"Economia della rivoluzione" di Vladimiro Giacché raccoglie gli scritti economici dal 1917 al 1923 del leader della Rivoluzione d'Ottobre. Una lettura che apre interessanti visuali sul nostro mondo di oggi.
Quasi niente è sembrato essere meno attuale in questa infuocata estate italiana dei testi di Lenin sulla rivoluzione, ormai centenari. Eppure, credo, dal saggio di ben 520 pagine che Vladimiro Giacché ha recentemente pubblicato (“Economia della rivoluzione”, Il Saggiatore), raccogliendo gli scritti economici di Lenin dal 1917 al 1923, si aprono interessanti visuali sul nostro mondo di oggi. Ciò potrebbe sorprendere alcuni, poiché, con la fine dell`Unione Sovietica, il suo fondatore e i suoi pensieri sono in gran parte scomparsi nell’oblio. L’implosione dell’ex-economia sovietica e la selvaggia degenerazione far west che la seguì immediatamente sono considerati dai più come fase già prevista nel contesto della vittoria globale del capitalismo – una semplificazione che manca di qualsiasi complessità storica.
Dopo quasi tre decenni la demonizzazione anti-sovietica continua e anche nelle prossime settimane potremo leggere qualcosa di simile al riguardo in più di un commento, a meno ché non si preferisca sottacere del tutto l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. E perché mai, quando di “cambio di sistema” non si parla più da tempo? O la storia non è ancora giunta alla sua “fine”?
Nell’intensificarsi della lotta globale delle potenze in campo per la spartizione delle risorse ancora restanti, il benessere della maggioranza dell`umanità è definitivamente scomparso dall`orizzonte. La minoranza che ancora possiede qualcosa si tiene stretti i suoi beni – con tutte le conseguenze sgradevoli che abbiamo quotidianamente davanti agli occhi, almeno se vogliamo percepirli.
Dieci anni dopo l’esplosione della crisi economica mondiale nel 2007/8 persiste ancora la fase di depressione e le maggiori potenze non possiedono strumenti efficaci per superarla. Il mercato è stato in grado di recuperare parte dei profitti a scapito dei paesi più deboli (nell’UE, per esempio, la Germania a spese dell’Europa meridionale) soltanto con l`utilizzo massiccio di fondi pubblici per salvare le banche e l’intero sistema finanziario. Sul capitale finanziario vero e proprio tuttavia non è stata imposta restrizione alcuna.
È ancora il dominio del mercato a prevalere di fronte allo Stato, basti pensare all’orientamento unilaterale delle scienze economiche in Occidente, in particolar modo negli Stati Uniti e in Germania, sebbene la concorrenza de facto in Germania sia sostenuta dallo Stato come in nessun altro paese.
Ma da più parti ci si sta chiedendo per quanto tempo ancora si possa continuare così senza ulteriori profonde spaccature e se l’Unione Europea sopravviverà. Nella popolazione vengono alimentate paure di ogni tipo, ma alternative economiche all`esistente vengono negate o sottaciute.
Ci ha portato quasi un po’ di frescura, in questa estate afosa, notare la chiarezza del pensiero, delle richieste e delle prime misure di Lenin, con cui egli e i suoi seguaci hanno fatto il tentativo eroico di porre fine alle condizioni di sfruttamento nella Russia zarista sottosviluppata, indebolita dalla guerra. E anche allora i potenti della terra insorsero immediatamente per dare una rapida fine a questo affronto contro il sistema capitalistico (concretamente: pace immediata, espropriazione e ridistribuzione delle grandi proprietà terriere, controllo della produzione da parte dagli operai, solo più tardi si aggiunsero misure come la nazionalizzazione del sistema bancario e altro).
L‘Intesa incendiò la guerra civile nel giovane stato sovietico, appena sottoposto alla devastante pace di Brest-Litovsk, una vera e propria rappresaglia, con la quale le potenze occidentali si erano assicurate ampie sfere di influenza nel territorio russo e la Germania si era garantita stati satelliti lungo i confini orientali. Il fatto che i bolscevichi, nonostante tutto, avessero potuto affermare e rafforzare il loro potere politico procurò loro rispetto a livello mondiale e la risonanza e le speranze furono immense.
I governi occidentali offrirono tutto per impedire che la scintilla rivoluzionaria si propagasse anche nei paesi capitalisti avanzati; e la rivoluzione tedesca nel novembre 1918 “non lo fu per niente”, come osservò sarcasticamente Kurt Tucholsky. Lenin sapeva, e lo aveva spesso ripetuto, che un’internazionalizzazione di questi mutamenti era indispensabile anche per la trasformazione dell’Unione Sovietica, ritenendo che “il socialismo in un solo paese” non fosse fattibile.
Eppure la storia andò avanti, la teoria e la pratica non coincidono. Poiché la rivoluzione non si attuò in Occidente, Lenin rivolse infine la propria attenzione verso l’Oriente, l’ Asia, dove si trovava la maggior parte della popolazione della terra. Ma lì sarebbe stato necessario molto più tempo, perché Lenin considerava come condizione essenziale, per il costituirsi di una società socialista, l’esistenza o la creazione di un capitalismo di Stato sotto la guida della classe operaia. Lenin intese questo come un lungo processo di sviluppo culturale delle masse del popolo, con tutte quelle “fatiche delle pianure”, come Brecht avrebbe chiamato più avanti le difficoltà di quel percorso mai ancora intrapreso. [“le fatiche della pianura”, Mühen der Ebene in tedesco, la faticosa trasformazione postrivoluzionaria, dopo aver superato le montagne, “Gebrirge”, della rivoluzione ndr]
Nella sua introduzione di quasi cento pagine di contestualizzazione dei testi di Lenin e anche delle problematiche attuali, l’autore, egli stesso filosofo ed economista, traccia una serie di linee di collegamento, enfatizzando proprio la capacità di prospettiva e le anticipazioni sul futuro nel pensiero di Lenin.
Infatti, il primo tentativo di tradurre la teoria di Marx nella prassi compiuto da Lenin – non subito soffocato nel sangue come ancora la Comune di Parigi – ha avuto ulteriori sviluppi nel blocco sovietico fino agli anni Sessanta, e anche dopo in molte parti del mondo. In Cina e in altre potenze emergenti l`aprirsi delle economie pianificate del capitalismo di Stato verso elementi del mercato ha portato a ritmi e resultati di sviluppo sorprendenti. Le influenze della Nuova politica economica di Lenin (Nep) vi sono chiaramente riconoscibili, ovvero quei “Principi fondamentali della gestione economica socialista”, raccolti ancora in una edizione speciale per il 100° compleanno di Lenin (ed. Dietz, Berlino, 1970).
Nel frattempo, gli Stati Uniti vedono messo in pericolo dalla forza economica della Cina il loro ruolo centenario di prima potenza mondiale e (re-) agiscono di conseguenza in modo aggressivo. L’importante rivista economica The Economist ha rilevato inoltre nel 2012 che questo capitalismo di Stato è “il nemico più formidabile che il capitalismo liberale abbia sinora dovuto affrontare”, una formulazione che sottolinea la rilevanza politico-economica degli attuali scontri anche bellici tra Oriente e Occidente.
D’altra parte, il significato solo più utopico che un odierno marxista come Slavoj Žižek attribuisce tuttora alle opere di Lenin appare piuttosto inadeguato. Per contro l’Economist sopra citato ha dedicato a Lenin, nell’ottantottesimo anniversario della morte, il 21 gennaio 2012, la copertina: lo ritrae col sigaro di un capitalista nel pugno chiuso. E sotto il titolo “Ascesa del capitalismo di Stato” lo definisce come “il nuovo modello che si sta affermando nel mondo”.
Senza entrare in una discussione sulle diverse connotazioni del concetto citato, Giacché osserva che palesemente esiste già da lungo tempo un “Lenin dopo Lenin”. Decisiva per lui fu la questione del potere politico, ovvero di quale classe controlla quel sorgente capitalismo di Stato. E particolarmente negli ultimi scritti prima della sua morte, Lenin ha ripetutamente sottolineato il grande sforzo culturale che la nuova società doveva affrontare per mettere la classe operaia in grado di gestire e organizzare la produzione a beneficio di tutti. E quando alla fine scorgeva già all’orizzonte il pericolo di nuove guerre imperialistiche Lenin si chiedeva, se le prime conquiste della giovane Unione Sovietica avrebbero potuto continuare ad affermarsi e a svilupparsi.
Come motto per il suo libro, che val la pena di leggere, Giacché ha citato un’affermazione lapidaria che François Mitterrand ha fatto davanti al suo staff agli inizi degli anni ’80: “In economia ci sono solo due possibilità. O siete leninisti o non cambierete nulla”. Suppongo che questa citazione può essere intesa anche come un invito indiretto alla sinistra italiana, oggi profondamente divisa, smembrata e autoreferenziale, perché infine si ricordi di ciò che è essenziale.
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