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Abbiamo qui davanti il programma dell'Università popolare per il primo periodo 1916-17.
Cinque corsi: tre dedicati alle scienze naturali, uno di letteratura italiana, uno di filosofia. Sei
conferenze su argomenti vari: due sole di esse dànno, per il titolo, una tal quale assicurazione di
serietà. Ci domandiamo, qualche volta, il perché a Torino non sia stato possibile il solidificarsi di un
organismo per la divulgazione della cultura, il perché l'Università popolare sia rimasta quella misera
cosa che è, e non sia riuscita ad imporsi all'attenzione, al rispetto, all'amore del pubblico, il perché
essa non sia riuscita a formarsi un pubblico. La risposta non è facile, o è troppo facile. Problema di
organizzazione, senza dubbio, e di criteri informativi. La miglior risposta dovrebbe consistere nel
far qualcosa di meglio, nella dimostrazione concreta che si può far meglio e che è possibile
radunare intorno ad un focolaio di cultura un pubblico, purché questo focolaio sia vivo e riscaldi
davvero. A Torino, l'Università popolare è una fiamma fredda. Non è né università, né popolare. I
suoi dirigenti sono dei dilettanti in fatto di organizzazione di cultura. Ciò che li fa operare è un
blando e scialbo spirito di beneficienza, non un desiderio vivo e fecondo di contribuire
all'elevamento spirituale della moltitudine attraverso l'insegnamento. Come negli istituti di volgare
beneficenza, essi nella scuola distribuiscono delle sporte di viveri che riempiono lo stomaco,
producono magari delle indigestioni allo stomaco, ma non lasciano una traccia, ma non hanno un
seguito di nuova vita, di vita diversa. I dirigenti dell'Università popolare sanno che l'istituzione che
essi guidano deve servire per una determinata categoria di persone, la quale non ha potuto seguire
gli studi regolari nelle scuole. E basta. Non si preoccupano del come questa categoria di persone
possa nel modo piú efficace essere accostata al mondo della conoscenza. Trovano negli istituti di
cultura già esistenti un modello: lo ricalcano, lo peggiorano. Fanno presso a poco questo
ragionamento: chi frequenta i corsi dell'Università popolare ha l'età e la formazione generale di chi
frequenta le università pubbliche: dunque diamogli un surrogato di queste. E trascurano tutto il
resto. Non pensano che l'università è la foce naturale di tutto un lavorio precedente: non pensano
che lo studente quando arriva all'università è passato attraverso le esperienze delle scuole medie ed
in queste ha disciplinato il suo spirito di ricerca, ha arginato col metodo le sue impulsività da
dilettante, è divenuto, insomma, e si è scaltrito lentamente, tranquillamente, cadendo in errori e
rialzandosene, ondeggiando e rimettendosi sulla via diritta. Non capiscono questi dirigenti che le
nozioni, avulse da tutto questo lavorio individuale di ricerca, sono né piú né meno che dogmi, che
verità assolute. Non capiscono che l'Università popolare, cosí come essi la guidano, si riduce ad un
insegnamento teologico, a una rinnovazione della scuola gesuitica, in cui la conoscenza viene
presentata come qualcosa di definitivo, di apoditticamente indiscutibile.
Ciò non si fa neppure nelle
università pubbliche. Si è ormai persuasi che una verità è feconda solo quando si è fatto uno sforzo
per conquistarla. Che essa non esiste in sé e per sé, ma è stata una conquista dello spirito, che in
ogni singolo bisogna che si riproduca quello stato di ansia che ha attraversato lo studioso prima di
raggiungerla. E pertanto gli insegnanti che sono maestri, dànno nell'insegnamento una grande
importanza alla storia della loro materia. Questo ripresentare in atto agli ascoltatori la serie di sforzi,
gli errori e le vittorie attraverso i quali sono passati gli uomini per raggiungere l'attuale conoscenza,
è molto piú educativo che l'esposizione schematica di questa stessa conoscenza. Forma lo studioso,
dà al suo spirito la elasticità del dubbio metodico che fa del dilettante l'uomo serio, che purifica la
curiosità, volgarmente intesa, e la fa diventare stimolo sano e fecondo di sempre maggiore e perfetta
conoscenza. Chi scrive queste note parla un po' anche per esperienza personale. Del suo garzonato
universitario ricorda con piú intensità quei corsi, nei quali l'insegnante gli fece sentire il lavorío di
ricerca attraverso i secoli per condurre a perfezione il metodo di ricerca. Per le scienze naturali, per
esempio, tutto lo sforzo che è costato il liberare lo spirito degli uomini dai pregiudizi e dagli
apriorismi divini,o filosofici per arrivare alla conclusione che le sorgenti d'acqua hanno la loro origine dalla precipitazione atmosferica e non dal mare. Per la filologia, come si sia arrivati al
metodo storico attraverso i tentativi e gli sbagli dell'empirismo tradizionale, e come, per esempio, i
criteri e le convinzioni che guidavano Francesco De Sanctis nello scrivere la sua storia della
letteratura italiana, non fossero che delle verità venutesi affermando attraverso faticose esperienze e
ricerche, che liberarono gli spiriti dalle scorie sentimentali e retoriche che avevano inquinato nel
passato gli studi di letteratura. E cosí per le altre materie. Era questa la parte piú vitale dello studio:
questo spirito ricreativo, che faceva assimilare i dati enciclopedici, che li fondeva in una fiamma
ardente di nuova vita individuale.
L'insegnamento, svolto in tal modo, diventa un atto di liberazione. Esso ha il fascino di tutte
le cose vitali. Esso deve specialmente affermare la sua efficacia nelle Università popolari, gli uditori
delle quali mancano precisamente di quella formazione intellettuale che è necessaria per poter
inquadrare in un tutto organizzato i singoli dati della ricerca. Per essi, specialmente, ciò che è piú
efficace ed interessante è la storia della ricerca, la storia di questa enorme epopea dello spirito
umano, che lentamente, pazientemente, tenacemente prende possesso della verità, conquista la
verità. Come dall'errore si arrivi alla certezza scientifica. È il cammino che tutti devono percorrere.
Mostrare come è stato percorso dagli altri è l'insegnamento piú fecondo di risultati. È, tra l'altro, una
lezione di modestia, che evita il formarsi della noiosissima caterva di saputelli, di quelli che
credono aver dato fondo all'universo quando la loro memoria felice è riuscita a incasellare nelle sue
rubriche un certo numero di date e nozioni particolari.
Ma le Università popolari, come quella di Torino, amano meglio far tenere dei corsi inutili e
ingombranti su «L'anima italiana nell'arte letteraria delle ultime generazioni», o delle lezioni su «La
conflagrazione europea giudicata dal Vico», nei quali si bada piú alla lustra che all'efficacia, e la
personcina pretenziosa del conferenziere soverchia l'opera modesta del maestro, che pure sa di
parlare a degli incolti.
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