venerdì 20 ottobre 2017

L'esaurimento dell'attuale fase storica del capitalismo*- Guglielmo Carchedi**

*Da:  http://www.antiper.org    https://www.sinistrainrete.info **Guglielmo Carchedi is Senior Researcher in the Department of Economics and Econometrics at the University of Amsterdam. 
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/03/la-caduta-tendenziale-del-saggio-del.html 


Una tesi fondamentale per la teoria della storia e della rivoluzione di Marx è che “Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso” (Per la Critica dell’economia politica, prefazione). 
Ora, se il marxismo è una scienza, ciò deve essere verificato empiricamente. Ma questa verifica è importante anche per un altro motivo. Come dice Gramsci, “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. (Quaderni del carcere , «Ondata di materialismo» e «crisi di autorità», volume I, quaderno 3, p. 311, scritto intorno al 1930). La verifica empirica ci permette anche di capire perché e soprattutto come il vecchio muore.

Nella fase storica attuale – e cioè dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi – il capitalismo incontra un limite sempre più insormontabile a causa della contraddizione tra la crescita della forza produttiva del lavoro da una parte e il rapporto di produzione, quello tra lavoro e capitale, dall’altra. Questa contraddizione si sta facendo sempre più dirompete e il capitalismo sta esaurendo le sue capacità di svilupparsi nel contesto di questa fase storica. La forma concreta presa da questa contraddizione, da questa sua crescente incapacità di svilupparsi, sono le crisi sempre più violente.

Il punto chiave è il tasso di profitto, l’indice fondamentale dello stato di salute dell’economia capitalista. Nell’ambito di una nazione o di un gruppo di nazioni, quello che conta è il tasso medio di profitto. Consideriamo prima il tasso medio di profitto degli Stati Uniti, la nazione che è ancora di gran lunga la più importante. I dati statistici dimostrano che il tasso di profitto degli Usa è in uno stato di caduta irreversibile. La caduta è tendenziale, cioè attraverso cicli economici ascendenti e discendenti. Tuttavia il trend è chiaramente discendente. 


Grafico 1. Tasso medio di profitto, USA, 1945-20101


Il tasso di profitto cade a causa del carattere specifico delle innovazioni tecnologiche, il fattore principale del suo dinamismo. Le innovazioni da una parte aumentano la produttività del lavoro, cioè ogni lavoratore crea una quantità sempre maggiore di merci con l’aiuto di mezzi di produzione sempre più avanzati. Dall’altra, le innovazioni rimpiazzano lavoratori con mezzi di produzione. 


















Grafico 2. Produttività del lavoro e lavoratori per mezzi di produzione 





La produttività aumenta da 28 milioni di dollari per lavoratore nel 1947 a 231 milioni di dollari nel 2010 mentre i lavoratori per mezzi di produzione diminuiscono da 75 nel 1947 a 6 nel 2010. Siccome solo il lavoro produce valore, una ipotesi che può essere dimostrata empiricamente, una quantità sempre maggiore di prodotto contiene un valore sempre minore.







Questo vale anche per il lavoro mentale. Si fa un gran parlare oggigiorno di internet come una nuova prospettiva di sviluppo del capitalismo. In un recente scritto2 analizzo la natura del lavoro mentale e sostengo che esso può essere produttivo di valore e plusvalore, proprio come il lavoro oggettivo, erroneamente chiamato materiale. Tuttavia, anche il lavoro mentale è soggetto alle stesse regole cui è sottoposto il lavoro nel capitalismo. Da una parte, le nuove forme di lavoro mentale danno adito a nuove e più terribili forme di sfruttamento e a nuove possibilità di aumentare ulteriormente il tasso di sfruttamento dei lavoratori mentali. Dall’altra, le nuove tecnologie rimpiazzano lavoro mentale con mezzi di produzione, proprio come succede al lavoro oggettivo. Nonostante le sue caratteristiche specifiche, anche il lavoro mentale non è l’elisir di lunga vita del capitalismo.

Consideriamo ora l’economia globale. Lo stesso andamento del tasso di profitto negli USA si può osservare a livello globale.

Grafico 3. Tasso di profitto mondiale e dei G7, 1963–2008 (indice, 1963 = 100)




Si noti la divergenza nel tasso di profitto dei G7 e del mondo. A incominciare dagli ultimi anni 1980, i G7 hanno sofferto una crisi di profittabilità (trend negativo) mentre il tasso di profitto mondiale ha un trend positivo. Ciò significa che le altre nazioni hanno giocato un ruolo sempre maggiore nel sostenere il tasso di profitto mondiale.






Il grafico seguente pone la fase attuale dello sviluppo capitalista in un contesto storico più ampio.



Grafico 4.



I grafici 1, 3 e 4 evidenziano come il tasso di profitto non cada in linea retta, ma attraverso dei cicli ascendenti e discendenti. E cioè la tendenza a cadere viene temporaneamente frenata e invertita a causa delle controtendenze. Ci sono tre principali contro-tendenze alla caduta del tasso di profitto. Tutte e tre hanno potuto frenare tale caduta solo temporaneamente.






La prima è che le innovazioni tecnologiche diminuiscono il valore di ciascuna unità di prodotto. Questo vale anche per i mezzi di produzione. Il denominatore del tasso di profitto può quindi cadere e il tasso di profitto può crescere. Ciò è vero nel corto periodo ma nel lungo periodo non vi è indeterminazione. Se il tasso di profitto cade, il valore dei mezzi di produzione deve crescere. Questo è quello che evidenzia il seguente grafico

Grafico 5. Valore dei mezzi di produzione (% del PIL), USA, 1947-2010




Questo grafico conferma quanto anticipò Marx nei Lineamenti Fondamentali:una singola machina può costare di meno, ma il prezzo dell’insieme delle macchine che rimpiazza quella macchina aumenta non solo in valore assoluto ma anche relativamente al prezzo dell’output.Nel lungo periodo questa controtendenza non ha funzionato.






La seconda controtendenza è l’aumento del tasso di sfruttamento. I lavoratori producono più valore e plusvalore se lavorano più a lungo e più intensamente. E più producono plusvalore, più aumenta il tasso di sfruttamento, più aumenta il tasso di profitto. Questo è quanto è accaduto dal 1986 in poi, con l’avvento del neo-liberalismo e l’attacco selvaggio ai salari. Il tasso di sfruttamento è salito ai livelli più alti del dopoguerra, con l’eccezione del 1950.

Grafico 6. Tasso di sfruttamento, USA, 1945-2010














Il seguente grafico mette in relazione il tasso di sfruttamento con il tasso di profitto.

Grafico 7. Tasso di sfruttamento e tasso di profitto, 1947-2010


I due tassi sono strettamente correlati. Questo grafico potrebbe essere letto come se il tasso di profitto fosse determinato dal tasso di sfruttamento: fino alla metà degli anni 1980 più diminuisce il tasso di sfruttamento più diminuisce il tasso di profitto. Viceversa, dagli anni 1980 al 2010, più aumenta il tasso di sfruttamento, più aumenta il tasso di profitto. La conclusione che ne trarrebbe economista neo-liberale è che per aumentare il tasso di profitto bisogna aumentare il tasso di sfruttamento, cioè che bisogna ricorrere a politiche di austerità (per il lavoro, non per il capitale).






Ora, è vero che il tasso di profitto aumenta quando aumenta il tasso di sfruttamento. Ma da ciò non deriva che l’economia migliori e che si esca dalla crisi aumentando il tasso di sfruttamento. Il tasso di profitto medio può aumentare a causa del maggiore tasso di sfruttamento ma ciò, a differenze di quello di un singolo capitalista, lungi dal denotare un miglioramento dell’economia, può nasconderne un peggioramento. Cioè può nascondere una decrescente produzione di plusvalore per unità di capitale investito e una maggiore ripartizione a favore del capitale. Ma solo la produzione di plusvalore (non la sua ripartizione) per unità di capitale investito denota lo stato di salute dell’economia capitalista.

Una misura del tasso di profitto determinato solo dal plusvalore prodotto si ottiene calcolando il tasso di profitto con un tasso di sfruttamento costante.

Grafico 6. Tasso di profitto con tasso di sfruttamento costante, USA, 1947-2010




Come si vede, la produzione di plusvalore per unità di capitale investito scende tendenzialmente in tutta l’attuale fase storica. 





Questo grafico si può suddividere in due periodi, dal 1947 al 1986 in cui entrambe le misure del tasso di profitto cadono

Grafico 7. 
















Grafico 8. e dal 1987 al 2010. 



In questo periodo il tasso di profitto con tasso di sfruttamento costante cade anche nel periodo dalla metà degli anni 1980 a oggi e cioè nel periodo neo-liberista. Dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, il sistema è sempre meno in grado di produrre plusvalore per unità di capitale investito, un fatto nascosto da un crescente tasso di sfruttamento ma rivelato se il tasso di sfruttamento è tenuto costante. L’aumento del tasso di profitto con tasso di sfruttamento variabile dalla metà degli anni 1980 in poi denota non un miglioramento dell’economia ma un suo peggioramento, come evidenziato dall’andamento del tasso di profitto con tasso di sfruttamento costante. La torta diminuisce mentre la fetta appropriata dal capitale aumenta.




Vediamo ora la terza controtendenza. L’aumento del tasso medio di sfruttamento a livello globale e quindi la compressione dei salari, significa che da una parte il potere d’acquisto delle masse diminuisce e dall’altra il plusvalore prodotto non può essere investito nei settori produttivi perché il tasso di profitto cade in questi settori. Allora il capitale emigra ai settori improduttivi, commercio, finanza e speculazione. I profitti fatti in questi settori sono fittizi, sono detrazioni dai profitti fatti nella sfera produttiva.

Grafico 9. Profitti reali e profitti finanziari, miliardi di dollari, 1950-2010, USA



Mentre nel 1950 i profitti finanziari erano il 3.1% dei profitti reali, nel 2010 erano diventati il 136.5%.
Implicito in questo movimento vi è la crescita del debito globale. La crescita dei profitti fittizi avviene attraverso la creazione di capitale fittizio e cioè l’emissione di titoli di debito (per esempio obbligazioni) e di ulteriori titoli di debito su questi titoli di debito. Si è creata così una montagna di titoli di debito interconnessi dovuta ad una crescita esplosiva del debito globale. 
















Grafico 10. Moneta e debito come percentuale del PIL globale, USA 1989-2011




La vera moneta è cioè la rappresentazione di valore, di lavoro congelato nelle merci. Questa è chiamata power money. Essa è una frazione minima rispetto alle tre forme di credito. Ma il credito rappresenta debito, non ricchezza, e quindi non è moneta, anche se può fare alcune delle funzioni della moneta.







L’enorme aumento del debito e le crisi finanziarie che ne conseguono quindi sono una conseguenza della crisi nei settori produttivi, la caduta del tasso di profitto con taso di plusvalore costante, e non la loro causa. Questo enorme incremento del debito nelle sue varie forme è il substrato delle bolle speculative e delle crisi finanziarie, compresa la prossima. Anche in questo caso, l’aumento del tasso di profitto dovuto ai profitti fittizi incontra il suo limite, le ricorrenti crisi finanziarie.

Il capitalismo è in rotta di collisione con se stesso. Le contro-tendenze funzionano sempre di meno e cioè

(1) i mezzi di produzione diventano sempre più costosi, nel senso che richiedono una quota sempre maggiore del PIL, invece di essere sempre più economici;

(2) l’ incremento del tasso di sfruttamento aumenta il tasso di profitto ma questo aumento è drogato perché non denota un aumento del plusvalore prodotto ma una sua diminuzione assieme ad una sua maggiore appropriazione da parte del capitale;

(3) la crescita esponenziale del capitale fittizio non fa altro che gonfiare la bolla speculativa e ne provocherà l’esplosione. Questa sarà il catalizzatore della crisi nei settori produttivi.

I segnali che la prossima crisi si sta avvicinando sono chiari: da una parte il perdurare della caduta tendenziale ma irreversibile del tasso di profitto mondiale anche se con sussulti di controtendenza. Dall’altra i fattori che saranno i catalizzatori della crisi di profittabilità e cioè

(1) i primi indizi di guerre commerciali che, se si verificheranno, ridurranno il commercio internazionale e quindi sia la realizzazione che la produzione di valore e plusvalore.

(3) i focolai di guerre soprattutto nelle regioni ricche di petrolio che possono improvvisamente ampliarsi in guerre tra grandi potenze. I capitali delle nazioni produttrici di armamenti accrescerebbero i loro profitti, ma le zone belligeranti subirebbero una distruzione di capitale e quindi della capacità di produrre valore e plusvalore. Quest’ultimo sarebbe il caso se i conflitti si allargassero oltre i confini locali.

(4) il crescere di movimenti di destra e ultra-nazionalisti alimentati anche dalle politiche neo-liberiste e che formano un terreno culturale congeniale ad avventure militari.

Si potrebbe sostenere che il capitalismo può riprendersi se non nel mondo occidentale, nelle economie cosiddette emergenti. Questo è un termine ideologico per denotare quelle economie che, nello scacchiere imperialista, sono le economie dominate il cui ruolo è di contribuire più delle altre economie dominate alla riproduzione del sistema capitalista mondiale. La fallacia di questo argomento è che le forze produttive delle cosiddette economie emergenti sono quelle dei paesi tecnologicamente avanzati e hanno quindi gli stessi limiti, e cioè la sempre maggiore produttività del lavoro da una parte e la costante riduzione del lavoro stesso dall’altra e quindi una tendenziale caduta del tasso di profitto. Dopo un primo periodo di espansione, riemerge la tendenza verso la caduta del tasso di profitto, compresa la sovrapproduzione derivante da tale caduta. La Cina, l'India, i BRICS offrono della stessa malattia di cui soffre il mondo occidentale. Per fare solo un esempio, il grado di dipendenza tecnologica della siderurgia Cinese dalla tecnologia dei paesi avanzati varia dal 65% per la produzione di energia, all’85% per la colata e trasformazione dei semilavorati, al 90% per i sistemi di controllo, analisi, sicurezza, tutela ambientale, ecc.

Si potrebbe anche sostenere che il capitalismo potrebbe avere una nuova fase di sviluppo attraverso politiche Keynesiane sia redistributive che di massicci investimenti statali. In una situazione in cui le politiche neo-liberali di macelleria sociale sono platealmente fallite, l’opzione Keynesiana ritorna alla ribalta. Ma chi potrebbe finanziarle? Non certo il lavoratori, perché in una situazione di crisi, e cioè di stallo o di diminuzione del plusvalore prodotto, più alti salari significano profitti più bassi. Non certo il capitale, perché la profittabilità è già bassa senza che i profitti siano ulteriormente decurtati. Lo stato, allora. Ma i soldi dove li può prendere? Non può prenderli né dal lavoro né dal capitale per quanto appena detto. Quindi deve ricorrere al debito pubblico. Ma questo è già alto e inoltre contribuirebbe al gonfiamento della bolla speculativa. La risposta Keynesiana è che lo stato dovrebbe ricorrere al debito pubblico temporaneamente per finanziare grandi opere di investimenti pubblici. Gli investimenti iniziali provocherebbero altri investimenti, e questi altri ancora in una cascata moltiplicativa di occupazione e produzione di ricchezza. A quel punto le maggiori entrate dello stato potrebbero essere usate per eliminare il debito pubblico. Questo è il moltiplicatore Keynesiano. Ma non funziona.

Dopo i primi investimenti indotti dallo stato, i capitalisti a cui sono state commesse le opere pubbliche dovranno piazzare commesse a loro volta presso altri capitalisti. Questi soni i capitalisti che offrono i prezzi più convenienti, i capitalisti i cui lavoratori sono più produttivi e i cui capitali sono più efficienti e quindi che impiegano proporzionalmente più mezzi di produzione che lavoro. Cioè essi sono i capitasti che producono meno plusvalore per unità di capitale investito. Ad ogni passo della catena di investimenti, il lavoro aumenta in assoluto ma diminuisce percentualmente, cosicché il tasso medio di profitto cade. Per di più, la crescita dei capitali più forti implica la sparizione di quelli più deboli, quelli che percentualmente occupano più la voro che mezzi di produzione. Quando la catena di investimenti si ferma, meno lavoratori sono stati impiegati, meno plusvalore è stato prodotto e il tasso medio di profitto è caduto. La verifica empirica lo conferma: ad una crescente spesa statale corrisponde un calo del tasso di profitto.

Grafico 11. Spese governative (% del PIL) e tasso di profitto con tasso di plusvalore variabile, USA, 1947-2010 





La correlazione è negativa (-0.8). Questo grafico evidenzia che fino agli anni 1980 le crescenti spese statali non possono frenare la caduta del tasso di profitto. La tesi Keynesiana fallisce. Dagli anni 1980 in poi, il tasso di profitto cresce assieme alle spese statali. Tuttavia, cresce perché il tasso di sfruttamento cresce e non perché crescono le spese statali. Infatti se il tasso di plusvalore è tenuto costante, la correlazione negativa vale per tutto il periodo secolare, compreso il periodo del neo-liberalismo, dagli anni 1980 in poi. 









Grafico 12. Spese governative (% del PIL) e tasso di profitto con tasso di plusvalore costante, USA, 1947-2010




Questo grafico evidenzia che per tutta la durata di questa fase storica le crescenti spese statali non hanno potuto frenare e invertire la caduta della produzione di plusvalore per unità di capitale investito, cioè la caduta del tasso di profitto che misura lo stato di salute del capitale, il tasso di profitto a tasso di plusvalore costante.
Questo risultato è riscontrato anche per ogni singola crisi: le spese governative aumentano dall’anno precedente la crisi agli anni delle crisi in tutti e dieci casi. Esse non possono evitare le crisi. 








Grafico 13.differenze in punti percentuali delle spese governative dall’anno precedente la crisi all’ultimo anno di crisi 


La fallacia del ragionamento Keynesiano è che non considera le conseguenze delle politiche d’investimenti governative per il tasso di profitto, che è la variabile fondamentale dell’economia capitalista. La ragione della correlazione negativa è, come ho appena detto, che ad ogni ciclo di investimenti, gli investimenti in mezzi di produzione sono percentualmente maggiori di quelli in forza lavoro, come predetto dalla teoria Marxista.

Ma le politiche di spese governative, se non possono frenare le crisi, possono essere il fattore per uscire dalla crisi? La tesi Keynesiana vale solo se nell’anno post-crisi le spese governative aumentano assieme al tasso medio di profitto. Col tasso di profitto a tasso di sfruttamento costante, la tesi che la ripresa è dovuta ad un aumento delle spese governative fallisce in tutti e dieci casi. Le politiche Keynesiane non riescono a incrementare la produzione di plusvalore per unità di capitale investito. 








Grafico 14. Differenze nelle spese governative (% del PIL) e nel tasso di profitto con tasso di plusvalore costante dall’ultimo anno di crisi al primo anno dopo la crisi 





In breve, un aumento delle spese governative dall’anno precedente la crisi all’ultimo anno di crisi non può impedire che le crisi esplodano; e un aumento delle spese governative dall’ultimo anno di crisi al primo anno dopo la crisi non può riattivare la profittabilità del sistema. Entrambi i risultati sono contrari alla tesi keynesiana.






Di fronte al fallimento delle politiche economiche sia keynesiane che neo-liberiste, non sembrano esserci vie d'uscita se non quella generata spontaneamente dal capitale stesso: una massiccia distruzione di capitale. Si uscì dalla crisi del 1933 solo con la seconda guerra mondiale. Si uscì dalla crisi non perché il capitale fisico fu distrutto. Se il capitale è prima di tutto un rapporto di produzione, un rapporto tra capitale e lavoro, la guerra causò la distruzione e la rigenerazione di capitale come rapporto di produzione. Con l’economia di guerra, si passò dalla sfera civile piagata da una grande disoccupazione, da un basso grado di utilizzo dei mezzi di produzione, e da un tasso di profitto in caduta, alla economia militare caratterizzata dal pieno impiego sia della forza lavoro che dei mezzi di produzione, dalla realizzazione garantita dallo stato delle merci militari, da alti livelli di profitti e profittabilità e da alti livelli di risparmio. Dopo la guerra vi fu la riconversione dell’economia militare in quella civile. La spesa governativa come percentuale del PIL cadde da circa il 52% nel 1945 al 20% nel 1948, cioè nella cosiddetta Età dell’Oro del capitalismo. Gli alti livelli di risparmio garantirono il potere d’acquisto necessario per assorbire i nuovi mezzi di consumo che a loro volta richiesero la produzione di nuovi mezzi di produzione. Tutta una serie di invenzioni originate durante la guerra fu applicata per la produzione di nuovi prodotti. Negli USA l’apparato produttivo fu indenne. Ma nelle altre nazioni belligeranti vi fu anche un’immane distruzione di mezzi di produzione e forza lavoro. Il capitalismo fu rivitalizzato per un quarto di secolo. Ma a che prezzo? Un quarto di secolo di riproduzione allargata costò decine di milioni di morti, atroci sofferenze e immense miserie. Questo è quanto i lavoratori, oltre a finanziare la guerra, dovettero pagare per dare nuova vitalità al sistema.

Dopo la cosiddetta Età dell’Oro, che comunque non fu indenne dalla caduta del tasso di profitto (si vedano i grafici 1 e 6 più sopra), il sistema è entrato in una lunga fase discendente che dura già da circa metà secolo e di cui non si intravede la fine. Ci avviamo verso un inevitabile collasso che porrà fine al capitalismo? Non penso che il capitalismo si autodistruggerà. Non è nella natura della bestia. Il capitalismo uscirà dalla crisi ma solo dopo una sufficiente distruzione di capitale, sia finanziario che nella sfera produttiva. È però difficile immaginare a questo punto quale forma potrà prendere questa distruzione di capitale. Il modo in cui il capitale eccedente sarà distrutto determinerà la forma che prenderà il capitale se e quando uscirà da questa fase storica. Dalla crisi del 1929 si uscì solo con la Seconda Guerra Mondiale.

Un principio fondamentale della teoria Marxista è la contraddizione tra forza produttiva e rapporto di produzione. La forza produttiva è la produttività del lavoro; il rapporto di produzione è il rapporto capitale/lavoro. La contraddizione è questa: più la produttività del lavoro aumenta, più il capitale espelle lavoro. La caduta del tasso di profitto è l’espressione sintetica di tale contraddizione. Questa contraddizione è un cardine del sistema capitalista e quindi anche della fase attuale del suo sviluppo. La caratteristica specifica dell’attuale fase storica è che questa contraddizione diventa sempre più irrisolvibile e sempre più esplosiva. Le capacità di sopravvivenza dell’attuale fase storica si stanno esaurendo, il capitalismo tende a morire. Ma non può morire senza essere rimpiazzato da un sistema superiore e quindisenza che intervenga la soggettività di classe. Senza questa soggettività si rinnoverà e entrerà in una nuova fase in cui il suo dominio sul lavoro sarà ancora maggiore e più tremendo. Una condizione affinché ciò non accada è che le sacrosante lotte dei lavoratori per maggiori investimenti statali, per riforme e per migliori condizioni di vita e di lavoro siano condotte nell’ottica della contrapposizione insanabile tra capitale e lavoro, e non nell’ottica Keynesiana di collaborazione di classe.

Note

[1] I dati sono deflazionati e riguardano solo i settori produttivi di valore.
[2] Carchedi, 2014, ‘Old wine, new bottles and the Internet’, 
Work Organisation, Labour & Globalisation, Vol 8, No 1.



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