Non dobbiamo accettare un’organizzazione della società in cui il futuro per la maggior parte degli individui costituisce inesorabilmente una minaccia.
Come
riportato nell’articolo sul Corriere
della Sera del
22 agosto 2017, che riprende L’Avvenire,
ci troviamo di fronte ad un cambiamento epocale: è iniziata, già
rilevata dall’ISTAT, una brusca inversione di tendenza della
prospettiva di sopravvivenza della popolazione italiana. Ciò è
drammatico non solo in sé, ma anche in quanto è il risultato, come
ipotizzato dallo stesso Avvenire,
giornale cattolico, della riduzione delle prestazioni del Servizio
Sanitario Nazionale e dell’assistenza agli anziani.
E’
da rilevare che una riduzione della prospettiva di vita di una
popolazione è un evento doloroso che storicamente ricorre in
coincidenza di guerre o crisi sociali, politiche ed economiche di
proporzioni e durata gigantesca. Un esempio per tutti, in tempi
recenti: il crollo di quasi venti anni della prospettiva di vita
della popolazione russa maschile nel periodo compreso, all’incirca,
tra il 1980 e il 2000 -in seguito parzialmente recuperato-
conseguente ai processi di disfacimento dell’URSS.
La
cosa più paradossale è che, pur di fronte a questa drammatica ed
avvilente riduzione della prospettiva di vita della nostra
popolazione (ma dove è il progresso?), prosegue sfacciatamente
l’aumento dell’età pensionabile. A tal proposito è opportuno
evidenziare che la legge di “riforma” delle pensioni
Monti-Fornero ha previsto che l’età pensionabile segua sempre
l’andamento della prospettiva di vita solo se questo è positivo,
ma non lo segua nel caso divenisse negativo: l’età pensionabile
può solo aumentare e in nessun caso ridursi (ciò è stato
sottaciuto). Si può pertanto facilmente intuire che i legislatori
-su mandato della BCE e dei creditori europei, banchieri e
capitalisti internazionali- sin da allora preconizzassero che la
curva di incremento della prospettiva di vita della popolazione
italiana avrebbe subito un’inversione negli anni successivi. Come
chiamare tutto ciò se non una truffa premeditata? La questione più
grave dell’aumento dell’età pensionabile -oltre al fatto di
togliere il diritto al meritato riposo agli anziani, sottraendo anche
alle famiglie il loro aiuto, ad esempio, nella cura dei nipoti- è il
rischio catastrofico di essere espulsi dal lavoro ancor prima del
raggiungimento dell’età della pensione. Molti posti di lavoro
infatti oggi sono in bilico e le aziende fanno e faranno di tutto per
liberarsi proprio dei lavoratori anziani, in quanto meno in salute e
meno forti fisicamente, tecnicamente obsolescenti e in genere meglio
pagati.
Per
apparire comprensivo nei confronti dei lavoratori il governo ha
predisposto l’anticipo pensionistico (APE) volontario, con il
quale, a determinate condizioni e sopra i 63 anni, è possibile
ricevere un assegno mensile pensionistico. In realtà con l’APE
nulla viene regalato al lavoratore: detto anticipo infatti consiste
propriamente in un prestito che dovrà essere rimborsato in venti
anni a partire dal momento del raggiungimento della “effettiva”
età pensionabile, prelevandolo automaticamente ogni mese dalla
pensione. Questi lo pagherà molto caro: oltre al capitale ricevuto
da rimborsare, le spese gestionali ed il profitto, il lavoratore
dovrà infatti pagare anche gli interessi sul prestito, nonché
un’assicurazione sulla vita che copre il creditore dal rischio di
premorienza negli anni che intercorrono dall’inizio dell’erogazione
fino al completamento del rimborso.
Si
parla sempre della piaga europea, ma soprattutto italiana, della
disoccupazione giovanile: ma come si pensa di risolverla se viene
continuamente aumentata la permanenza al lavoro? A meno che si
vorranno attuare licenziamenti di massa dei lavoratori anziani, i
quali, non potendo ancora accedere alla pensione, finirebbero sul
lastrico. A questo proposito ci si può aspettare che a breve
torneranno a tuonare i proclami dell’ideologia neoliberista contro
quei residui dell’articolo 18 che ancora tutelano parzialmente i
lavoratori assunti prima del 2015, al motto astioso “basta
lavoratori troppo garantiti sulle spalle delle giovani generazioni!”
e “il job
act va
esteso a tutti, anche per equità!”. Insomma, anziché ridurre in
modo generalizzato l’orario di lavoro per assorbire l’occupazione
giovanile, si opta per un elevato tasso di disoccupazione finalizzato
ad abbassare i salari e peggiorare le condizioni di lavoro, con
incremento dei profitti del capitale (le oligarchie capitalistiche
praticano la lotta di classe, mentre molti, a sinistra, credono che
le classi siano ormai scomparse).
Così,
oltre alla impressionante disoccupazione giovanile, intorno al 40%,
si stima che un quarto circa dei giovani tra 14 e 25 anni non
lavorano né studiano -i cosiddetti NEET-.
Di fronte a tali drammatici numeri si deve parlare di patologia
sociale piuttosto che individuale. Infatti avviene che al giovane è
richiesto di partecipare ad una angosciante impegnativa competizione
con i propri coetanei per conquistare e poi mantenere o riconquistare
un posto di lavoro (ma anche solo per accedere ad un corso di laurea,
ormai quasi tutti a numero chiuso) e poter sopravvivere o comunque
rendersi indipendente, accedere ai consumi, inserirsi nella società
e farsi una famiglia. Ma l’esito di una tale estenuante
competizione, che impone di superare ostacoli, delusioni ed
umiliazioni, non è affatto scontato: sono in troppi a competere per
pochi posti di lavoro, senza contare che la maggior parte di questi
sono lavoretti precari, sfruttati e mal pagati. Paradossale ed
imbarazzante, ma significativo, che moltissimi centri di formazione
istituiscano corsi anziché per ampliare o affinare conoscenze e
competenze, per addestrarsi a questa stessa competizione: come
redigere un curriculum vitae o cercare lavoro o prepararsi ad
affrontare un colloquio o un test di lavoro. E’ del tutto naturale
che in tale contesto di esasperata competizione individuale, in cui
le probabilità di fallimento sono tanto elevate, molti giovani
rinuncino a parteciparvi. Molti di essi preferiscono sottrarsi al
giudizio della società isolandosi dal mondo ed entrando, semmai,
nella realtà virtuale delle attuali tecnologie informatiche, nella
quale l’io virtuale ed il mondo virtuale possono essere ancora
manipolati dal soggetto.
Gli
attacchi ai lavoratori sembrano ormai non avere più argini. E’ di
questi giorni, ad esempio, la richiesta, che sarà a breve attuata,
di ampliare da quattro a sette l’orario in cui il lavoratore in
malattia del settore privato dovrà essere reperibile all’indirizzo
comunicato, per l’accertamento dello stato di salute da parte del
medico fiscale. In sostanza dette fasce di controllo, in teoria
concepite per accertare lo stato effettivo di salute, vanno assumendo
lo scopo di rendere la vita difficile al lavoratore in malattia, per
dissuaderlo dall’assentarsi dal lavoro. Così, per il lavoratore
agli arresti domiciliari, cioè in malattia, se non ha in casa un
maggiordomo o dei famigliari a disposizione (magari disoccupati:
forse a questo servono!) sarà un problema persino recarsi in
farmacia (“ma ci son le farmacie notturne!”) o procurarsi delle
fette biscottate o dei limoni. Provocatoriamente, non si potrebbe
proporre che il lavoratore in malattia venga recluso in
un’istituzione, magari senza televisione, ma dove gli sarebbe
fornito un pasto caldo ed eventuali farmaci qualora necessari (o
costerebbe troppo?).
Insomma,
questa politica economica neoliberista, con l’arretramento
impetuoso dei diritti dei lavoratori, costituisce il naturale corso
nel sistema capitalistico attuale, in cui le lotte dei lavoratori,
ormai disuniti, segnano il passo, non vi sono più partiti comunisti
e l’Unione Sovietica è un ricordo del passato. Bisogna tuttavia
che i lavoratori e le organizzazioni sindacali e politiche riprendano
a rivendicare istanze di interesse comune e non solo particolare, di
breve prospettiva o opportunistico. Occorre lottare per la riduzione
-anziché l’aumento- dell’età della pensione per dare lavoro ai
giovani, i quali hanno massima capacità e voglia di lavorare, e che
invece si abbrutiscono e si demoralizzano senza far nulla, persino
alla fine disabituandosi alla vita attiva ed al lavoro; è necessaria
una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro al fine di
ridurre la disoccupazione; è necessario aumentare, anziché ridurre,
la spesa sociale per la sanità, l’istruzione ed il trasporto
pubblico. Non ci sono i soldi? Si vada a vedere quanti yacht
smisurati ci sono a porto Cervo, a Portofino e Santa Margherita
Ligure, a Punta Ala, in Costa Smeralda o a Montecarlo (ove neppure si
pagano le tasse), o quante Ferrari o Lamborghini si vendono, per non
parlare delle spese militari (acquisto di caccia bombardieri F35,
ecc.).
Dobbiamo
allora riflettere ed opporci ad una organizzazione dei rapporti
sociali di produzione (il sistema capitalistico) che crea miseria e
sofferenza, polarizzazione smisurata della ricchezza (indice di
caduta della civiltà), arretramento dei diritti e del benessere dei
cittadini, e in cui i giovani sono esclusi dall’attività, i
talenti sprecati e le risorse umane umiliate. Per non parlare di come
viene trattato l’ecosistema del nostro pianeta e la salute umana,
sottomessi alle logiche del mercato, cioè del profitto. E’
inaccettabile dunque un sistema in cui il futuro per la maggior parte
degli individui costituisca inesorabilmente un’angosciante
minaccia: dal rischio della perdita del posto di lavoro alla pensione
che si allontana, dalla riduzione dell’accesso alle cure mediche ed
assistenziali alla mancanza di lavoro per i nostri figli, dal timore
degli effetti sempre più impattanti della devastazione ecologica
alla minaccia di guerre nucleari.
Dobbiamo
invece riappropriarci del nostro futuro, consapevoli che la storia
non è finita, ma dipende da noi, dalla nostra volontà e capacità
di organizzarci e cambiare il mondo (il concetto marxista di prassi):
l’essenza della ragione umana è invero proprio nel pensiero e
nell’azione rivolta al futuro. Dobbiamo respingere la scala di
valori del qui
ed ora,
dell’uomo pratico, astorico e acritico, a suo agio all’interno
del sistema dato (quella gestione del’immediato che, per quanto
irrinunciabile, ci accomuna agli animali), valori inculcati
dall’ideologia del mercato, funzionali al consumismo e alla
valorizzazione del capitale, ma deleteri per lo sviluppo umano.
Occorre
dunque rimettere al centro l’uomo, con la sua la ragione hegeliana
storico-dialettica, respingendo sia le filosofie irrazionaliste della
rassegnazione (da Schopenhauer fino al postmodernismo) sia le
filosofie che negano al soggetto pensante la possibilità e il
compito di trasformare il mondo sociale (posizioni
positivistico-empiriste alla Popper). Nello specifico, secondo queste
ultime alla filosofia non spetta valutare e tanto meno interferire
con la struttura del sistema economico, considerato parte del mondo
naturale, studiabile al più da tecnici economisti ed amministratori.
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