In un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” nel novembre del 2016 il direttore del “Wall Street Journal”, Gerard Baker ha detto che, in futuro, lo scontro politico non sarà più fra progressisti e conservatori, ma fra globalisti e populisti. Riletta oggi, l’affermazione suona come una dichiarazione di guerra. Eventi come la Brexit, l’elezione di Trump, la disfatta di Renzi nel referendum sulle riforme costituzionali, e le preoccupazioni suscitate dall’ascesa di leader politici come Tsipras (prima della resa ai diktat della Troika), Bernie Sanders, James Corbyn, Pablo Iglesias, Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen , hanno fatto sì che si costituisse un poderoso fronte mondiale antipopulista. I media hanno orchestrato una massiccia campagna propagandistica in sostegno dei governi guidati dalle forze politiche tradizionali (conservatori, liberali e socialdemocratici), invitandole a coalizzarsi contro la minaccia di forze genericamente definite populiste – senza distinguere fra le radicali differenze reciproche - in quanto sovraniste, protezioniste, stataliste e antiglobaliste, contrarie cioè alla libera circolazione di merci e capitali e dunque nemiche del sistema democratico, identificato tout court con il mercato. La sostanziale adesione delle sinistre europee – non di rado anche le radicali – a questo appello antipopulista delle élite politiche ed economiche liberiste e dei media mainstream, introduce uno dei temi di fondo che intendo affrontare: l’appello ha funzionato perché le sinistre considerano il sovranismo come un’ideologia ancora più pericolosa del neoliberismo. Prima di esaminare questo atteggiamento, occorre però decostruire il senso del termine populismo.
La
narrazione mainstream presenta il populismo come una visione del
mondo unitaria, che si contrappone a quella liberista allo stesso
modo in cui vi si contrapponeva il comunismo. Questa tesi è
insostenibile ove si consideri il fatto che non esiste un corpus di
testi fondativi che definiscano principi, valori e obiettivi di
questa presunta “ideologia”. Se passiamo poi alla descrizione
“scientifica” del fenomeno, vediamo come essa si basi su un
elenco di caratteristiche - iperpersonalizzazione
della figura del leader, legame diretto fra leader e masse,
nazionalismo, linguaggio semplificato, statalismo, interclassismo,
polarizzazione fra popolo ed élite, polemica anticasta (contro
politici di professione, accademici, finanzieri ecc.), atteggiamento
anti istituzionale - compilato
negli anni Sessanta del secolo scorso sulla base dell’osservazione
dei regimi latinoamericani della metà del Novecento. Si tratta di un
elenco di scarso valore euristico ove si consideri che alcune di tali
caratteristiche sono tipiche di tutti i movimenti allo stato nascente
mentre svaniscono quando essi raggiungono la maturità, e che esse
possono essere ricombinate in modi diversi dando origine a regimi
altrettanto diversi. Se poi ci si riferisce allo stile populista [1]
come tecnica di comunicazione politica, è evidente che si tratta di
una modalità adottata da tutti i
partiti in quest’epoca caratterizzata dalla mediatizzazione,
spettacolarizzazione e personalizzazione della politica. E dunque? La
mia risposta è che, per comprendere il fenomeno populista, occorre
comprenderne la natura di rivolta (spesso prepolitica) delle masse
popolari nei confronti della “guerra di classe dall’alto” [2]
iniziata negli anni Ottanta del secolo scorso. Dietro al termine
populismo si cela un insieme articolato e complesso di fenomeni che
potremmo definire la forma che la lotta di classe assume nell’era
neoliberista.
Il
momento populista è infatti la reazione sociale a due processi: da
un lato, gli effetti combinati della finanziarizzazione dell’economia
e di una rivoluzione tecnologica che hanno aggredito la società
moderna, facendola esplodere in un pulviscolo di soggetti
individualizzati, dall’altro una rivoluzione culturale che ha
tentato di legittimare le nuove forme di sfruttamento capitalistico e
la trasformazione dei sistemi liberal democratici in altrettanti
regimi oligarchici.
Questi processi hanno provocato un tragico peggioramento delle
condizioni di vita delle classi subordinate: disoccupazione, salari
da fame, precarizzazione del lavoro, smantellamento dei sistemi di
welfare attraverso tagli alla spesa pubblica e privatizzazione dei
servizi, aumento esponenziale della disuguaglianza fra una minoranza
di super ricchi e una massa crescente di classi medie proletarizzate.
La reazione era inevitabile e infatti, nell’arco di un ventennio,
abbiamo assistito al ciclo delle rivoluzioni bolivariane in America
Latina, alle primavere arabe, al 15M spagnolo e a Occupy Wall Street
negli Stati Uniti, oltre alla nascita di movimenti antiglobalisti di
diverso orientamento ideologico, ma accomunati dalla rivendicazione
della riconquista di una qualche forma di sovranità popolare e
nazionale.
Partiamo
dall’Europa. L’ordoliberalismo
tedesco, sui cui principi si fonda l’intero edificio comunitario,
come hanno spiegato Dardot e Laval, [3] non muove affatto dall’idea
che il mercato sia un dato naturale e spontaneo ma, al contrario, lo
considera come una costruzione della quale è lo Stato a
doversi fare carico, garantendo il rispetto del principio di
concorrenza. Lo Stato, evitando di interferire direttamente nel
processo economico – e anzi attuando un programma radicale di
privatizzazione dei servizi pubblici e applicando i principi
dell’imprenditoria privata alla gestione dell’amministrazione
pubblica -, deve perseguire la stabilità dei prezzi ed eliminare
ogni ostacolo al dispiegamento della libera concorrenza. Il rispetto
di questi principi viene imposto ai Paesi membri attraverso un rigido
sistema di regole che ha svuotato le legislazioni nazionali, regole
che, funzionano di fatto come una Costituzione europea attraverso una
serie di trattati vincolanti (vedi la riforma dell’articolo 81
della Costituzione italiana che impone il pareggio di bilancio,
arrivando a vietare ogni politica industriale che comporti
investimenti pubblici e imponendo addirittura allo Stato di alienare
le sue residue proprietà). L’Unione Europea non è, come si
ostinano ad argomentare gli europeisti “progressisti”, un
processo incompiuto che attende quel perfezionamento politico che
dovrebbe consentirne la democratizzazione, si tratta di una super
struttura parastatale che, da un lato, tiene insieme residui della
forma stato classica nei singoli Paesi, dall’altro istituisce un
nuovo ordine integrato al mercato, una struttura di
governance multilivello. Di
più: la Ue si presenta come un mega esperimento morale e
antropologico, una vera e propria utopia che si propone di creare
“l’uomo nuovo” dell’ordine liberista. Di qui una pedagogia
sociale e politica che aspira a formare cittadini che si considerino
imprenditori di sé stessi e uniformino la propria vita alle stesse
regole e principi che presiedono alla gestione di un’impresa.
L’utopia europeista messa in atto dall’Europa reale non è quella
di Altiero Spinelli bensì quella di von Hayek, il quale, fra le due
guerre mondiali, aveva sognato la costruzione di un’entità
sovranazionale e sovrastale che, oltre a rendere possibili un sistema
monetario uniforme e regole giuridiche comuni, salvaguardasse tali
regole dalle indebite pressioni delle organizzazioni dei lavoratori e
dei cittadini titolari della sovranità democratica su basi
nazionali. Quale
livello di violenza questa utopia ordoliberale sia disposta a
esercitare nei confronti di ogni forza che si oppone al suo progetto
è emerso chiaramente attraverso la ferocia con cui si è stroncata
la resistenza del popolo greco che aveva votato contro gli accordi
capestro voluti dalla Troika per “sanare” l’economia e il
debito ellenici. Quell’esempio ha dimostrato una volta per tutte
come la democrazia sia del tutto incompatibile con il neoliberismo.
Gli
effetti combinati di finanziarizzazione ed egemonia ordoliberista sul
sistema politico configurano infatti un processo di de
democratizzazione che mira a svuotare la democrazia della sostanza
senza sopprimerne la forma [4]. La
filosofia che ispira tale processo richiama il pensiero di Friedrich
von Hayek e degli “elitisti” del primo Novecento come Mosca,
Pareto e Michels. Per tutti costoro l’obiettivo strategico consiste
nel rafforzare il potere dell’esecutivo, onde metterlo al riparo
dagli umori ondivaghi dei cittadini-elettori che provocano
l’instabilità, se non la rovina, dei regimi democratici: ecco
perché non considerano la democrazia come un fine in sé, bensì
come uno strumento per selezionare le classi dirigenti.
Le istituzioni politiche forgiate su questi principi non configurano
nemmeno più quello che Lenin definiva il “comitato d’affari
della borghesia”, bensì un sistema di potere che realizza
un’integrazione totale fra élite economiche ed élite politiche.
Basti pensare a fenomeni come quello che negli Stati Uniti è stato
battezzato il “sistema delle porte girevoli”, vale a dire la
pratica per cui i manager di grandi imprese private, banche e società
finanziarie rivestono importanti incarichi pubblici o vengono
addirittura nominati ministri, o agli effetti di quel processo di
“finanziarizzazione che fa sì che una buona metà dei membri
americani della Camera dei Rappresentanti appartenga all’élite dei
super ricchi.
Concentrando
l’attenzione sulla “complicità” fra élite economiche e
politiche, si corre però il rischio di analizzare il fenomeno da un
punto di vista morale, come se si trattasse della “corruzione”
della politica da parte della finanza. Occorre invece partire
dall’analisi dell’utopia ordoliberista che abbiamo evocato poco
sopra: la convergenza fra élite non è solo questione di interessi,
né la transizione al regime postdemocratico è questione di
“tradimento” delle regole, siamo
di fronte a un lucido disegno politico che impone agli stati di
uniformarsi alle regole del diritto privato, fondando la propria
legislazione sui principi della competizione economica. In questo
modo la democrazia liberale viene svuotata di ogni sostanza e i
dirigenti degli stati, commenta Crouch, non rispondono più ai propri
cittadini, ma “sono sottoposti al controllo della comunità
finanziaria internazionale, di organismi specializzati, di agenzie di
rating”[5].
E ancora: “gli stati sono considerati unità produttive come le
altre in una vasta rete di poteri politico economici sottoposti a
norme simili” [6]. Inevitabile
conseguenza di questa filosofia è la privatizzazione dei servizi
sociali: in
ossequio al principio in base al quale la dimensione dell’efficienza
e del rendimento finanziario deve essere assunta come pietra di
paragone di ogni attività sociale, lo stato dismette le proprie
attività per riconsegnarle al mercato. La privatizzazione dei
servizi è una delle tappe fondamentali del processo di costruzione
dell’uomo nuovo liberista, infatti il cittadino, osserva Crouch,
una volta divenuto “cliente” del servizio privatizzato, “non
può più sollevare questioni relative all’erogazione del servizio
con il governo, perché la prestazione è stata appaltata
all’esterno, il servizio è divenuto postdemocratico.
In
direzione analoga avanza il processo di trasformazione dei partiti.
Mentre il partito tradizionale si presentava come una successione di
cerchi concentrici (dall’esterno: elettori, simpatizzanti,
militanti, funzionari, dirigenti e leader), il partito postmoderno
appare piuttosto come un’ellisse in cui simpatizzati e militanti
perdono peso sin quasi a sparire, i funzionari diminuiscono
numericamente e svolgono funzioni quasi esclusivamente tecniche,
mentre il leader occupa uno dei fuochi dell’ellisse attorno al
quale ruota tutto il resto e instaura una relazione diretta con le
masse elettorali che passa quasi solo attraverso i canali mediatici.
In particolare Crouch ha richiamando l’attenzione sulla rapidità
con cui i partiti socialdemocratici hanno mutato pelle per adeguarsi
alla nuova situazione: in una prima fase, si sono visti penalizzare
dall’indebolimento della loro tradizionale base elettorale,
costituita da operai e impiegati dei servizi pubblici, poi, imboccata
la strada della “terza via” tracciata da Tony Blair e Bill
Clinton, hanno cominciato a raccogliere sostegno trasversale da tutte
le categorie sociali e, a mano a mano che sposavano i principi del
neoliberismo, a ottenere l’appoggio finanziario delle grandi
imprese, alle quali hanno tentato di dimostrare che “la
socialdemocrazia non solo può prosperare in un ambiente
capitalistico liberale, ma in tale ambiente produce anche un grado di
liberalismo più elevato rispetto al liberalismo tradizionale
lasciato a sé stesso” [7].
Si
tratta di capire perché la maggioranza delle sinistre europee
rifiutino di prendere atto di quanto detto finora e considerino tutte
le posizioni populiste – anche se di sinistra – che assumono un
punto di vista sovranista come antidemocratiche. A tale scopo proverò
a ricostruire a grandi linee il secolare dibattito sulla questione
nazionale che ha attraversato l’intera storia del marxismo. La
celebre battuta del Manifesto in
cui Marx dice che <<gli
operai non hanno patria>>
ha un significato ambivalente in quanto associa al rifiuto del
patriottismo borghese il concetto di privazione di
una patria che i proletari devono conquistarsi, elevandosi a classe
nazionale.
È tuttavia innegabile che il punto di vista giovanile di Marx resti
ancorato a una visione economicista che attribuisce alla borghesia la
missione “civilizzatrice” di spezzare tutte le barriere che si
oppongono allo sviluppo delle forze produttive, ivi comprese le
barriere dei confini nazionali. Questa impostazione verrà superata
quando Marx si troverà a fare i conti con gli effetti dello
dell’oppressione coloniale del popolo irlandese da parte
dell’imperialismo britannico. La sua posizione slitterà allora
dall’idea che solo la rivoluzione del proletariato inglese avrebbe
potuto restituire la libertà agli irlandesi, al punto di vista
opposto: soltanto una vittoriosa lotta di liberazione del popolo
irlandese – liquidando le condizioni di relativo privilegio dei
proletari inglesi – avrebbe creato le condizioni di una rivoluzione
proletaria in Inghilterra. Dalla
convinzione che la rivoluzione è frutto di condizioni
oggettive che
esistono solo nel punto più alto di sviluppo delle forze produttive,
si passa dunque al riconoscimento che il capitalismo va aggredito
laddove si accumulano le contraddizioni politiche più
radicali.
Lenin
- in polemica con le posizioni di Rosa Luxemburg e Leone Trotsky,
vicine a quelle del Marx del Manifesto -
andrà oltre, aggiornando le idee del Marx maturo attraverso
l’analisi della fase imperialista: la creazione di grandi imperi
coloniali da parte delle maggiori potenze crea condizioni
completamente nuove, che esaltano il ruolo delle lotte di liberazione
nazionale nel quadro della lotta mondiale contro il capitalismo.
Riscontriamo un’analoga evoluzione del pensiero gramsciano: vicino
alle posizioni del giovane Marx finché il sistema capitalistico
sembrò evolvere verso l’unificazione del mondo, Gramsci cambiò
punto di vista a mano a mano che lo stato nazionale borghese tornava
a dominare la scena politica (dopo la fine della prima
globalizzazione e il fallimento delle rivoluzioni socialiste in
centro Europa). Nella “guerra di posizione” che oppone borghesia
e proletariato in queste nuove condizioni, Gramsci, pur senza
rinnegare la prospettiva internazionalista, si concentra sulla
necessità di costruire un blocco sociale che non può che prendere
le mosse dal contesto nazionale (in quella che è stata definita la
svolta nazional-popolare di Gramsci).
Gli
echi di questo dibattito si sono spenti fino a sparire a partire
dagli anni Settanta del secolo scorso. Si potrebbe giustificare
questa svolta con il fatto che nei decenni successivi al secondo
dopoguerra era giunto a compimento il processo di liberazione della
stragrande maggioranza dei Paesi del Terzo Mondo dal giogo
dell’oppressione coloniale. Ma si tratta di un errore di
prospettiva: è
infatti proprio a partire da quegli anni, come ha spiegato Samir
Amin[8], che
le borghesie nazionali di quei Paesi, dopo essere state protagoniste
– spintevi a calci dalle rivolte dei loro popoli - delle lotte di
liberazione nazionale, tornano a svolgere il ruolo di agenti
mediatori degli interessi del capitale transnazionale, in un contesto
che non contempla più l’occupazione militare diretta dei
rispettivi territori bensì la loro integrazione nel processo di
globalizzazione rilanciato dall’unificazione dell’Occidente sotto
l’egemonia statunitense.
Ed è proprio questo ritorno della tendenza all’unificazione
mondiale dei mercati ad abbagliare le sinistre occidentali
ricacciandole verso una visione economicista. Nasce così un
“pensiero unico” delle sinistre occidentali sul tema del rapporto
fra lotta anticapitalista e questione nazionale che ripudia, le tesi
di Frantz Fanon, l’ultimo grande esponente del punto di vista che
fu già del Marx maturo, di Lenin e Gramsci. Laddove
Fanon aveva contestato la relazione automatica fra progresso e
Occidente, accusando cosmopolitismo e l’universalismo borghesi
(travestiti da internazionalismo) di essere armi volte a distruggere
la resistenza dei popoli coloniali, la maggioranza degli
intellettuali di sinistra occidentali assumono il punto di vista di
un internazionalismo dottrinale e astratto, assieme alla tesi secondo
cui il superamento del capitalismo può avvenire solo laddove le
forze produttive raggiungono il più alto livello di sviluppo (un
punto di vista che, fra l’altro, ignora il fatto che a tutt’oggi
le sole rivoluzioni socialiste sono state effettuate dalle classi
operaie in formazione di Paesi periferici alleate con le larghe masse
contadine). Se si eccettuano le riflessioni di quegli autori che -
come Arrighi, Wallerstein e Samir Amin- hanno assunto come centrale
la contraddizione centro-periferia nella loro analisi del sistema
mondo, tutti gli altri esponenti dell’intellighenzia marxista hanno
finito per giudicare qualsiasi tipo di rivendicazione della sovranità
nazionale come negativa, se non reazionaria.
Contro questa visione intendo proporre un punto di vista che non solo
rivendica la validità delle rivendicazioni sovraniste dei paesi
periferici, ma afferma che la lotta per la sovranità nazionale può
assumere un carattere progressivo anche per i popoli europei,
(soprattutto per i popoli mediterranei). Prima devo però chiarire
cosa intendo esattamente per sovranità nazionale, e perché ritengo
possibile distinguere fra i differenti significati che il concetto
assume all’interno del campo populista.
Se
la questione nazionale è tornata al centro dell’attenzione da
parte di movimenti di dichiarato orientamento socialista - dai regimi
bolivariani in America Latina, a partiti europei come Podemos e la
formazione francese guidata da Jean-Luc Mélenchon, alla rete di
forze che negli Stati Uniti ha sostenuto la candidatura presidenziale
di Bernie Sanders - non è solo perché il pendolo della storia
sembra avere iniziato a oscillare in direzione opposta al processo di
globalizzazione: il
punto è che l’attacco del capitalismo globale non si rivolge tanto
contro lo Stato, che come abbiamo visto subisce anzi un processo di
rafforzamento, bensì contro la Nazione della quale si teme la natura
di ambito territoriale in cui possono essere fatte più facilmente
valere le ragioni e i rapporti di forza delle classi subalterne. Da
un lato, un capitalismo sempre più concentrato e aggressivo
necessita dei servigi di una statualità sovranazionale, dall’altro
lato, si moltiplicano le forze che vedono nella riconquista di forme
di autorità territoriale l’unico strumento per imbrigliare quei
flussi incontrollati di capitale e di merci che minacciano le
condizioni di vita delle popolazioni.
L’autore
che più di ogni altro ha sostenuto come qualsiasi passo verso il
socialismo sia impossibile senza uno “sganciamento” dal sistema
capitalistico globale è, di nuovo, l’economista egiziano Samir
Amin[9]. L’idea
che l’integrazione delle economie locali nel sistema mondiale sia
di per sé un fattore positivo di sviluppo, sostiene Amin, rimuove
una realtà evidente: mentre nei centri il processo di accumulazione
è guidato dalla dinamica dei rapporti interni, nelle periferie esso
è in larga misura sovradeterminato dall’evoluzione dei centri, non
è cioè dotato di alcuna reale autonomia. I mutamenti indotti dal
capitalismo globale dei monopoli, argomenta Amin, hanno annientato il
potere delle vecchie classi dirigenti periferiche, alle quali sono
subentrati nuovi strati dominanti di “affaristi” che svolgono il
ruolo di intermediari locali degli interessi delle élite economiche
e politiche globali. Questa
descrizione non vale però solo per le periferie dei Paesi ex
coloniali, ma anche per quei Paesi dell’Europa del Sud che
subiscono oggi l’egemonia dell’imperialismo tedesco attraverso il
processo di integrazione europea: anche loro vivono la condizione di
un’economia costretta dalla divisione ineguale del lavoro a
produrre merci di rango inferiore il cui lavoro è meno remunerato
(basti pensare allo smantellamento della grande industria italiana
progressivamente sostituita da distretti di piccole medie imprese che
lavorano per le grandi imprese tedesche, o al più generale processo
di terziarizzazione del nostro Paese che, al pari della Spagna, si
vede sempre più costretto a contare sul turismo come principale
fonte di risorse). Se
tutto ciò è vero è evidente che la lotta anticapitalista non può
oggi passare che dalle periferie e dal loro sganciamento dai centri,
che implica una riconquista della sovranità popolare e nazionale.
L’abbondanza
di riferimenti alla sovranità sia alla destra che alla sinistra del
campo populista solleva tuttavia un problema semantico: è evidente
che questo termine rappresenta un
campo di battaglia discorsivo su cui si decide chi avrà l’egemonia.
Né mancano gli strumenti concettuali per operare una distinzione:
l’idea di nazione cambia senso e natura a seconda che sia o meno
identificata con quella di etnia, il patriottismo democratico,
repubblicano e antifascista rivendicato da forze come Podemos, il
partito di Mélenchon e la rete di Sanders non ha nulla a che
spartire con quello di formazioni dichiaratamente xenofobe e
razziste. A destra l’idea di sovranità evoca la chiusura di
frontiere ai migranti, per cui l’opposizione ai flussi di persone è
obiettivo prioritario assai più della regolazione dei flussi di
merci e capitali, a sinistra si rivendica in primo luogo il diritto
delle comunità politiche locali di gestire la propria vita in modo
autonomo dalle interferenze esterne, così
come si rivendica la reintegrazione dei cittadini nello Stato da cui
sono stati di fatto espulsi (uno Stato che incorpori nuove
istituzioni di democrazia diretta e rappresentativa contro lo Stato
transnazionale costruito dalle élite globali).
Quanto appena detto non è tuttavia sufficiente. Per approfondire il
punto occorre fare un passo indietro: tornando all’analisi critica
della categoria di populismo.
Parto
dall’analisi del fenomeno populista effettuata dal filosofo
argentino Ernesto Laclau[10]. Finché il sistema liberal democratico
funziona, argomenta Laclau, i bisogni dei diversi gruppi sociali
vengono soddisfatti in modo differenziale, per cui mancano i
presupposti perché si instauri una frontiera alto/basso,
élite/popolo. Viceversa, quando il sistema diviene incapace di
assorbire in modo differenziale i bisogni, le domande inascoltate si
accumulano e fra di esse può stabilirsi una relazione di
equivalenza, quella che Laclau chiama una “catena
equivalenziale”,
ed è a questo punto che si innesca la crisi
populista,
mentre nuove forze politiche possono emergere per lanciare un
“appello
populista”.
Perché tale appello trovi rispondenza, occorre che le domande
vengano unificate attraverso un denominatore comune capace di
incarnare la totalità della serie, occorre
cioè che una domanda particolare acquisisca centralità.
Laclau chiama egemonia –
con esplicito riferimento al concetto gramsciano – questa
assunzione di un significato universale da parte della particolarità.
Ad attribuire tale ruolo egemonico a una determinata domanda sono
fattori contingenti, circostanziali. Laclau non crede cioè che
esista una necessità storica che attribuisca apriori il ruolo
egemonico a una specifica classe sociale, anche se ammette
che il potenziale antagonistico debba inevitabilmente risiedere nelle
soggettività “esterne” al sistema, nella massa degli emarginati,
dei derelitti e degli “eterogenei” generata dalla miriade di
conflitti e contraddizioni economiche, politiche e sociali prodotte
dal capitalismo finanziarizzato e globalizzato.
Questa pluralità antagonista non è tuttavia in grado di dare
autonomamente e spontaneamente vita a un soggetto unitario se non
viene unificata attraverso una qualche forma di sovradeterminazione
politica: la
crisi populista non ha cioè sbocchi in assenza di un soggetto
politico in grado di gestirla. Se
un tale soggetto emerge, si innesca un potenziale di rottura
sistemica, nella misura in cui il populismo marca una frattura fra
tradizione liberale e tradizione democratica. La tradizione liberale
si basa sul governo della legge, sulla protezione dei diritti umani e
sul rispetto delle libertà individuali; la tradizione democratica
viceversa chiama in causa le idee di uguaglianza, identità fra
governanti e governati e sovranità popolare. Il fatto che oggi la
democrazia venga concepita esclusivamente in termini di stato di
diritto e difesa dei diritti umani, mentre le idee di uguaglianza e
sovranità popolare sono state accantonate, conferma che il rapporto
fra tradizione liberale e tradizione democratica non è necessario ma
è il prodotto di un’articolazione storica contingente. Il
populismo, con la sua rivendicazione di sovranità popolare, incarna
dunque l’irruzione dell’elemento democratico in un sistema
rappresentativo che appare ormai ripiegato esclusivamente sulla
tradizione liberale, ed è appunto per questo che può segnare un
passaggio di discontinuità sistemica.
Il
popolo di Laclau non è un’entità trans storica fondata su basi
etniche e/o antropologiche che preesiste alla politica e che, come
nell’ideologia delle destre, la politica ha solo il compito di
incarnare/rappresentare, il
popolo è un costrutto politico, è il prodotto dell’operazione
egemonica di un progetto politico capace di saldare soggetti diversi
in un blocco sociale unitario (qui Laclau è esplicitamente debitore
delle categorie gramsciane di blocco sociale, egemonia e guerra di
posizione). Ma se il popolo è una costruzione politica ciò vale
necessariamente anche per la Nazione, che non può esistere se non in
riferimento al popolo e, a maggior ragione, vale per i concetti di
sovranità popolare e nazionale.
Questa torsione “gramsciana” delle tesi di Laclau ha trovato
applicazioni sia nel progetto politico del Mas (il partito di Morales
e Linera) e dello Stato boliviano, sia nell’evoluzione di Podemos
da movimento anticasta a partito titolare di un radicale progetto di
trasformazione socialista della società spagnola. Sono
due esperienze che ci interessano qui particolarmente, in quanto
entrambe si trovano a dover fare i conti con la presenza, nei
rispettivi Paesi, di identità etnico linguistiche che rivendicano la
propria autonomia politica dallo Stato nazionale centralizzato, una
situazione che ha consentito loro di interpretare il tema della
sovranità nazionale da un punto di vista che ne accentua
ulteriormente le distanze dalle ideologie nazionaliste di destra.
La Costituzione boliviana riconosce esplicitamente il
carattere multinazionale del
Paese, andando assai oltre un generico multiculturalismo e la
concessione di limitate autonomie alle comunità indie; dal canto suo
Podemos ha stretto relazioni sia con i movimenti municipalisti sia
con le formazioni politiche di sinistra radicale impegnate nella
lotta per l’indipendenza politica dei popoli basco e catalano.
Tutto ciò significa che sovranità popolare e nazionale possono e
devono funzionare a diverse scale, prevedendo la costruzione di nuove
entità territoriali dai confini che risultino, ad un tempo,
permeabili alle persone e chiusi ai flussi di merci e denaro ove
ritenuti in conflitto con gli interessi delle comunità locali.
Costruire popolo, costruire nazione, costruire comunità, per il
socialismo e contro l’egemonia del capitalismo globale.
Note
[1]
Sul concetto di stile populista cfr. M. Tarchi, Italia
populista,
il Mulino, Bologna 2015
[2]
Cfr L. Gallino, la
lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza,
Roma-Bari 2012
[3]
Cfr. P. Dardot, C. Laval, La
nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista,
DeriveApprodi, Roma 2013
[4]
Rubo questa definizione a Dardot e Laval (op.
cit.)
[5]
Op.
cit.,
p. 371
[6]
Ivi, p. 372.
[7] Quanto
capitalismo…, cit.,
p. 156. È il caso di notare che Crouch, pur criticando tale
mutazione, non rinuncia alla speranza in una rinascita della
socialdemocrazia, sia pure in forme aggiornate ai nuovi scenari
socioeconomici
[8]
Cfr. S. Amin, La
déconnexion. Pour sortir du système mondial, La
Découverte, Paris 1986
[9]
Cfr. S. Amin, op. cit
[10]
Cfr. E. Laclau, op. cit
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