito, figlio, ed è questo padre, questo marito: un tal dei tali, un «singolo». Soltanto che la sua singolarità riconosciuta nella e dalla Famiglia non è veramente umana. Infatti, nel Signore pagano che non lavora, l'Azione umana, umanizzante, si riduce all'Azione guerriera della Lotta. Ora, in seno alla Famiglia, non c'è Lotta, rischio della vita. Non dunque l'Azione umana (la Tat) è riconosciuta dalla e nella Famiglia in quanto tale, ma unicamente il Sein, l'Essere-statico-dato, l'esistenza biologica dell'uomo, del padre, dello sposo, del figlio, del fratello, ecc.

Ora, attribuire un valore assoluto a un essere non in funzione di ciò che egli fa, dei suoi atti, ma semplicemente perché egli è, in ragione del suo semplice Sein, del suo Essere, significa amarlo. Dunque, si può anche dire che è l'Amore a realizzarsi nella e mediante la Famiglia antica. E poiché l'Amore non dipende dagli atti, dall'attività dell'amato, non può arrestarsi nemmeno con la sua morte. Amando l'uomo nella sua inazione, lo si considera come se fosse morto. La morte dunque non può cambiare nulla nell'Amore, nel valore attribuito nella e dalla Famiglia. Ecco perché l'Amore e il culto dei morti hanno il loro posto in seno alla Famiglia pagana.

La Famiglia particolare e particolarista è dunque un complemento necessario dello Stato universale e universalista pagano. Soltanto che il Signore pagano è altrettanto poco befriedigt, «soddisfatto» dalla vita familiare di quanto non lo sia della sua esistenza di cittadino. Nello Stato e mediante lo Stato è la sua esistenza umana a realizzarsi e a essere riconosciuta. Ma questa esistenza non è veramente sua: non è lui a essere riconosciuto. Quanto alla Famiglia, essa riconosce la sua esistenza personale, particolare. Ma quest'esistenza, essenzialmente inattiva, non è veramente umana.

Là dove le Azioni umane della Lotta e del Lavoro non si sintetizzano in un solo essere umano, l'Uomo non è mai pienamente «soddisfatto». La realizzazione e il riconoscimento dell'Azione unicamente universale nello Stato «soddisfa» l'Uomo altrettanto poco quanto la realizzazione e il riconoscimento del suo Essere personale, particolare nella Famiglia.

Certo, in linea di massima, una sintesi del Particolare familiare e dell'Universale statuale potrebbe soddisfare l'Uomo. Nel Mondo pagano, però, una tale sintesi è assolutamente impossibile. Infatti, la Famiglia e lo Stato si escludono a vicenda, senza che l'Uomo possa fare a meno dell'uno o dell'altra.

Per la Famiglia, il valore supremo è il Sein, l'Essere naturale, la vita biologica del suo membro. Ora, ciò che lo Stato esige dal membro della Famiglia è precisamente il rischio della propria vita, la sua morte per la causa universale. Adempiere il dovere di Cittadino è dunque necessariamente infrangere la legge della Famiglia; e inversamente.

Nel Mondo pagano tale conflitto è inevitabile e senza via d'uscita: l'Uomo non può rinunciare alla Famiglia, perché non può rinunciare alla Particolarità del suo Essere; e non può nemmeno rinunciare allo Stato, perché non può rinunciare all'Universalità della sua Azione. Così, egli è sempre e necessariamente criminale, o verso lo Stato, o verso la Famiglia. È in questo il carattere tragico della vita pagana.

Come l'eroe della tragedia antica, il Mondo pagano dei Signori-guerrieri si trova dunque in un conflitto inevitabile e senza via d'uscita, che sbocca necessariamente nella morte, nella rovina completa di questo Mondo. Vedremo adesso come lo svolgimento di questa tragedia viene rappresentato da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito.

In ultima analisi, il Mondo pagano perisce perché esclude il Lavoro. Ma l'agente immediato della sua rovina è, cosa curiosa, la Donna. Infatti, è la Donna che rappresenta il principio familiare, cioè quel principio della Particolarità che è ostile alla Società in quanto tale e la cui vittoria significa la rovina dello Stato, dell'Universale propriamente detto.

Ora, da una parte la Donna agisce sull'uomo giovane, che non è ancora completamente staccato dalla Famiglia, che non ha ancora completamente subordinato la sua Particolarità all'Universalità dello Stato. Dall'altra, e proprio perché lo Stato è uno Stato guerriero, è l'uomo giovane — il giovane eroe militare — che deve alla fin fine prendervi il potere. E, una volta arrivato al potere, questo giovane eroe ( = Alessandro Magno) fa valere la sua Particolarità familiare, ancora femminile. Egli tende a trasformare lo Stato in sua proprietà privata, in patrimonio familiare, a fare dei cittadini dello Stato i propri sudditi. E ci riesce.

Perché? Ebbene, sempre perché lo Stato pagano esclude il Lavoro. Dato che l'unico valore umano è quello che si realizza nella e mediante la Lotta e il rischio della vita, la vita dello Stato deve necessariamente essere una vita guerriera: lo Stato pagano è uno Stato umano solo nella misura in cui conduce delle perpetue guerre di prestigio. Ora, le leggi della guerra, della forza bruta, sono tali per cui lo Stato più forte deve a poco a poco inghiottire quelli più deboli. La Città-Stato vittoriosa si trasforma così a poco a poco in Impero: in Impero romano.

Gli abitanti della Polis-madre, i Signori propriamente detti, sono troppo poco numerosi per difendere l'Impero. L'Imperatore deve far ricorso a dei mercenari. Di colpo, i cittadini della Città-Stato non sono più obbligati a fare la guerra. E, a poco a poco, dopo un certo tempo, non la fanno più. Per ciò stesso, essi non possono più opporre resistenza al particolarismo dell'Imperatore, che li «sopprime» in quanto Cittadini e li trasforma in «particolari» facenti parte del suo patrimonio, in «persone private».

Insomma, gli antichi cittadini diventano dei servi del sovrano. E lo divengono perché lo sono già. Infatti, essere Signore è lottare, rischiare la propria vita. I cittadini che non fanno più la guerra cessano dunque di essere dei Signori, ragione per cui diventano Servi dell'Imperatore romano. Ecco perché essi accettano l'ideologia dei loro servi: Stoicismo, dapprima; Scetticismo, poi; e, infine, Cristianesimo.

Eccoci dunque arrivati alla soluzione del problema che ci interessa: i Signori hanno accettato l'ideologia dei loro Servi, l'Uomo pagano della Signoria è diventato l'Uomo cristiano della Servitù, e ciò senza Lotta, senza Rivoluzione propriamente detta, perché i Signori sono essi stessi diventati Servi. Più precisamente: pseudoServi o, se si vuole, pseudo-Signori. Infatti, se non sono più dei veri Signori, dato che non rischiano più la vita, non sono nemmeno dei veri Servi, perché non lavorano al servizio d'un altro. Sono, per così dire, Servi senza Signore, pseudo-Servi. E, cessando di essere veri Signori, finiscono per non avere dei veri Servi: li affrancano, e i Servi diventano a loro volta Servi senza Signori, pseudo-Signori. L'opposizione tra Signoria e Servitù è dunque «soppressa». Tuttavia, non perché i Servi sono diventati effettivamente Signori. L'unificazione si realizza nella pseudo-Signoria, che è, in realtà, una pseudo-Servitù, una Servitù senza Signori.

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Questo Servo senza Signore, questo Signore senza Servo, è quel che Hegel chiama il Borghese, il proprietario privato. È diventando proprietario privato che il Signore greco, cittadino della Città-Stato, diventa il pacifico Borghese romano, suddito dell'Imperatore, che, a sua volta, è solo un Borghese, un proprietario privato, il cui patrimonio è l'Impero. Ed è sempre in funzione della proprietà privata che si effettua l'affrancamento dei Servi, che diventano proprietari, Borghesi, simili ai loro ex-signori.

Al contrario della Città-Stato, l'Impero romano è dunque un Mondo borghese. E, in quanto tale, esso diventa alla fine un Mondo cristiano.

Il Mondo borghese elabora il Diritto privato; secondo Hegel, l'unica creazione originale di Roma. E la nozione fondamentale del pensiero giuridico romano, quella di «persona giuridica» (rechtliche Persönlichkeit), corrisponde alla concezione stoica dell'esistenza umana, come pure al principio del particolarismo familiare. Al pari della Famiglia, il Diritto privato assegna un valore assoluto all'Essere puro e semplice dell'Uomo, indipendentemente dalle sue Azioni. E, come nella concezione stoica, il valore attribuito alla « persona » non dipende dalle condizioni concrete della sua esistenza: ovunque e sempre si è una « persona giuridica », e tutti lo sono ugualmente. E si può dire che lo Stato borghese, fondato sull'idea del Diritto privato, è la base reale dello Stoicismo, considerato non in quanto idea astratta, bensì in quanto realtà sociale, storica.

Lo stesso vale per lo Scetticismo nichilista: la sua base reale e la sua realtà sociale, storica, è la proprietà privata (Eigentum). Lo Scetticismo nichilista del Servo solipsista, che attribuisce un valore e un essere vero unicamente a se stesso, si ritrova nel Proprietario privato, che subordina tutto, anche lo Stato, al valore assoluto della sua proprietà. Così, se la sola realtà delle ideologie particolariste, dette « individualiste », è la Proprietà privata, è solo in un Mondo borghese, dominato dall'idea di questa proprietà, che tali ideologie possono diventare forze sociali reali.

Infine, è la stessa essenza borghese dell'Impero romano a spiegare la sua trasformazione in un Mondo cristiano, a rendere possibile la realtà del Cristianesimo, a trasformare l'idea cristiana e l'ideale cristiano in una realtà sociale e storica. Vediamo perché.

Per diventare un essere veramente umano, il Borghese (che, per principio, non lotta, non rischia la vita) deve lavorare, allo stesso modo del Servo. Ma, al contrario del Servo, dato che non ha Signore, egli non deve lavorare al servizio d'un altro. Dunque, egli crede di lavorare per se stesso. Ora, nella concezione hegeliana, il lavoro non può essere veramente Lavoro, Azione specificamente umana, se non a condizione di effettuarsi in funzione di un'idea (di un « progetto »), cioè di qualcosa d'altro rispetto al dato, e, in particolare, rispetto al dato che è il lavoratore stesso. Così il Servo ha potuto lavorare facendo assegnamento sull'idea del Signore, della Signoria, del Servizio (Dienst). Si può anche (e questa è la soluzione hegeliana, definitiva, del problema) lavorare facendo assegnamento sull'idea di Comunità, di Stato: si può, e si deve, lavorare per lo Stato. Il Borghese, però, non può fare né l'uno né l'altro. Egli non ha più un Signore da servire lavorando. E non ha ancora uno Stato, giacché il Mondo borghese non è che un agglomerato di Proprietari privati, isolati gli uni dagli altri, senza comunità vera.

Il problema del Borghese sembra dunque insolubile: egli deve lavorare per un altro, ma può lavorare solo per se stesso. Ora, in realtà, l'Uomo riesce a risolvere il suo problema, e lo risolve, ancora una volta, secondo il principio borghese della Proprietà privata. Il Borghese non lavora per un altro; non lavora però nemmeno per se stesso, considerato come entità biologica. Lavora per se stesso, considerato come « persona giuridica », come Proprietario privato: lavora per la Proprietà considerata in quanto tale, diventata cioè denaro; lavora per il Capitale.

Detto altrimenti, il Lavoratore borghese presuppone, e determina, un'Entsagung, un'Abnegazione dell'esistenza umana; l'Uomo si trascende, si supera, si proietta lontano da se stesso, proiettandosi sull'idea della Proprietà privata, del Capitale, che, pur essendo opera del Proprietario, diventa indipendente da lui e l'assoggetta proprio come il Signore assoggettava il Servo, ma con la differenza che l'assoggettamento è ora cosciente e liberamente accettato dal Lavoratore. (Si vede, sia detto incidentalmente, che per Hegel, come per Marx, il fenomeno centrale del Mondo borghese non è l'asservimento dell'operaio, del borghese povero, da parte del borghese ricco, ma quello di entrambi da parte del Capitale).

Comunque sia, l'esistenza borghese presuppone, genera e alimenta l'Abnegazione. Ora, proprio quest'Abnegazione si riflette nell'ideologia cristiana dualista, assicurandole un contenuto nuovo, specifico, non pagano. È il medesimo dualismo cristiano che si ritrova nell'esistenza borghese: l'opposizione tra la « Persona giuridica », il Proprietario privato, e l'uomo in carne e ossa; l'esistenza di un Mondo trascendente ideale, rappresentato nella realtà dal Denaro, dal Capitale, al quale si suppone che l'Uomo voti le sue Azioni, sacrifichi i suoi Desideri sensibili, biologici.

Quanto alla struttura dell'Aldilà cristiano, essa è formata a immagine dei rapporti realizzati nell'Impero romano tra l'Imperatore e i suoi sudditi, rapporti che, come abbiamo visto, hanno la stessa origine dell'ideologia cristiana: il rifiuto della morte, il desiderio della vita animale, del Sein, sublimato nel Cristianesimo in desiderio dell'immortalità, della « vita eterna ». E, se il Signore pagano accetta l'ideologia cristiana del suo Servo, ideologia che fa di lui un Servitore del Signore assoluto, del Re dei cieli, di Dio, è perché, avendo cessato di rischiare la vita e diventando Borghese pacifico, egli s'accorge di non essere più un Cittadino che può essere soddisfatto da un'attività politica. S'accorge d'essere soggetto passivo di un Imperatore-despota. Allo stesso modo del Servo, egli non ha dunque nulla da perdere, e tutto da guadagnare, se immagina un Mondo trascendente, in cui tutti sono uguali al cospetto di un Signore onnipotente, veramente universale, che d'altronde riconosce il valore assoluto di ciascun Particolare in quanto tale.

Ecco, dunque, come e perché il Mondo pagano dei Signori è diventato un Mondo borghese cristiano. In opposizione al Paganesimo, alla religione dei Signori, dei Cittadini-guerrieri che attribuivano autentico valore solo all'Universalità, a ciò che è valido per tutti e sempre, il Cristianesimo, la religione dei Servi, o, più esattamente, dei Sudditi-Borghesi, attribuisce un valore assoluto alla Particolarità, al qui e ora. Questo cambiamento di atteggiamento si manifesta chiaramente nel mito dell'incarnazione di Dio in Gesù Cristo, così come nell'idea che Dio ha un rapporto diretto, immediato, con ciascun uomo preso isolatamente, senza passare attraverso l'elemento universale, cioè sociale e politico, dell'esistenza dell'Uomo.

Il Cristianesimo è dunque, innanzitutto, una reazione particolarista, familiare e servile, all'universalismo pagano dei Signori-cittadini. Ma esso è qualcosa di più; implica anche l'idea di una sintesi del Particolare e dell'Universale, che è anche sintesi della Signoria e della Servitù: l'idea dell'Individualità, ossia di quella realizzazione dei valori e delle realtà universali in e attraverso il Particolare e di quel riconoscimento universale del valore del Particolare, che soli possono dare all'Uomo la Befriedigung, la «Soddisfazione» suprema e definitiva.

Detto altrimenti, il Cristianesimo trova la soluzione della tragedia pagana. Perciò, dall'avvento di Cristo, non c'è più vera tragedia, cioè conflitto inevitabile e veramente senza via di uscita.

Tutto il problema consiste adesso nel realizzare l'idea cristiana dell'Individualità. E la storia del Mondo cristiano non è altro che la storia di questa realizzazione.

Ora, secondo Hegel, non si può realizzare l'ideale antropologico cristiano (che egli accetta integralmente) se non « sopprimendo » la teologia cristiana: l'Uomo cristiano non può realmente divenire ciò che vorrebbe essere se non diventando un uomo senza Dio, o, se si vuole, un Uomo-Dio. Egli deve realizzare in se stesso ciò che, all'inizio, credeva realizzato nel suo Dio. Per essere realmente Cristiano, deve diventare egli stesso Cristo. Secondo la Religione cristiana, l'individualità, la sintesi del Particolare e dell'Universale, si opera unicamente nell'Aldilà e mediante l'Aldilà, dopo la morte dell'uomo.

Questa concezione non ha senso se non si presuppone l'Uomo come immortale. Ma, per Hegel, l'immortalità è incompatibile con l'essenza stessa dell'essere umano e, di conseguenza, con la stessa antropologia cristiana.

L'ideale umano non può dunque essere realizzato se non è un ideale realizzabile da un Uomo mortale e consapevole di esserlo. Detto altrimenti, la sintesi cristiana deve effettuarsi non nell'Aldilà, dopo la morte, ma quaggiù, durante la vita dell'uomo. Questo significa che l'Universale trascendente (Dio), che riconosce il Particolare, deve essere sostituito da un Universale immanente al Mondo. Per Hegel quest'Universale immanente non può essere che lo Stato. E nello e mediante lo Stato, nel regno terreno, che deve realizzarsi ciò che si crede realizzato da Dio nel Regno dei Cieli. Ecco perché Hegel dice che lo Stato «assoluto» cui egli mira (l'Impero di Napoleone) è la realizzazione del Regno dei cieli cristiano.

La storia del Mondo cristiano è dunque la storia della progressiva realizzazione di questo Stato ideale, in cui l'Uomo sarà alla fine «soddisfatto», realizzandosi come Individualità, sintesi dell'Universale e del Particolare, del Signore e del Servo, della Lotta e del Lavoro. Ma per poter realizzare questo Stato, l'Uomo deve distogliere lo sguardo dall'Aldilà, fissarlo sull'aldiquà e agire unicamente in vista dell'aldiquà. Detto altrimenti, occorre che egli elimini l'idea cristiana della trascendenza.

Ecco perché l'evoluzione del Mondo cristiano è duplice: da una parte, c'è l'evoluzione reale, che prepara le condizioni sociali e politiche dell'avvento dello Stato « assoluto », e dall'altra un'evoluzione ideale, che elimina l'ideale trascendente, e riporta, per dirla con Hegel, il Cielo in Terra.

Quest'evoluzione ideale, che distrugge la Teologia cristiana, è opera dell'Intellettuale. Hegel è molto interessato al fenomeno dell'Intellettuale cristiano o borghese. Ne parla nella sezione B del capitolo vi, e gli dedica tutto il capitolo V.

Quest'Intellettuale può sussistere solo nel Mondo cristiano borghese, dove è possibile non essere Signore, cioè non avere Servi e non lottare, senza per questo diventare a propria volta Servo. Tuttavia, l'Intellettuale borghese è altro rispetto al Borghese propriamente detto. Infatti, se egli, come il Borghese, il non-Signore, è essenzialmente pacifico e non lotta, differisce da questi per il fatto che nemmeno lavora. È dunque sprovvisto sia del carattere essenziale del Servo sia di quello del Signore.

Non essendo Servo, l'Intellettuale può liberarsi dell'aspetto essenzialmente servile del Cristianesimo, vale a dire del suo elemento teologico, trascendente. Ma, non essendo Signore, egli può mantenere l'elemento del Particolare, l'ideologia « individualista » dell'antropologia cristiana. In breve, non essendo né Signore né Servo, egli può, in questo nulla, in questa assenza di ogni determinazione data, « realizzare » in qualche modo la sintesi ambita di Signoria e Servitù: può concepirla. Soltanto che, non essendo né Signore né Servo, cioè astenendosi da ogni Lavoro e da ogni Lotta, egli non può veramente realizzare la sintesi che scopre: senza Lotta e senza Lavoro, questa sintesi concepita dall'Intellettuale resta puramente verbale.

Ora, è di questa realizzazione che si tratta, giacché soltanto la realtà della sintesi può « soddisfare » l'Uomo, portare a compimento la Storia e confermare la Scienza assoluta. Occorre dunque che il processo ideale si colleghi con quello reale, occorre che le condizioni sociali e storiche siano tali che l'ideologia dell'Intellettuale si possa realizzare. È quanto avviene nel momento della Rivoluzione francese, nel corso della quale l'idea immanente dell'Individualità, elaborata dagli Intellettuali del Secolo dei Lumi, si realizzò nella e mediante la Lotta dei Borghesi-lavoratori, dapprima rivoluzionari, in seguito cittadini dello Stato universale e omogeneo (dell'Impero napoleonico).

La realizzazione dell'Idea cristiana, laicizzata dall'intellettuale, e resa quindi realizzabile, non è possibile senza Lotta, senza guerra sociale, senza rischio della vita. E questo per ragioni in qualche modo « metafisiche ». Dato che l'idea da realizzare è l'idea di una sintesi di Signoria e Servitù, questa non può essere realizzata se non a patto che l'elemento servile del Lavoro si associ all'elemento della Lotta per la vita e per la morte che caratterizza il Signore: per diventare Cittadino — « soddisfatto » — dello Stato « assoluto », il Borgheselavoratore deve diventare Guerriero, deve cioè introdurre la morte nella sua esistenza, rischiando coscientemente e volontariamente la vita, pur sapendosi mortale. Si è visto, però, che nella Storia borghese non c'erano Signori. La Lotta in questione non può dunque essere una lotta di classe propriamente detta, una guerra tra Signori e Servi. Il Borghese non è né l'uno né l'altro; essendo Servo del Capitale, egli è il proprio Servo. È dunque da se stesso che deve liberarsi. Ecco perché il rischio liberatore della vita prende la forma non del rischio sul campo di battaglia, ma del rischio creato dal Terrore di Robespierre. Il Borghese-lavoratore, diventato Rivoluzionario, crea egli stesso la situazione che introduce in lui l'elemento della morte. È solo grazie al Terrore che si realizza l'idea della Sintesi finale che « soddisfa » l'Uomo definitivamente.

È nel Terrore che nasce lo Stato in cui questa « soddisfazione » è raggiunta. Per l'autore della Fenomenologia dello Spirito questo Stato è l'Impero napoleonico. E Napoleone stesso è l'Uomo integralmente «soddisfatto» che, nella e mediante la Soddisfazione definitiva, porta a compimento il corso dell'evoluzione storica dell'umanità. È lui l'Individuo umano nel senso proprio e forte del termine: perché è mediante lui, mediante questo particolare, che si realizza la « causa comune » veramente universale, e anche perché questo particolare è riconosciuto nella sua stessa particolarità da tutti, universalmente. Gli manca unicamente l'Autocoscienza; egli è l'Uomo perfetto, ma ancora non lo sa; per questo, se si limita solo a lui, l'Uomo non è pienamente « soddisfatto ». Egli non può dire di se stesso quanto io ne ho appena detto.

Ora, io l'ho detto perché l'ho letto nella Fenomenologia dello Spirito. Dunque Hegel, l'autore della Fenomenologia dello Spirito, è in qualche modo l'Autocoscienza di Napoleone. E poiché l'Uomo perfetto, pienamente « soddisfatto » da ciò che egli è, può essere solo un Uomo che sa ciò che è, che è pienamente auto-cosciente, l'esistenza di Napoleone in quanto rivelata a tutti nella e dalla Fenomenologia dello Spirito è l'ideale realizzato dell'esistenza umana.

Ecco perché il periodo cristiano (cap. VI, B), che culmina in Napoleone, deve essere completato da un terzo periodo storico, d'altronde assai breve (cap. VI, C), quello della Filosofia tedesca, che culmina in Hegel, autore della Fenomenologia dello Spirito. Il fenomeno che porta a compimento l'evoluzione storica e che così rende possibile la Scienza assoluta è dunque la « concezione » (Begreifen) di Napoleone da parte di Hegel. Questa diade, formata da Napoleone e da Hegel, è l'Uomo perfetto, pienamente e definitivamente « soddisfatto » da ciò che egli è e da ciò che sa di essere. È questa la realizzazione dell'ideale rivelato dal mito di Gesù Cristo, dell'Uomo-Dio. Ed è la ragione per cui Hegel termina il capitolo vi con le parole: Es ist der erscheinende Gott... «Questo è il Dio rivelato », il Cristo reale, vero...

Ora, avendolo affermato, Hegel si vede costretto a giustificarsi nei confronti dell'interpretazione cristiana, teologica, dell'idea del Cristo. Egli deve parlare del rapporto tra la sua filosofia, la Fenomenolgia, e la teologia cristiana. Deve dire che cos'è in realtà questa teologia. È questo il tema centrale del capitolo VII.


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