lunedì 9 ottobre 2017

La colonizzazione globale: le false unità e le false identità nelle ideologie dell’impero*- Edoarda Masi**



*Da:  http://www.ospiteingrato.unisi.it 

 **Edoarda_Masi è stata una saggista italiana, specializzata nella cultura della Cina e nella lingua cinese.


Il significato dei nomi cambia perché nel dipanarsi della storia cambiano i concetti che essi designano. Nello stesso tempo, le costruzioni mentali collettive durano in sostrati profondi, al di sotto delle mutazioni, e nella coscienza comune i nuovi significati contengono in qualche misura quelli apparentemente cancellati, anche i più antichi. Da questo derivano anche mistificazioni ideologiche, dove appare uniforme quello che è differente, e viceversa. Allora l’esistenza dei sostrati profondi da ricchezza può trasformarsi in contributo alla confusione delle menti. Perfino chi combatte le attuali forme di dominio è a volte in qualche misura partecipe inconscio delle ideologie che le sostengono, qualora (per usare l’immagine di Salman Rushdie) si trovi dentro il ventre della balena. 

Come rimedio (di forte valore teorico se pure di scarso risultato pratico) agli equivoci che emergono col mutare dei concetti e delle definizioni, fin dalla remota antichità si è fatto appello alla “verifica dei nomi” – per dirla in termini confuciani. 

Nomi antichi, che più volte hanno mutato significato nel corso del tempo, sono quelli di colonia, colonizzazione, impero; più recente (ma attribuito anche a vicende antiche) quello di imperialismo. 

Ogni civiltà (al limite, ogni individuo) pone se stessa al centro del mondo, e di sé fa misura di ogni cosa. Quando il cerchio ristretto si allarga in un grande spazio unitario che include luoghi e popoli lontani – in impero, nell’accezione generica del termine – i nuovi soggetti dominati appaiono dapprima alieni, diversi; giacché dal luogo centrale si riesce ad assoggettarli, in qualche modo inferiori. La dimensione che si vuole universale si nutre del localismo che ignora altrui. Da Atene a Roma alla Cina a Venezia. Chi non parla greco è barbaro, non conosce la lingua. (Alcuni montanari spagnoli emarginati isolati dal resto del mondo, di cui racconta Costancia de la Mora, incontrati certi turisti di lingua inglese li accolsero come gente incapace di parlare.) 

Dilatata nel dominio, l’entità particolare si pretende universale. E di sé vuole dilatata l’immagine; come quel doge veneziano che, non riuscendo a trovare Venezia su un mappamondo, a chi gli obiettava che il mondo è grande e Venezia è piccola rispondeva di stringere il mondo e allargare la Serenissima. A fine Ottocento, quando l’impero cinese aveva già subito l’umiliazione delle sconfitte e dei trattati ineguali, i suoi ambasciatori nelle relazioni ufficiali continuavano a definire “barbari occidentali” le potenze che glieli avevano imposti. (Negli anni settanta un docente cinese all’Università di Napoli rideva della debolezza superstiziosa di un collega italiano che, pur membro della comunità dei colti, si recava in chiesa e addirittura si faceva il segno della croce. Comportamento non diverso da quello, di cui pure sono stata testimone, di turisti italiani non incolti in una moschea di Istanbul; o di studenti europei in visita a monasteri buddhisti in Cina1.) 

Ma le grandi aree culturali – come quelle del Mediterraneo, dell’Asia Centrale, Meridionale, Orientale e gli imperi che in esse si formano – se rivelano le identità locali, le xenofobie, i razzismi, ne fanno emergere anche i limiti. Aprono le comunicazioni, sono percorse da strade via terra e via mare. Roma si dichiara caput mundi ma non ignora l’esistenza degli altri “mondi” coi quali comunica e commercia. A Xi’an gli archeologi hanno trovato monete romane. I cinesi, che anch’essi identificano quella parte di mondo in cui vivono col mondo tout-court (tian xia), sanno pure che quelle monete vengono dal Da Qin, altro grande impero (nonostante tutto, altra parte del mondo) al quale conducono le vie per l’Occidente. La Cina Tang non è più solo Cina, ma anche Asia centrale, anche Persia; An Lushan, il generale transoxano che nell’VIII secolo con la sua rivolta fa tremare il paese e lo stato, ha lo stesso nome di Roxana moglie di Alessandro. I pittori senesi del Duecento conoscono i rotoli di pittura Song. I grandi studiosi arabi trasmettono Aristotele, che hanno ricevuto dai nestoriani. Il viaggio di Dante non ignora l’ascesa al Cielo di Muhammad. I giovani aristocratici del Sogno della camera rossa indossano cappotti di lana olandesi. Pur con l’impronta della sopraffazione, Islam e cristianesimo s’intrecciano nella moschea-cattedrale di Cordoba. Nel microcosmo di Londra si ritrovano le forme del macrocosmo, i dominati modificano l’essenza del dominatore. Nei nuovi spazi, è difficile distinguere fra civiltà originarie, dominatrici e dominate. 

Roma infine non aveva potuto non riconoscere la cittadinanza a tutti gli abitanti del suo impero. Su quel terreno crebbe il più grande impero ideologico – religioso mondiale, il cattolicesimo: prima del comunismo, una ideologia di reale uguaglianza fra gli uomini di ogni luogo e nazione. Non sfuggì tuttavia alla dialettica del dominio, religioso e non. (Ancor meno vi sfuggì il cristianesimo protestante, che accompagnò la crescita del capitalismo e delle nazioni). 

Il concetto (e il termine) di imperialismo emerge all’inizio del secolo XX nella critica socialista (Hilferding, Lenin, Luxemburg) riferito non più a vecchie strutture come l’impero germanico o russo o cinese ma alle nuove e svariate forme politiche in cui il capitale esercita il suo controllo. Alla critica dell’imperialismo si associerà negli anni successivi il movimento mondiale contro il colonialismo. 

Alla cosiddetta “decolonizzazione” in quanto presa di coscienza delle distorsioni etnocentriche nelle visioni del mondo – l’eurocentrismo in primo luogo – hanno contribuito molti autori, europei e non, nel corso del XIX secolo, da Aimé Césaire a Sartre a Frantz Fanon, per ricordare solo alcune delle tappe più famose e fondanti. La messa in questione della preminenza dell’Europa nella storia mondiale è poi andata molto oltre nella ricerca teorica e storiografica ad opera di pensatori radicali all’interno del contesto accademico statunitense2 . La critica di alcuni autori è volta anche alle ideologie che strumentalizzano largamente elementi della classicità quale è stata trasmessa a partire dal Rinascimento (in concomitanza con l’ascesa della classe borghese in Europa, prima nella sfera mediterranea, e dal Cinquecento in poi trasferita verso il Nord). Di qui risalgono direttamente, attraverso il medioevo, fino al mondo antico greco-romano3 . Nell’altra direzione, che conduce al presente, arrivano a stabilire un filo di continuità-identità fra l’attuale imperialismo USA e il colonialismo europeo. In tal modo non solo il colonialismo ottocentesco risulta una continuazione di precedenti storici preborghesi e protoborghesi, ma anche l’imperialismo dei nostri giorni viene interpretato come una ripetizione di forme passate di supremazia sopranazionale4 . 

Dato che l’impero tende ad avere oggi carattere planetario, ogni settore può ritrovare al suo interno il ripetersi, il séguito e l’aggravarsi della propria condizione di soggetto nel passato. Il patrimonio ereditato ha in questo una funzione eccellente, anche a motivo del divide et impera messo in atto dalla generale struttura di comando gerarchico-piramidale, per cui ciascuno vede solo se stesso e non gli altri5 . Ma rilevare l’acquisizione ideologica di precedenti storici (fra l’altro, inevitabilmente deformati) da parte di chi discende o pretende discendere da una data tradizione dovrebbe distinguersi dal costruire una omogeneità di fatto fra presente e passato, fino al passato più remoto. 

Si pone allora il quesito: l’imperialismo europeo, cioè la colonizzazione economica, culturale e politica di grandi zone del mondo da parte dell’Europa, iniziata nel XVI secolo e culminata nel XX, continua e ripete le strutture dei vecchi imperi e del suo stesso passato, oppure se ne differenzia per aspetti sostanziali, è un fenomeno qualitativamente nuovo? Conserva poi il medesimo carattere per tutto l’arco temporale dal Cinque all’Ottocento? E infine: in che cosa l’attuale imperialismo USA si assimila al colonialismo-imperialismo europeo ottocentesco e in che cosa se ne distingue? 

Il punto chiave nelle interpretazioni guidate da criteri più o meno continuistici sta nella questione se la storia culturale percorra verticalmente un filo interno da cultura e cultura (scienza e politica incluse, con nullo o scarso riguardo ai connotati di classe); oppure si colleghi orizzontalmente (se pure non meccanicamente) con l’evoluzione economico-sociale e con le contraddizioni di classe interne a ogni società. Non è un caso se una discussione accesa su questo tema si svolse già nei primi anni quaranta durante la resistenza antigiapponese in Cina – in un paese cioè dove l’imperialismo era subìto e percepito nei due aspetti congiunti di sopraffazione economica (di classe) e di attacco all’identità nazionale (da parte di altre nazioni)6. 

Quanti optano per l’interpretazione continuistica ignorano o dànno scarso peso ai mutamenti qualitativi introdotti nei rapporti interni ed esterni alle singole società dalle trasformazioni dell’economia, e specificamente per gli ultimi secoli dalla nascita e dalla crescita di un insieme di strutture senza precedenti, radicalmente innovative, che conducono alla formazione e quindi all’egemonia del capitale; sottolineano invece, come relativamente indipendente, la questione delle identità nazionali. Viene posto l’accento sul potere politicointellettuale esercitato da nazione su nazione: nell’ipotizzare resistenza o rivolta non è possibile in tal caso sfuggire all’opzione nazionalista, in positivo o in negativo – rivendicando una pretesa indipendenza o accettando lo stato di servitù, in termini più o meno espliciti. 

Il tentativo di evitare le reazioni nazionaliste, con le loro derive dai fondamentalismi ai fascismi (e fino agli oltranzismi regionalistici) oppure verso il servilismo imitativo, in quest’ottica coincide col voler riportare le coscienze a una visione ecumenica di tolleranza fra “diversi”, di “interculturalità” e di meticciato programmato. Ma – stante l’affermarsi di un sistema mondiale unipolare – questo tentativo equivale inevitabilmente ad accettare i parametri di fondo da esso imposti. In concreto, i parametri della tradizione anglosassone nella versione declassata USA. Così quella colonizzazione che si voleva combattere viene riaffermata nella forma nuovissima, e subdola – rivestita di apparente spirito internazionalista, umanitario, filantropico, tollerante. 


L’espansione aggressiva di alcune nazioni europee verso Oriente e verso Occidente, che ha inizio alla fine del secolo XV e si conferma e dilata nei secoli seguenti, segna un mutamento radicale nei rapporti fra i popoli. All’ignoranza reciproca o alla conoscenza più o meno estesa e più o meno accompagnata da pregiudizi reciproci di superiorità, agli scambi pacifici ed ai conflitti e agli scontri nella vasta area eurasiatica, subentra ora e si afferma un principio nuovo, gerarchico, di valenza universale. La violenza delle armi e la violenza economica vanno imponendo come assoluta una sola civiltà, a detrimento di tutte le altre, via via ridotte a frammenti, archeologia o folklore. Molti aspetti di questa vicenda sono oggetto di disputa fra gli storici e fra gli storici dell’economia – è controverso soprattutto a quando si debba far risalire il primato economico e tecnologico europeo rispetto ad alcuni grandi paesi asiatici, che è alla base della costruzione gerarchica7 . In ogni caso, è nel corso dell’Ottocento che si verifica un vero e proprio salto quantitativo e qualitativo, coincidente con l’introduzione delle macchine nella produzione, combinata con l’evoluzione dall’organizzazione manifatturiera alla fabbrica capitalistica. 

Il riconoscimento di questo salto in Europa è comune a quanti interpretano le mutazioni sociali come determinate da un processo culturale più o meno indipendente e a quanti sottolineano invece la centralità delle strutture economiche. In termini abbreviati, e semplificati più di quanto richiederebbe la complessità del discorso (giacché i due orientamenti si intrecciano in una pluralità di teorizzazioni): i primi pongono l’accento sulla novità tecnologica nella rivoluzione industriale; i secondi considerano le nuove tecnologie funzionali all’evoluzione dei rapporti di produzione e da questa inscindibili, anche nella scelta fra più forme specifiche e opzioni tecniche in apparenza. Solo questa seconda impostazione – che vede nell’affermarsi del capitale un evento inedito nella storia – consente di comprendere la dimensione epocale della trasformazione che ha inizio col XIX secolo. Di portata enormemente più vasta e radicale del passaggio al “macchinismo” e alla “modernità”, è tale da giungere alle conseguenze estreme oggi, quando macchinismo e modernità hanno già compiuto la loro parabola8 . 

È ancora controverso in che misura l’accumulazione originaria indispensabile per il decollo dell’economia capitalistica sia dovuta all’oro e all’argento importati in Europa dalle Americhe, e in generale allo sfruttamento delle popolazioni oggetto di conquista nei secoli XVI-XVIII, o ad un processo interno al continente europeo. Sia stato prevalente o determinante l’uno o l’altro fattore, è certo che la svolta fondamentale nei rapporti con i colonizzati, e di conseguenza la crescita di una ideologia organica del colonialismo-imperialismo, sono inscindibili dall’affermarsi dell’economia capitalistica9 . La scala gerarchica fra le classi, presente anche nelle società precedenti e in alcune di esse mascherata in sistemi di casta, si ristruttura su una base dualistica, impostata sulla manifesta razionalità che contrappone i detentori-gestori del capitale (e di qui, del potere in ogni suo aspetto) a quanti possiedono solo la propria forzalavoro da vendere come merce. Questa razionalità binaria domina l’articolarsi dei diversi gradi gerarchici che includono ceti e gruppi sociali non immediatamente o esclusivamente assegnabili all’uno o all’altro dei due poli, e si riflette su ogni forma di potestà, di eredità antica (come quelli dei maschi sulle donne, degli adulti sui giovani, ...) o recente (come quello dei colonizzatori sui colonizzati) e ne trasforma il carattere10. Anche fra le nazioni si stabilisce una gerarchia nuova, fondata sulla priorità o sul ritardo dello sviluppo-progresso. Ha questa origine e questo fondamento, e prima ancora che ai popoli assoggettati si applica alle nazioni europee, l’ideologia che discriminerà fra “avanzati” e “arretrati”, “moderni” e “premoderni”: quando alla società “moderna” – nell’ultima fase dell’ultima rivoluzione industriale – verrà attribuita la superiorità assoluta su quelle “premoderne” – prese in blocco dal paleolitico al Rinascimento e annullate nella loro specificità11. Ma già prima dell’Ottocento il mondo mediterraneo (inclusi Spagna e Portogallo con le loro glorie recenti, anche colonialiste) era decaduto a sfera inferiore, mentre si affermava la superiorità dell’Europa centro-settentrionale. 

Unità e ideologia si perfezionano e si impongono al mondo intero quando la preminenza del capitalismo anglosassone si perfeziona e si impone al mondo intero, Europa inclusa, trasferendosi negli Stati Uniti, dove i nuovi rapporti di produzione hanno ottenuto il loro trionfo nella velocità e universalità dello sviluppo. Il pensiero e il costume unitario divengono allora la grande ideologia del comando unificato. I suoi panni appaiono stranieri, “barbarici”, eppure ebbero origine in terra europea; in primo luogo nella struttura economica, che anche al concetto di cultura impone oggi di sostituire un certo tipo di merce – i “beni culturali”. La dipendenza prodotta dall’interno – dal nostro stesso passato – ci torna da fuori, da luoghi estranei ai mediterranei e all’Eurasia12. 

L’imperialismo USA nasce dalle condizioni del colonialismo ottocentesco ma ne perfeziona la coincidenza col dominio del capitale. La conquista di gran parte del pianeta ad opera di alcune potenze europee si evolve in una colonizzazione non limitata a determinate nazioni-etnie. L’impero attuale si distingue da quelli precedenti nella storia perché al suo centro non sta la differenzasopraffazione-incontro di etnie e di civiltà ma la sopraffazione di classe prossima allo stadio finale della mondializzazione – che si maschera ideologicamente in differenze culturali, etniche, religiose, ecc. Gli strati più bassi della piramide si trovano spesso a coincidere con gli strati più bassi ereditati dal sistema coloniale, e cioè con la parte inferiore dei popoli già colonizzati. Ma all’interno delle metropoli la condizione di colonizzati si distingue sempre meno da quella di proletari, prima nelle zone marginali di ex schiavismo e di immigrazione recente, poi in cerchi via via più larghi. Invece del meticciato cresce la distruzione delle culture. Lo stato di colonizzati va a corrispondere all’universale alienazione. 

La nuova colonizzazione fa propri alcuni meccanismi di quella che l’ha preceduta. Si impadronisce non solo di ricchezza materiale ma di tutto ciò che di “interessante”, “bello”, “utile”, “civile” appartenga ai colonizzati e lo trasforma in elemento della cultura colonizzatrice. In primo luogo utilizza strumentalmente i fondamenti etici della tradizione europea, cristiana o illuministica13. Questo procedimento viene messo in atto anche a proposito dei contenuti già rivoluzionari, come pure nei confronti dei germi di opposizione, che vengono trasformati in elementi ornamental-secondari del pensiero unico (di chiacchiera democratica, umanitaria e perfino egualitaria) e distrutti nella sostanza, a volte anche anticipando le mosse della resistenza avvenire. Lo strangolamento sul nascere non avviene con misure violente, ma fin dove e quando possibile con l’uso dell’infiltrazione, della falsità programmata, della deviazione14. Si allarga il repertorio delle parole svuotate di significato (solidarietà, difesa dell’ambiente, diritti umani...). 

Sono invece inutilizzabili altri strumenti che erano stati funzionali al dominio e all’equilibrio sociale e civile, quali il collegamento fra i ceti colti e il popolo lavoratore. Nelle società non borghesi (come pure nel passato protoborghese) la pienezza della coscienza si accompagnava istituzionalmente e quasi per definizione al possesso della cultura – ne fossero, i detentori, laici o religiosi; diretti gestori del potere come in Cina, o del potere compartecipi a diversi livelli, come in altre società europee e asiatiche. Cultura significava acquisizione di esperienza accumulata abbastanza vasta da illuminare la specificità della persona con una visione che la trascendesse, nello spazio e nel tempo. La chiesa di S.Ambrogio o il campanile di Giotto contribuivano a definire l’individualità dei colti in quanto monumenti in un contesto medioevale e locale (e di qui italiano, europeo, eurasiatico, planetario) e nella continuità storica. Per gli incolti, dotati di una sfera di esperienza più limitata ma non meno autentica, erano il riferimento materiale ed esclusivo al luogo di appartenenza, la necessaria radice del presente nel passato. Delega e rappresentanza (anche nella forma della rappresentazione artistica) si fondavano sul presupposto di un terreno comune, e il privilegio della cultura si giustificava nella funzione formatrice. Non si dava civiltà senza una complementarità fra le due sfere. 

Quelli che erano stati i ceti colti sono coinvolti nella dialettica dell’illuminismo, o meglio nella dialettica del capitale; trascinati nel processo di astrazione progressiva dalla materialità dell’esperienza reale ad opera del sistema economico e della relativa cultura, sono sradicati dal tempo e dal luogo; del popolo è scomparsa la figura, è inafferrabile l’immagine. Ove non siano al centro della metropoli e armati di uno specialismo (ancora colonizzatori di altrui, o illusi colonizzatori), sono colpiti da debolezza e impotenza. Mentre quello che era stato il popolo incolto – ora la grande maggioranza pseudoacculturata – perduta l’identità locale, è in fuga da se stesso. Azzerata la storia, sono distrutte le tradizioni anche recenti o relativamente recenti ma ben fondate nella coscienza collettiva, e sostituite surrettiziamente con ideologie o pregiudizi importati15. La nozione di cultura è pure azzerata, il vocabolo stesso designa la padronanza cieca di una o più tecniche, e in questi termini si realizza l’uguaglianza fra tutti i cittadini dell’impero, soggetti-sudditi disposti opportunamente su scale gerarchiche. 

Finché l’individuo è partecipe attivo di un tutto, può accadere che percepisca il proprio io come periferico ad altro, piccolo e secondario, o appartenente a tempi superati, senza che ne venga alterata l’autonomia della coscienza. Ma lo spostamento dell’asse della coscienza indotto dalla colonizzazione porta l’io individuale fuori del proprio terreno collettivo. Oscurato e negato, questo viene riempito casualmente da entità esterne prive di fisionomia determinata e conoscibile: non c’è l’incontro e il rapporto, fosse pure di subalternità, con l’altro da sé, né lo scambio consapevole e l’arricchimento, ma l’introduzione alla rinfusa di merce anonima, della quale si ignorano la provenienza e i significati originari. È escluso un processo critico di conoscenza, e quindi un’autentica acquisizione. Perduti i propri riferimenti intorno a sé, la coscienza perde, con se stessa, anche la possibilità dell’incontro reale con l’altro. Non sono rilevanti in questo i contenuti ma la forma alienante nella quale (non) si stabilisce il rapporto. 

Per di più – giacché l’individuo non può fondare uno scambio attivo con l’entità globale e aliena nel quale è immerso, ma d’altra parte non sussiste come monade isolata – fra i colonizzati si generalizza la condizione servile dei ghetti, in ogni sua forma – da quella estrema dell’odio per lo straniero e del razzismo a quelle apparentemente liberatrici (i giovani chiusi fra loro, le donne chiuse fra loro; i vecchi chiusi, a forza, fra loro...). Apparentemente liberatrici perché senza possibile sbocco esterno, quindi senza possibilità di comunicazione effettiva e di prassi. 

Nelle metropoli l’uguaglianza stratificata si maschera nelle cosiddette “classi medie” – massa informe che include i vecchi e i nuovi proletari ridotti alla condizione infima: alienati non solo dallo strumento di lavoro ma da quello dell’esperienza quale unione di sensibilità corporea e intelletto, capace di tradursi in progetto e in prassi. Analfabeti semiscolarizzati illusi di libertà, economicamente fragili: da un giorno all’altro indebitati, disoccupati, homeless; fino alla miseria e al degrado. Messi nell’impossibilità di unirsi e ribellarsi, scissi fra la produzione di beni inutili e la complicità di ciascuno, quale consumatore, con lo sfruttamento di chiunque si collochi più in basso. Totalmente disarmati di fronte alla prospettiva del crollo economico e illusi dal desiderio di salire al gradino superiore, vivono nello stress e nella paura costante di scivolare su quello inferiore; nella totale soggezione al padrone e al sistema che li distrugge come esseri autocoscienti e autonomi. Così sono divisi in competizione e in guerra gli uni contro gli altri, preda privilegiata delle ideologie dell’impero – quali la falsa unità della “società civile” (inesistenza volta a cancellare il concetto, e la realtà, dell’opposizione di classe); il feticcio dei diritti umani+democrazia contro le dittature e i fondamentalismi; e la religione del denaro. 

Per i deprivati del pensiero e illusi della inesistenza del lavoro, sradicati dalla materialità sensibile16, l’oggetto assente viene sostituito dal “virtuale” – una sorta di surrogato dei sensi e della conoscenza spacciato per mentale, che si offre nella forma feticistica di una merce di consumo. 

Anche se nella nostra colonizzazione culturale motivi dovuti al modo di produzione si intrecciano inestricabilmente al dominio della superpotenza USA che di quel modo di produzione è il massimo rappresentante e garante, le sue cause non vanno ricercate nella potenza e nel privilegio di una cultura sulle altre. La stessa sopraffazione politica e quella militare17 sono le mediazioni visibili del potere economico che colpisce duramente anche gli abitanti della metropoli centrale, massa proletaria alienata e colonizzata non meno degli abitanti nei luoghi esterni18. 

Sull’evoluzione dell’economia “globalizzata” in sistema di organizzazioni a delinquere – incapace per di più di controllare se stesso – studi e documentazioni riempiono ormai gli scaffali. Ultimi fasti l’utilizzo delle biotecnologie da parte del capitale e la sua entrata massiccia nel campo dell’agricoltura con conseguenze, al momento, tragiche per molti contadini, ma forse catastrofiche domani per l’intera umanità. Lo stesso ruolo degli stati nazionali è stato ridefinito, ai fini dell’assoggettamento puro della popolazione (interna o immigrata), secondo metodi gradualistici-soporiferi-anestetizzanti, fino a quelli violenti e autoritari quando l’anestesia è insufficiente o ha esaurito il suo compito. La violenza è comunque immediata ai gradini più bassi della piramide. 

Non avrebbe senso proseguire nell’elencazione approssimativa e monca di fatti ampiamente conosciuti. Così come sono conosciuti gli organismi internazionali che vi presiedono e i padroni ai quali obbediscono. Ne ho fatto cenno solo per ricordare che sarebbe vano cercar di eliminare o correggere fosse pure parzialmente l’altrui e nostra miseria attraverso la persuasione e l’educazione, la modifica illuminata dei costumi, gli appelli alle coscienze nella società civile (ultimi illusori tentativi di risuscitare la defunta opinione pubblica democratico-borghese). 

L’unica possibilità di una via d’uscita comincia per noi col riconoscimento dello stato di colonizzati e l’identificazione con i nostri simili, metropolitani e non19. Non si interpreta la colonizzazione attuale del “Sud” senza collegarla solidarmente con quella delle popolazioni del “Nord”; e quindi senza constatare l’esaurirsi della contrapposizione Nord-Sud, nonostante i dislivelli di reddito (peraltro enormi all’interno delle metropoli, come pure nelle periferie: vedi USA e Cina). Si dovrebbe mettere a fuoco l’uguaglianza gerarchica, demistificarla e rivelare i tratti comuni e quelli non comuni ai diversi strati e gruppi sociali. In risposta a un sistema che spacca in due la società mondiale vanno tracciati i confini che accomunano e dividono, riconoscendo come falsi quelli imposti dall’ideologia del dominio20. Diversamente continueranno senza fine guerre fra oppressi di diverso livello, accompagnate dalla crescita di fondamentalismi religiosi, laici e anche pseudoilluministici. 

Ridefinire la linea del fronte entro il quale ritrovare l’unità, riconoscere cioè i connotati di classe del dominio colonizzatore appare tanto più difficile, quanto più universale è la sua opera distruttiva. Ma cedere alla tentazione di giudicare “i potenti della terra” come l’incarnazione del male, generici nemici dell’umanità o della “gente” – da cui la solidarietà intesa come umanitarismo o umanesimo – significherebbe guardare agli effetti senza risalire alle cause, restando intrappolati nei vari oppi ideologici utili infine a chi tiene il comando. Occorre aver chiaro che 35.000 bambini muoiono di fame ogni giorno non per la mostruosa crudeltà di qualcuno ma per la inflessibile razionalità di un sistema economico. La soggettività di chi lo gestisce è un problema secondario. Assai meno secondario è però definire fin dove arrivino le complicità oggettive e soggettive, non tanto fra gli individui quanto fra le classi che oggi compongono la società “globale”; e come si colleghi l’alienazione delle masse alla colonizzazione delle nazioni. Non solo la sconfitta dei tentativi di gestione socialista, ma anche i cambiamenti nell’aggregazione delle classi e dei ceti prodotti dall’evoluzione del capitale verso la sua forma estrema, hanno reso impraticabile la soluzione già formulata da Lenin e dai bolscevichi e che per oltre mezzo secolo aveva consentito la formazione di una potentissima alleanza contro il capitalismo. Ricostituire l’unità su basi oggettive presuppone individuare la linea dove corre la divisione. 

Il maggiore aiuto a comprendere è fornito dai grandi potentati economici, ormai scoperti come grandi soggetti politici. È possibile quindi attaccarli non solo sul piano “tradeunionistico”, ma direttamente sulla politica economica. Il fronte degli oppositori è per necessità in formazione nella pratica21. 

Note:

1 Gli atteggiamenti sono migliorati nell’ultima ventina d’anni, ma solo in sfere elitarie, e fra le maggioranze in misura limitata e in superficie. 
2 Basti ricordare qui i nomi di Edward Said e di Andre Gunder Frank. 
3 Cade in questo equivoco perfino un autore come Edward Said, al quale pure tanto dobbiamo per aver disvelato gli orientamenti colonialisti nella cultura europea. 
4 Si accetta perfino l’equivoca categoria universale di “Occidente” nei termini mistificanti assunti dall’ideologia dominante. Scrive E. Said: “Mostratemi il Tolstoj zulu”, ha recentemente affermato un intellettuale americano. Una simile proposizione è possibile nell’ambito dell’alta cultura USA, non fra il largo pubblico, per il quale Tolstoj, russo, non appartiene all’ “Occidente”. (S. si trova forse troppo all’interno del mondo accademico USA per percepire questi paradossi.) 
5 Il caso degli italiani in proposito è a un tempo esemplare e anomalo. Dalla fine del Rinascimento, quando sono stati definitivamente dominati da altre potenze, l’identità culturale (per i ceti colti, ma anche per gli incolti grazie alla mediazione cattolica) ha voluto identificarsi con la grande eredità umanistica, che dall’Italia si era estesa all’intera Europa. Nell’Ottocento, sulla scia delle borghesie europee, si aggiunge la ricerca di una identità propriamente nazionale (ed è già fatto di minoranze, se pure in parte anche popolari): “Noi siamo da secoli calpesti e divisi”. (Vedi anche la tematica manzoniana nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia e nell’Adelchi.) Dopo meno di un secolo di relativa sovranità, dall’unificazione alla II Guerra mondiale (anche se sempre in posizione subalterna rispetto alle potenze europee), vediamo il ritorno alla condizione di popolo assoggettato, privo di sovranità. La fine dell’eredità umanistica, nello stato di dipendenza politica e di occupati militarmente, accompagna oggi il processo della colonizzazione. Nell’accezione nuova, imperiale, si associa alla forma illusoria dell’indipendenza, e ad una coscienza negli individui oscillante fra cinismo e AQismo (il termine usato in Cina per i cinesi, da un celebre personaggio di Lu Xun, a designare la miseria autodistruttiva malamente coperta da pseudo-“superiorità morale”). La verità del tramonto si manifesta nel subconscio di massa, la vitalità si riduce a carpe diem, edonismo individualistico, consumismo – finché si può. 
6 La questione emerse durante la discussione sulle “forme nazionali” in letteratura, che ebbe luogo a Yan’an e a Zhongqing fra il 1938 e il 1942. Vi parteciparono gli scrittori e i critici più noti, oltre ad alcuni politici. (Vedi Zhongguo xiandai wenxueshi cankao ziliao – Materiali di consultazione per la storia della letteratura cinese contemporanea –, Beijing, 1959, I/2, pp. 302-58 e 724-99.) Ai “modernisti” (fra i quali Guo Moruo e Hu Feng, che si richiamava a Lukács) sostenitori del rapporto fra stadio di evoluzione della società e prodotti letterari, si opponevano i populisti, che consideravano il bagaglio “occidentalizzante” del Movimento del 4 maggio 1919 non adatto a una comunicazione letteraria capace di arrivare alla grande massa del popolo, e proponevano di ricorrere alle vecchie forme della tradizione indigena, specie nel romanzo. I primi ponevano l’accento sul rapporto fra la letteratura e i nuovi rapporti economici e di classe nell’evoluzione in corso e avvenire della società cinese (e sottolineavano quindi le affinità culturali con il contesto europeo e mondiale); i secondi assumevano il popolo-nazione, nella sua totalità e con la sua tradizione indigena, come soggetto oppresso dalle potenze esterne (e tendevano a forme di nazionalismo culturale). Gli elementi validi, e pur contraddittori, di ciascuna delle due posizioni emergono dalla discussione ricca e complessa, che anticipa alcuni grandi problemi delle società post-coloniali, relativi al rapporto fra classe e nazione, e al rapporto fra società “evoluta” (ma colonizzatrice) mondiale e tradizione indigena. 
7 Vedere: Andre Gunder Frank, ReORIENT: Global Economy in the Asian Age, Berkeley, University of California Press, 1998, che oltre ad entrare nel merito della discussione fornisce un’ampia rassegna degli studi sul tema. 
8 Di fulminante chiarezza a questo proposito è un brano famoso di Marx, che si legge nell’edizione italiana dei Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Torino, Einaudi, 1976, I, pp. 706-19, o nella traduzione di Renato Solmi col titolo Frammento sulle macchine, in “Quaderni rossi” 4, 1964, pp.289-300. L’argomentazione di Marx a proposito del macchinario quale “forma [la] più adeguata del capitale” ha validità generale ed è applicabile al di là della fabbrica e delle macchine nella forma specifica ottocentesca; tanto che queste pagine risultano ancora più pertinenti al nostro tempo e valgono da sole a dissolvere ogni ideologia postindustriale, postmoderna e new-economista. 
9 Questo non significa che in precedenza i popoli colonizzati non fossero aggrediti e colpiti (fino al genocidio), resi schiavi e sfruttati. Si tratta di pratiche non specifiche del capitalismo, presenti in tutta la storia umana. 
10 Accade che il dualismo venga attribuito alle interpretazioni teoriche, senza considerare a sufficienza fino a che punto tali teorie riflettano una trasformazione di fatto. 
11 In sintonia col fatto che il corso della storia dalle origini alla nascita dell’industria è estraneo e sconosciuto alla storia breve della potenza oggi dominante. Il che non impedisce all’accademia USA – che nello stesso tempo si identifica con la tradizione europea complessiva – di produrre gli studi più interessanti e aggiornati su ogni aspetto delle civiltà passate, non soltanto europee. Nella società dominata dalle ideologie del capitale, le gerarchie plurime e intrecciate producono nelle condizioni oggettive come pure nei criteri di giudizio contraddizioni non risolvibili. 
12 E già premono, ammodernate, le ben note misure di oppressione. Qualunque manifestazione libera dal pensiero unico è immediatamente eresia (anche dove non formalmente vietata). Sono repressi i comportamenti di opposizione non strettamente legale (per esempio, i blocchi stradali da parte di scioperanti) ed è bollata come sovversiva o terroristica ogni organizzazione indipendente dalle istituzioni, sindacati inclusi. Viene posta l’enfasi sulla sicurezza, nei centri metropolitani, garantita velleitariamente dagli organi di polizia e dalle incarcerazioni di massa. Le stesse istituzioni sono frantumate, anche le più repressive (vedi le carceri, dove protagonisti di un conflitto violento sono le guardie e i detenuti – ghetto contro altro ghetto). È rotta dovunque la solidarietà (sul luogo di lavoro, in conseguenza della frammentazione anche giuridica: appalti, precariato, flessibilità, part-time, gabbie salariali, lavoro in affitto, telelavoro... Non a caso, la parola “solidarietà” viene molto usata per designare altro, qualcosa come compassione o carità cristiana). 
13 Fuori d’Europa sono utilizzate le diverse tradizioni: così in Cina è appoggiato per un verso – anche dal governo – il ritorno alla morale confuciana, e per l’altro – contro il governo – quello alle controsocietà popolari semisegrete nella caricatura della versione new age. 
14 Vi sono a questo fine seminatori professionisti di confusione. Per esempio, giornalisti e politici dell’establishment (oltre che probabili agenti di servizi segreti) già si intrufolano in quell’insieme di piccole organizzazioni di base (una rete in crescita, potenzialmente pericolosa) che svolgono attività contro il neoliberismo, le transnazionali, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio, l’agribusiness e gli organismi geneticamente modificati, la riduzione in schiavitù dei lavoratori e dei bambini. (Vedi per esempio una serata del 6 marzo 2000: “WTO: La trasparenza impossibile? Dopo Seattle ripartiamo dalla giustizia. ... Piero Fassino, Ministro per il commercio estero; Maurizio Meloni, coordinatore rete Lilliput; Danilo Taino, Corriere della Sera; Riccardo Moro, consulente tecnico della campagna sulla riduzione del debito dei paesi poveri – CEI”). 
15 Per esempio, si considera la ribellione non “politically correct”; si accetta l’interclassismo come postulato basilare e la parola “comunista” si trasforma in anatema (come negli Stati Uniti; come nell’era fascista). Si innesta così il processo per cui diventa un’operazione di civismo perfino la cancellazione del diritto di sciopero (previa autocolpevolizzazione dei lavoratori per le conseguenze dannose degli scioperi – nei servizi pubblici, ma poi in generale per l’economia). Nelle scuole il rapporto teoria-pratica, che presiede all’ammodernamento, è finalizzato alle richieste contingenti della struttura produttiva. 
16 I vari miti del “corpo” ne sono un’indice. 
17 Sono troppo note le vicende della colonizzazione politico-militare dal secondo dopoguerra a oggi, e largamente studiate. Basti ricordare, quanto all’Italia, come la sovranità nominale sia minata dalla presenza delle basi militari USA sparse sul territorio nazionale, dall’accesso ai porti dei sottomarini nucleari; dalla negazione di fatto (attraverso la minaccia e l’organizzazione preventiva di guerra civile – non diversamente da quanto è accaduto in Indonesia o in Grecia) del diritto di scegliere liberamente parlamento e governo, dal 1948 in poi. Per non parlare della strategia della tensione e del coinvolgimento in guerre non volute (con gli episodi – quelli casualmente venuti alla luce – di Sigonella, delle stragi degli anni sessanta-settanta, di Ustica, di Aviano; delle bombe residue gettate nell’Adriatico...). Anche i giudizi sull’operato delle diverse forze politiche in Italia andrebbero rivisti, in bene e in male, alla luce di questa dipendenza. Diciamo dell’Italia solo perché siamo testimoni diretti, ma il metodo è il medesimo nel mondo intero, sia pure secondo una gerarchia, anche qui, calibrata sui rapporti di forza. Il trattamento riservato ai vietnamiti, ai cileni, agli irakeni o ai serbi non è possibile oggi verso i giapponesi o i cinesi o i tedeschi. Ma è sempre in agguato lo scontro diretto o indiretto. La nuova funzione della NATO, di polizia internazionale contro i popoli, può essere indirizzata anche contro questo o quello stato nazionale. 
18 Un esempio-simbolo-funzione della colonizzazione di classe: la droga (ad un tempo settore importante dell’economia global-criminale) è stata impiegata negli USA della guerra in Vietnam e delle rivolte dei proletari neri prima di essere deliberatamente introdotta negli anni ottanta in Europa. 19 Lo aveva compreso Lu Xun nella Cina degli anni venti, quando vestiva appunto i panni del colonizzato, mettendo in ridicolo le velleità di grandezza della propria cultura – che era pure la sola arma nelle sue mani. 
20 Quella che sostituisce i contrapposti interessi di classe con le differenze o affinità fra paesi e paesi, assunti nella loro globalità solidale, cancellando le complicità planetarie fra i gestori dell’economia e del potere e le condizioni universali della disuguaglianza. E consente ai filantropi di avallare la divisione fra gli oppressi colpevolizzando i subalterni delle metropoli, “ricchi” privilegiati a spese dei “poveri” delle periferie. 
21 Contro le politiche di Banca Mondiale, FMI, WTO, G7, OCSE (e delle altre analoghe organizzazioni) e contro i vari trattati e progetti di trattati promossi da quelle istituzioni sono in corso e si estendono movimenti di diversa provenienza e colorazione, per ora inevitabilmente inquinati da incertezze sui fini e anche da infiltrazioni delle ideologie dominanti. La chiarezza teorica – arrivarci o meno – sarà un momento della dialettica della lotta, non un gioco astratto. 

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