*Da: https://pierluigifagan.wordpress.com L’edizione di riferimento del “Discorso della servitù volontaria” è quella Feltrinelli 2014, introdotta da E. Donaggio e accompagnata da due saggi di M. Benasayag e M. Abensour
Il testo in rete: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/04/discorso-sulla-servitu-volontaria.html
Il testo di questo breve ed esplosivo saggio, venne scritto originariamente a metà del 1500 da un giovane men che ventenne secondo quanto riferito dal suo grande amico, personale ed intellettuale, Michael de Montaigne. L’originale, aveva un doppio titolo, quello del Discorso che divenne poi il suo unico e conosciuto titolo ed un altro “Le Contr’Un” che si potrebbe tradurre come “Contro l’Uno”. La tesi è nota e già spiegata nel concetto di “servitù volontaria”: nella forma di gerarchia che informa le relazioni umane e sociali la funzione è certo dall’alto verso il basso ma la formazione originaria del sistema è probabilmente dal basso verso l’alto. Montaigne che rimase folgorato dalla tesi sosteneva che Etienne l’aveva scritta addirittura a sedici anni, forse diciotto. Possibile?
In fisica, si ritiene che dopo i trenta anni nessuno più avrà facoltà di avere idee originali. Il motivo è semplice, più si va avanti nell’età, più la mente assorbe schemi di pensiero esterni, storici e sociali, meno si ha facoltà di mantenere uno sguardo genuinamente stupefatto sulle cose, uno sguardo pulito ed originario, non ancora strutturato da vari tipi di fantasmi teorici. Del resto, nella favola “I vestiti nuovi dell’imperatore” scritta da Andersen nel 1837, chi ha la sfrontatezza di dire la verità semplice ovvero che “… il Re è nudo!” è appunto un bambino. Il bambino non ha ancora introiettato la convenzione sociale di dire quello che si pensa col sistema mentale attraverso cui tutti pensano. Quel sistema non può dire che il Re è ridicolo e quindi sostiene la finzione in maniera così vasta e pervasiva da far della finzione una realtà intersoggettiva che nelle umane società, è spesso la verità di fatto.
In più, La Boétie, crebbe in un milieu culturale fortemente influenzato dall’Umanesimo rinascimentale italiano, rappresentato nel suo ambiente dal vescovo del suo paese natale che era un cugino della famiglia Medici, il vescovo cattolico fiorentino Niccolò Gaddi. Di quella temperie umanistica, faceva parte un attivo recupero della classicità greca a cui infatti Etienne si rivolge più volte nel suo scritto e di quella tradizione faceva certo parte l’attitudine scettica di scrivere tesi critiche “contro” qualcosa o qualcuno. L’intera opera di Sesto Empirico è una collezione di tesi “contro” qualcuno o qualcosa[1]. Richard Popkin, ha scritto un ottimo libro sulla temperie scettica che agitò il XVI secolo francese[2] e ricorda che fu proprio per frenare gli esiti più nichilisti di questa tendenza che Descartes scrisse il suo Discorso sul metodo. Descartes infatti, accetta la postura scettica e dubita di tutto ma solo perché è alla disperata ricerca di qualcosa di cui poi non può più dubitare: il fatto stesso che c’è un dubitante. Poi, com’è a noto, trovato lo scoglio solido a cui aggrapparsi, si rese però anche conto di non poter andare da nessuna altra parte perché lo scoglio rimaneva pur sempre al largo di un mare agitato da dubbi ed allora ricorse al ponte di Dio come garante che percezione e ragione non fossero fallibili. Trovato il ponte tornò sulla terraferma e da qui dedusse l’intera sua metafisica razionalistica. Descartes ha solo spostato il dogma da punto di partenza a subordinata.
Il Discorso di La Boétie per lungo tempo rimase dimentico, poi trovò improvvise quanto poco continuative attenzioni, riedizioni, reinterpretazioni, rimanendo però sempre un po’ fuori ed un po’ dentro del perimetro dell’analisi filosofica politica. Vi ci sono riferiti a vario titolo Marat e Lemmanais , irregolari come Bergson e la Weil, anarchici e libertari di varia foggia (da Reich a Deleuze-Guattari ma anche l’anarco-capitalista Rothbard) e Wikipedia cita il fatto che tra il 2006 ed il 2016, il piccolo saggio ha ricevuto l’onore di ben sei edizioni in Italia. Complice forse la copertina dell’edizione Feltrinelli che riporta la maschera-simbolo di Guy Fawkes, bandiera del piccolo movimento di indignazione che ha accompagnato il disastro politico e sociale occidentale degli ultimi anni, campeggiando su una rivolta che però è rimasto un sussulto, un tremito che poi non ha sortito alcun vero effetto pratico sull’enormità delle ingiustizie del nostro tempo.
Insomma, c’è qualcosa che intriga e stupisce in questo Discorso ma c’è anche qualcos’altro che non gli permette di essere il punto di partenza per lo sviluppo di un discorso più approfondito di quello che poteva fare un ragazzo del 1500. Nel saggio del filosofo politico francese Miguel Abensour che accompagna la lettura dell’edizione citata, tempo e parole vengono spese per difendere il testo dall’accusa di rassegnazione, quasi che dire che c’è una dinamica per la quale è anche il servo a fare il suo padrone, porti di per sé a ratificare il fatto come naturale ed insuperabile. Nessuno che legga il testo del Discorso può ricavare questa impressione, tutt’altro, eppure c’è più di qualcuno che in nome del sacro principio di ribellione degli oppressi, sente l’affermazione come eresia connivente col dominio. Strano. E Abensour è poi preciso anche nel trovare il cardine filosofico che osteggia la ricezione della tesi per ulteriori sviluppi in Hegel, nei Lineamenti di filosofia del diritto ed in parte in Hobbes, nel “pactum subiectionis” del contratto sociale che porta alla società politica del Leviatano anche se proprio l’idea di un originario “patto di soggezione” potrebbe invece andare incontro alla tesi del francese. Anche il razionalismo illuminista basato sul primato della ragione forte, descritta in maniera viepiù idealizzata quanto meno si conosceva concretamente come funzionasse un cervello-mente e la psiche , aveva a premessa un perno che rendeva inaccettabile siffatta contraddizione. Ma più in generale, poiché la filosofia politica moderna nasce ai tempi dello scritto, appena anticipata dal Principe di Machiavelli (1532), va notato che tutto il suo successivo sviluppo ha due esiti: quello che concettualizza partendo dalla realtà politica in atto e quello più astratto le cui categorie sono tratte dalla realtà politica in atto o al massimo, da quelle in atto ai tempi di Platone, Aristotele, Polibio. Anche queste concettualizzazioni però, non s’interrogano sul fatto che le varie forme politiche siano ognuna una versione della gerarchia e che il punto in ombra è appunto quello originario: da dove viene la forma gerarchica in sé per sé? Tutto ciò a dire che certo La Boétie stesso, parla di tiranni, monarchi, dominatori di questo o quel tipo ma l’essenza del suo Discorso è forse più generica, tant’è che parte con il discorso di Ulisse nell’Iliade, un discorso da “capo”, non necessariamente politico.
C’è un pezzo scabroso (tanto che non ne ho trovato citazione in nessuno studio che tenta l’esegesi del Discorso) nel testo che fa capire meglio di ogni altro, quale fosse l’istanza che muoveva -forse- il giovane francese. Riferendosi con logica contro fattuale all’ipotesi di avere un ipotetico popolo vergine di ogni condizionamento abituante alla sottomissione, egli deduce che certo questi obbedirebbero solo ad un impianto di leggi da loro stessi stabilite e contrattate, a meno che … “A meno che non fossero quelli di Israele che, senza costrizione né bisogno alcuno, si crearono un tiranno: di quel popolo non leggo mai la storia senza trarne un fastidio così grande da diventare quasi disumano e rallegrarmi dei tanti mali che gliene vennero”. La Boétie era anti-semita? Poiché il tiranno che gli ebrei si auto-crearono era il Dio dell’Antico Testamento, La Boétie era ateo? Non credo fosse né l’uno, né l’altro o meglio, non credo sia questo l’ambito che aveva in mente nel proferire il suo disprezzo. Credo che si riferisse a quello come ad un caso auto-evidente della pulsione all’auto-assoggettamento che è proprio ciò di cui l’Autore fa suo oggetto di indagine[3]. Questa pulsione nuda è ciò che urta, tanto che La Boétie nota che essa non ha neanche un nome, è una disgrazia, un vizio, anzi un vizio disgraziato ma poiché fa parte di noi (o di non tutti ma di molti di noi) come parte nera dell’anima, esso non è neanche riconosciuto ed ecco che dal momento che il francese lo ha invece tirato fuori, non si sa bene dove metterlo e come giudicarlo. Tutta la filosofia politica che sfida la forma di dominio del suo tempo, che sia anarchica, libertaria, socialista, comunista, anti-capitalista, femminista, anti-colonialista, anti-imperialista potrebbe girare a vuoto se non affronta questo “vizio disgraziato” in quanto non è la sua forma così o colì il solo problema, ma il motore interno che riproduce la soggezione, motore che -in parte- è dentro gli assoggettati.
Contro l’Uno, è un discorso contro la forma piramidale e verticale delle interrelazioni umane, qualcosa che avrebbe dovuto esplorare non tanto la filosofia politica da sola ma anche l’antropologia, la sociologia e financo la psicologia almeno per la parte che scruta cosa nell’individuo muove questo alle relazioni con gli altri perché si deve essere sempre più d’uno per ricrearne la “disgraziata forma”[4]. Questa ricerca, la ricerca sul principio di gerarchia che noi qui tentiamo da lungo tempo, non viene fatta, in genere. Preferiamo la ricerca sulla differenza tra monarca e tiranno, tra oligarchia ed aristocrazia, tra dominio dei militari, dei sacerdoti, dei capitalisti, dei padri-padroni, degli anziani, di questo o quel popolo che impera su gli altri, le questioni di sesso e genere, preferiamo indagarne le forme piuttosto che la sostanza di cui appunto riconosciamo le forme ma che come materia ha sempre questa strana pulsione alla delega del “potere di decidere”. Questa materia è certo scabrosa per le nostre immagini di mondo eppure nessun progetto di emancipazione dal dominio dell’uomo sull’uomo, può avere alcun vero effetto se non parte da essa, se non l’assume per contrastarla. Infatti, è noto che ogni processo storico o sociale o politico abbia tentato di distruggere la vigenza di una delle varie forme della gerarchia, ne ha poi creata un’altra. Non affrontare questo problema, porta paradossalmente a quella depressione da tentativo di emancipazione che si sconforta nel constatare che il dominio è uno zombie che non si uccide mai davvero. Rimuovere il Discorso di La Boétie, è garantire vita eterna allo zombie, usare il Discorso in generici modelli ribellistici o storicisti è di nuovo garantire allo zombie altro sangue da succhiare per perpetuarsi. La Boétie, ha scritto un appello a cercare quel “paletto di frassino da piantare dove” possa definitivamente uccidere lo zombie ma questo appello, continua a rimanere inevaso.
= 0 =
L’analisi del sistema della gerarchia sociale umana ha, per noi,tre livelli.
L’ultimo è quello delle forme che la gerarchia prende a seconda dei tempi e dei luoghi. Di queste analisi abbiamo tonnellate di esempi in tutta la filosofia politica critica o connivente.
Quello di mezzo è oggetto di larga parte della trattazione del giovane francese che, per quanto giovane (e con la mente pulita per accorgersi della nudità del sovrano) e di un’epoca in cui lo sviluppo delle armi del pensiero critico era ai primi passi, mostra una rimarchevole capacità analitica. Sono i motivi per i quali la gerarchia si auto perpetua, si auto rafforza, si auto declina a seconda della forza con cui batte un tasto piuttosto che l’altro. I tasti sono: 1) nel dominio gerarchico noi nasciamo, cresciamo ed infine ci affermiamo come adulti, al sistema siamo abituati e né la storia, né gran parte dei nostri simili, sembrano attratti dallo sviluppo di una qualche alternativa qual’ora si accendesse in noi la fiammella della ribellione. Tutto della struttura sociale, economica, sociale, culturale, politica, militare e religiosa, ci rimanda questo modello unico e naturalmente i beneficiari, i gerarchi o tiranni o capi o padroni o chi vi pare, ne amplificano l’ineluttabilità, la funzionalità, la giustificabilità e financo la virtuosità; 2) meno virtuosa ma non meno efficace la panoplia di divertimenti, sollazzi, intrattenimenti, di “vantaggi” che vengono concessi e spesso promossi per far sì che i vizi individuali sopravanzino le virtù sociali. Inebetire, distrarre, deviare l’energia psichica, assecondare la pigrizia, questa la golden rule di ogni potere. Come nota l’introduttore al testo, siamo alla società dello spettacolo di Debord, con poco più di quattro secoli d’anticipo e del resto “panem et circenses” era già in Giovenale ; 3) una volta formatosi il principio di vertice, certo si dipana una complessa catena di strati piramidali che diventano complici e beneficiari del trickle down di frammenti (o briciole) di potere. E’ il caporalato sociale, che riproduce capi minori assoggettati ai maggiori ma dominanti su quelli inferiori fino a quello che torna a casa e picchia la moglie o i figli o se ha ritegno o ha la moglie troppo tosta, il cane; 4) infine, il fatto che il potere conosce la sua funzione simbolica e proiettiva quindi nasconde il proprio volto umano, troppo umano per interpretare parti verso cui le aspettative son così “alte”. Si trasforma quindi spesso in specchio o bianco telo su cui sono gli assoggettati a proiettare la maschera più idonea all’autoinganno. Il potente sa, il potente può, il potente è sovrumano, superintelligente, superfurbo. Si proietta per spaventarsi ma soprattutto per giustificare attraverso queste immagini sovraumane, la propria disgraziata condizione senza in ciò perdere le ultime briciole di autostima. Più in generale, ogni tentativo di defezione dallo schema, si paga in termini di auto-isolamento dal corpo sociale. Se così fan tutti, non farlo significa diventare l’Altro e l’Altro è solo.
Il più interessante livello d’indagine, però, è il primo, quello da cui la gerarchia origina prima di diventare fenomenologia o incarnazione storica, è questo il “punto La Boétie”, il buco nero che ci invitava a sondare e che generazioni e generazioni di scavatori impauriti ha evitato per dedicarsi alla denuncia della sua veste contingente. Qui, la tesi del giovane francese è presto detta: qualcosa ci porta ad essere da tutti uno a un tutt’uno, questo qualcosa è l’Uno, quindi io (Etienne de la Boétie) scrivo un libro Contro l’Uno. Contro l’Uno non è solo l’imitazione del tono scettico è il senso centrale della riflessione sul “vizio disgraziato”, unirsi, funzionalizzarsi, ordinarsi socialmente perché tutti si riporta ad un Uno[5]. L’Uno è un principio, il principio di vertice gerarchico, il quale prima ancora di agire in vario modo, interpretato da questo o da quello è posto, posto da tutti coloro che poi gli si sottometteranno. Di questo Uno esiste sempre una versione materiale ed una parallela immateriale, quella che chiamiamo “credenza condivisa”. Perché lo pongono loro stessi e non s’impegnano altro che a costruire una piramide a cui tributare ossequio diventano poi schiavi consenzienti ancorché lamentosi, ma perché non s’impegnano a costruire una sfera senza alti e bassi, una sfera che colleghi tra loro tutte le parti anziché collegarle tra loro perché tutte connesse all’Uno centrale? Centrale, non di vertice , l’origine della gerarchia sociale umana quella che si forma nei primi secoli delle società complesse che sopravvenivano le piccole tribù già stanziali, è la funzione centrale, quella che l’intero corpo sociale chiamò a svolgere la funzione di coordinamento del Tutto[6]. La funzione centrale, a gli inizi, era -diciamo così- di “servizio”, poi divenne “primus inter pares”, poi se ne approfittò anche in ragione di una crescente complessità che sempre più allontanò le singole parti dal Tutto intero, è divenne capo, vertice, élite riproducendosi e rinforzandosi progressivamente, sia usando uno o più dei quattro tasti prima esposti (in genere, tutti magari con diverso virtuosismo), sia attraverso l’intera forma concreta della sua manifestazione ovvero questo o quel ordinatore sociale.
Al cuore di questo discorso non ci sono ragioni psicologiche ma funzionali. I gruppi umani, oltre una certa dimensione, hanno -sino ad oggi- che sono trascorsi solo ottomila o forse meno anni dalla nascita di aggregati vasti e complessi, trovato la gerarchia come loro migliore forma di autorganizzazione. Essa è naturale nel senso che culturalmente non si è evoluto un pensiero che la avversasse per strade certo più difficili ma più dignitose. Qualche volta si è provato, a sentire Erodoto già i persiani chissà dove, come e quando[7], la varie poleis democratiche greche che non erano solo Atene, i nativi americani Irochesi o i cosacchi che però erano più simili alle bande di cacciatori – raccoglitori (tradizione forse da estendere ad altri tipi di tribù barbare, vichinghi inclusi), due mesi nella Parigi nel 1871, i diggers e levellers tentarono nella Guerra civile inglese (poi giustiziati dal “repubblicano” Cromwell), A. Sen ha provato ad allargare gli esempi anche fuori dall’eurocentrismo[8], in Spagna nel ’36-’39 almeno per il fronte anarchico, le varie “comuni”, i primi soviet, piccoli gruppi di credenti o produttori isolatisi dalla massa piramidalizzata ma ogni volta la fiammella si è poi spenta e grande festa intorno alla sue braci hanno fatto danzare non solo le élite sfidate da cotanta improntitudine ma anche, con cinica soddisfazione, coloro che avevano diversi programma di emancipazione, quelli che loro avevano pensato, le élite perdenti invidiose di quelle vincenti che volevano comandare sì, ma solo “a fin di bene”.
Questi ultimi amici-nemici della liberazione dell’uomo dal dominio dell’altro uomo hanno il loro simbolo proprio in quel Marat che dopo aver plagiato in lungo ed in largo il Discorso senza mai citarlo, dedusse che il popolo ha dunque bisogno di un amico, unico capace dall’alto della funzione ancora una volta gerarchica e di potere, di rimediare alla stupidità masochista di quel bambino-anziano che è l’informe “popolo”. Marat anticipa per certi versi, il concetto di avanguardia che trascina il popolo alla “liberazione delle masse” nella concezione leninista. Ma l’autoincaricato “liberatore delle masse” non soffre solo di falsa coscienza per quanto animata da pie intenzioni, egli è anche il frutto di una contraddizione intrinseca che si nota all’opera anche in grande parte della filosofia politica. La contraddizione intrinseca è tra il tempo in cui c’è una certa forma oppressiva di ordine, che poi è il tempo in cui vive l’osservatore, pensatore o agitatore che sia, l’urgenza del desiderio di svincolarsi da questa forma oppressiva, tra questo tempo presente ed il tempo della forma gerarchica che ha consistenza di lunga durata. Non c’è coincidenza di tempi, il primo vuole l’immediato e domanda l’atto ma il secondo chiede i suoi tempi ed imporrebbe un lento e difficile processo[9]. Anche La Boétie, avendo osservato l’enigmatica forma della servitù volontaria, in sede di suo superamento, non può andare oltre un davvero ingenuo “Decidete di non servire, ed eccovi liberi”. L’emancipazione umana dalla forma sociale gerarchica, dovrebbe –invece- esser intesa come una vasta impresa, molto lunga e difficile, forse un lavoro che anche correttamente intrapreso e stoicamente portato avanti nell’avvicendarsi delle varie generazioni, chissà mai se arriverà mai ad un suo pieno compimento, ammesso sia legittimo immaginarsi questo “pieno compimento” e non un costante e non finito “tendere a”.
Qui infatti, non usiamo, né altrove siamo usi farlo, l’ambiguo concetto di “libertà”, faro di ogni critico della gerarchia e del dominio dell’uomo sull’uomo. Liberazione è processo (sarebbe meglio emancipazione), libertà fa pensare ad uno stato immediato, compiuto, perfetto e finito che nell’ambito della società umana, non credo possa mai esistere per come romanticamente lo s’intende. Non sono neanche sicuro sia auspicabile visto che stare in società lo è molto di più sotto molti più punti di vista ed esser liberi in società, se non si specifica meglio il concetto, tende al controsenso visto che la società è fatta di legami. La liberazione, dovrebbe quindi avere due progetti e due tempi. Quello storico immediato che si riferisce al superamento di una data forma come ad esempio, perorare il superamento del neoliberismo magari in favore di una qualche forma di neo-keynesismo, stante che sempre di capitalismo si tratta. Questo è un migliorismo e certo anche l’Unione sovietica, pur criticabile a fondo, era migliore -per molti ma non per tutti- dei tempi dello Zar. C’è quindi una liberazione migliorista che s’ingaggia con le forme presenti del dominio gerarchico, combatte quella esistente e ne cerca una migliore che però è un migliore relativo e qualche volta neanche tale. Ma deve anche esserci una staffetta di lunga durata in cui ogni generazione dà in lascito il testimone alla successiva, in cui qualche passo in avanti verso la liberazione dal dominio gerarchico di ogni forma e tipo, è il premio in palio. Questa via è assai poco perseguita. Dai filosofi ai politici, c’è affollamento nell’ingaggiarsi contro questa o quella forma della gerarchia (almeno tra coloro che prendono questo impegno, ce ne sono altrettanti, anzi di più, che servono la forma gerarchica di cui sono supporter, dipendenti ed agenti attivi) ma pochi sono coloro che hanno continuato a pensare o provare, movimenti di liberazione senza liberatore, quindi di auto-liberazione. S’intenda l’auto-liberazione come impresa collettiva e sociale, mai individuale poiché il problema che stiamo trattando è un problema di società, non di individuo. L’individuo potrà andare nei boschi, fare lo stilita, l’eremita, fare percorsi spirituali e auto-coscienziali, andare dallo psicoanalista, provare ad emanciparsi dalla sue tare famigliari o apprese nel cammino della vita ma non è quella la “liberazione” di cui stiamo parlando, stiamo parlando della forma gerarchica che ordina le società complesse, la ragnatela di cui ognuno di noi è ragno.
Questa forma, la forma gerarchica, l’abbiamo definita “la più facile”[10] e diagnosticato il vasto ricorso a cui nella storia estesa i più si sono abbandonati col fatto che -in fondo- ottomila anni per un animale che ha tre milioni di anni è ben poca cosa. Come molti filosofi hanno pensato, si potrebbe ancora iscriverci per quanto riguarda l’evoluzione del nostro intelletto sociale al primitivismo, all’infanzia, ai primi passi. Molti fanno fatica a pensarsi come corridori della staffetta umana che ha tempi di centinaia, migliaia di singole vite umane, di cui quella più importante di ogni altra è la propria. L’emancipazione da quella forma che s’impone per la sua facilità, è bene saper che è molto difficile. E’ difficile rinunciare al “liberatore” e trovare maieuti della liberazione, persone che non ci dicano cosa pensare ma come imparare a pensare per conto nostro, politici che non dicano come decidere ma come sperimentare forme di decisione collettiva previo dibattito e contrattazione, filosofi che non ci dicano come giudicare ma come trovare i tempi ed i modi del giudizio, governanti provvisori ed a tempo che non vogliano governare come Solone con gli ateniesi, delegati riottosi che s’attengono al mandato di rappresentanza ma scalpitando per tornare presto alla vita di tutti. E’ difficile pagare i prezzi degli errori degli esprimenti che pur bisogna continuare a tentare, difficile che ogni fallimento della liberazione -che potenzialmente produce molto disordine- non faccia scappare tutti a pigolare l’immediato bisogno di un qualsiasi –urgente ripristino dell’ordine-, difficile profondere tanto impegno e vedere sì scarsi risultati. Eppure ogni generazione è figlia della liberazione che gli ha lasciato in eredità la precedente, i nostri padri hanno fatto il loro dovere, noi sembra si sia da ascrivere alla tipica generazione fallita, altro che ’68.
Rimane però il fatto che il ragazzo del Cinquecento, vende ancora migliaia di copie nel Duemila e quindi l’enigma è lì, posto sul tavolo, irritante ma come molte cose disgustose, in fondo anche attraente, da indagare. E rimangono lì quel manipolo di pensanti che non si son dati per vinti ed hanno creduto, come molti altri continueranno a credere che una via di fuga dallo scandalo del dominio dell’uomo sull’uomo, c’è. Come diceva S. Beckett, si sbaglia, si sbaglia e si sbaglia ancora ma la prossima volta magari impareremo a sbagliare meglio.
0 = 0
[1] Dai grammatici ai retori, dai geometri ai matematici, dagli astrologi ai musici, dai logici ai fisici, dai moralisti ai dogmatici.
[2] Richard H. Popkin, Storia dello scetticismo, Bruno Mondadori, Milano, 2000-2008
[3] “Quelli di Israele” sono il chiaro esempio di una società che non avendo una terra, si strutturò interamente intorno ad una narrazione. Questa narrazione aveva il suo culmine in Dio-Uno ed aveva la casta dei sacerdoti come amministratori di sistema. Questo è l’esempio di una forma pura dell’Uno, non inverato in un re o in un apparato militare o economico o statale ma una forma di “siamo tutti sottomessi (forma poi ripresa da Muhammad nel perorare identico sistema per i frazionati e seminomadi arabi) ad un Uno superiore” che di per sé fa il sistema. Questo è l’Uno che ci fa tutt’uno.
[4] Oggi è di gran momento la “psicopolitica” e l’omonimo libricino di Byung-Chul Han (Nottetempo, Roma, 2016) non è estraneo al nucleo del Discorso. Altrettanto lo è la “microfisica del potere” di M. Foucault.
[5] Come altre volte scritto, questo modello funzionale, somiglia molto a quello delle monadi di Leibniz.
[6] Nello sport del canottaggio ad esempio, nel quattro con oppure otto con, il “con” sta per timoniere. Costui regge il timone ed assicura alla barca, quindi ai rematori, che si andrà per linea retta e detta i tempi della remata. La sua funzione è di servizio, i campioni sono certo i rematori anche se alla fine la medaglia la prende la squadra, quindi anche lui. Le società complesse, inizialmente, erano come quegli equipaggi, il “servizio” coordinava ed anche quando comandava, lo faceva per “servizio”, invitato dai comandati per coordinarsi. Nelle moderne navi complesse a più ponti e funzioni, il comandante che dà rotta e tempi eredita la tradizione ma in forma di gerarchia fissa e plenipotenziaria. La metafora della nave, venne largamente usata in antichità in sostituzione della società e delle sue forme di conduzione politica, si veda.: Giuseppe Cambiano, Come nave in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele, Laterza, Roma-Bari, 2016.
[7] Il riferimento è al cosiddetto “Dialogo dei persiani” nelle Storie (Libro III 80-82), la prima presenza di quello che poi si chiamerà logos tripolitikòs (monarchia, oligarchia, democrazia).
[8] A. Sen, La democrazia degli altri, Mondadori, Milano, 2004
[9] E’ un po’ come nelle diete. Improvvisamente, quando il grasso lentamente accumulato non ci fa più piegare per allacciarci le scarpe insorgiamo “Questo invasore del mio corpo va cacciato, immediatamente!”. Ci si impone allora un radicale processo che in una settimana dovrà risolvere quello che s’è prodotto in anni, ovviamente, con risultati nulli. Per disfare processi di anni, ci vogliono anni.
[10] Qui scegliamo di non approfondire l’argomento che invece è proprio quello che implicitamente ci invitava a fare il giovane francese ma in breve possiamo dire due cose: 1) ogni gruppo sociale ha bisogno di una forma d’ordine per funzionare. Criticare la gerarchia non produce alcun superamento se non pone una alternativa d’ordine, altrettanto o poco meno funzionale se si preferisce il “più giusto” ma sarebbe meglio altrettanto se non più funzionale oltre che più giusto; 2) il fatto che il ricorso alla forma d’ordine gerarchico sia “più facile” dice che l’alternativa sarà “più difficile”. Questo imporrebbe indagine di queste difficoltà e ricerca di dove operare per superarle. Mi riferisco al fatto che l’elenco dei punti in cui agire socialmente, culturalmente e politicamente per costruire una società-sfera in grado di auto organizzarsi permanentemente è vasto e complicato. Questo stona con la tradizione del pensiero del cambiamento sociale e politico che nelle utopie ha promosso disegni finali che nessuno sa mai come raggiungere e con le rivoluzioni ha immaginato possa esserci qualche levetta che debitamente spinta, -oplà- mette sotto-sopra un impianto complesso.
Nessun commento:
Posta un commento