lez.2): https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina-e Breve testo: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/08/la-colono-evangelizzazione-dellamerica.html
lez.3): https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina-e Breve testo: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/le-trasformazioni-dellamerica-latina.html
Ultima lez. solo testo: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/10/la-protestantizzazione-dellamerica.html
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Le scienze sociali, di cui fa parte l'antropologia, costituiscono un tutt'uno e sono assimilate dalle diverse prospettive teoriche scelte dai vari ricercatori.
Quest’anno
per la prima volta ho fatto un corso dedicato
alla “Storia religiosa dell’America Latina e del Caribe” per
l’Università Popolare A. Gramsci, distinguendo queste due aree
perché gli studiosi caraibici sostengono che quest’ultimo è
dotato di una serie di specificità culturali, che impediscono di
assimilarlo tout
court al
subcontinente meridionale.
Giacché
il mio pubblico non aveva approfondite conoscenze dell’antropologia
culturale, scienza a cui sono ufficialmente associata, mi sono
soffermata sul mio modo di considerare questa disciplina, un tempo
alquanto alla moda, ma oggi certamente in decadenza soprattutto per
mancanza di sbocchi lavorativi, in ciò accomunata a tutte le
discipline umanistiche. Infatti, come è noto, il
settore pubblico, in particolare ma non solo quello legato ai musei,
alle sovrintendenze, alla ricerca, agli archivi ha subito
ridimensionamenti e tagli mostruosi, per
un paese che dovrebbe trovare nel turismo di
alta qualità il suo
“petrolio”,
così ha almeno detto un noto cialtrone.
Se
si prende come punto di partenza i manuali dedicati all’antropologia
culturale e/o sociale, non sempre coincidenti anche perché
appartengono a diverse tradizioni nazionali, si scopre che tali
discipline hanno come obiettivo lo studio delle differenze tra le
varie forme di vita sociali esistenti ed esistite e, al contempo,
l’individuazione degli elementi comuni tra di esse sia a livello di
strutturazione sociale che di configurazione mentale degli esseri
umani. In quest’ultimo caso l’antropologia culturale si trova a
stretto contatto con la psicoanalisi, la psicologia cognitiva, le
neuroscienze.
Nonostante
l’esistenza di questi obiettivi simili, sempre sfogliando i manuali
e approfondendo le varie correnti – a parte la mitica “ricerca
sul campo” con la relativa “osservazione partecipante” – ci
si rende ben presto conto che non esiste un metodo unitario né un
oggetto precisamente definito che accomunino coloro che si
definiscono antropologi. Basti pensare che negli anni ’50 del
Novecento di due studiosi statunitensi che hanno dedicato un libro al
concetto di cultura, al centro dell’antropologia culturalista
statunitense e ispirato alla nozione proposta nel 1871 dallo studioso
vittoriano Edward Burnett Tylor nel suo celebre libro Primitive
Culture, identificarono
più di centocinquanta definizioni di tale nozione. Alla
quale ovviamente corrispondevano metodologie interpretative diverse.
A
mio parere la definizione tyloriana di cultura non introduce nulla di
così straordinariamente innovativo, dato che egli scrive: “La
cultura o la civiltà, prese in un ampio significato etnografico,
costituisce quel complesso, che include le conoscenze, le credenze,
le arti, la morale, il diritto, le usanze ed ogni altra abilità e
abitudine acquisite dall’individuo in quanto membro di un gruppo
sociale” (trad. mia). Sarò riduttiva, ma vedo in tali parole
un’estensione dell’idea aristotelica che l’uomo è un animale
politico, e che quindi esiste solo in quanto appartiene a un’entità
politico-sociale, da cui apprende a conoscere e a comportarsi.
Queste
considerazioni, a cui si accompagna – sempre al livello dei manuali
- la scoperta che l’antropologia è caratterizzata dalla presenza,
spesso conflittuale, di correnti assai disparate tra loro, che per di
più si palesano anche nelle altre scienze sociali, rende la
questione ancora più complicata. Tanto per fare un esempio, se
esiste una storia particolarista ed individuante, che si contrappone
ad una storia generalizzante e nomotetica, lo stesso identico
conflitto sarà riscontrabile in ambito antropologico. Come, del
resto, il marxismo, con le sue diverse sfumature, percorre tutto il
campo delle scienze storico-sociali, compresa la psicologia e la
linguistica.
A
ciò – a mio parere – bisogna aggiungere un altro aspetto: non
dobbiamo assolutamente confondere l’organizzazione delle discipline
per l’insegnamento universitario con lo sviluppo di una ricerca,
perché la prima di fatto non corrisponde a come si conduce in
concreto quest’ultima, la quale dovrà servirsi di diversi
strumenti interpretativi, frantumando così le barriere tra le
diverse scienze sociali. Se il mio ragionamento ha un senso, ciò che
effettivamente esiste sono le scienze sociali, che sono traversate da
differenti prospettive metodologiche, ma ognuna non sostanzialmente
differente da quella analoga presente in un altro ambito
disciplinare, e questa caratteristica le accomuna. Dalla mia
prospettiva, dunque, l’antropologia non esiste, esistono le scienze
sociali, che sono caratterizzate dall’essere espressione di modi
diversi di comprendere e interpretare il comportamento umano e la
vita sociale.
Il
marxismo ha rappresentato e rappresenta una di queste tendenze nelle
scienze sociali e ha visto rifiorire la sua influenza in Occidente
negli anni ’70, quando uscì l’antologia, curata da Maurice
Godelier, degli scritti di Marx, Engels, Lenin Sulle
Società precapitalistiche;
influenza oscurata a partire dagli anni ’80, quando soprattutto
nello studio delle società extra-occidentali si afferma il
postmodernismo, che mette in crisi la stessa nozione di scienza e
trasforma la ricerca etnografica in un’esperienza psicologica ed
esistenziale dell’antropologo. Tale trasformazione aveva le sue
basi nell’antropologia culturalista, il cui scopo era quello di
rompere la relazione tra dimensione oggettiva e le altre istanze
sociali, facendo delle concezioni del mondo l’oggetto privilegiato
di indagine e accantonando il problema delle relazioni di potere
dissolto nel tema delle differenze culturali.
D’altra
parte, l’antropologia culturale statunitense, introdotta in Italia
negli anni ’70, non si è limitata a studiare le società
extra-occidentali, cimentandosi in ricerche di tipo olistico su
piccole città, istituzioni proprie della società occidentale,
considerate omogenee dal punto di vista culturale. Mi limito a citare
il classico Middletown di
R. e H. Lynd uscito nel 1929.
Accanto
all’antropologia culturale, nel frattempo nelle isole britanniche
si sviluppava l’antropologia sociale che metteva l’accento
sull’insieme delle relazioni e sul modo di funzionare delle diverse
istituzioni per innescare la riproduzione del sistema sociale.
L’opera del sociologo Émile Durkheim costituiva l’elemento
propulsore di questa tendenza antropologica, la quale metteva
l’accento sul legame tra funzionamento della vita sociale e insieme
delle pratiche e delle credenze in genere di carattere
magico-religioso. Tale tendenza rifiutava, tuttavia, la dimensione
storica, data la mancanza nelle società illetterate di fonti
storiche, e quindi proponeva un approccio di tipo sincronico.
Inoltre, come d’altra parte l’antropologia culturale, mostrava la
sua preferenza per la società/cultura presa come un tutto coeso e
separato dal resto del mondo, nonostante il processo di
colonizzazione avesse già stravolti molti continenti, spesso con la
collaborazione degli stessi antropologi [1]. Questi ultimi, in
particolare, dettero vita all’antropologia applicata, una sorta di
ingegneria sociale che rendeva più agevole l’introduzione di
misure innovative dovute alla penetrazione capitalistica (lavoro
salariato, tasse, denaro, proprietà privata).
Al
contempo, l’antropologia culturale e quella sociale si svilupparono
ulteriormente, in seguito alla commistione con altre discipline come
la linguistica, la psicologia cognitiva, l’ecologia, dando vita ad
una nuova serie di correnti di cui qui non posso dare conto.
Quanto
all’Unione Sovietica, nell’epoca staliniana furono chiuse la
Facoltà di Etnologia di Mosca e la cattedra di Etnografia di
Leningrado, perché si consideravano tali scienze, insieme alla
sociologia, scienze borghesi rese inutili dall’impiego
del marxismo.
Per un certo periodo, dunque, l’antropologia sovietica si
caratterizzò per una serie di studi di carattere folclorico,
dedicati alla cultura popolare e alle differenze etniche tra le
popolazioni sovietiche. Accanto a queste ricerche si sviluppò il
formalismo di V. Propp, conosciuto anche da noi, e la semiotica della
cultura.
Chiusa
la fase staliniana, le ricerche sulle formazioni sociali
precapitalistiche ripresero come documenta il libro dello studioso
sovietico S. A. Tokarev (Historia
de la Etnografía,
1978), dal quale si ricava anche che egli domina a fondo la storia
dell’antropologia occidentale.
Un
aspetto di questo rilancio fu la pubblicazione del manoscritto
dei Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica a
Mosca nel 1939 e a Berlino nel 1953. Tale scritto, frutto di 15 anni
di ricerche appassionate di Marx, contiene il testo Forme
economiche precapitalistiche,
in cui appare una lettura non unilineare dell’evoluzione storica,
assai diversa dalla “necessaria successione di cinque stadi
caratterizzati da cinque tipi fondamentali di rapporti di produzione,
il comunismo primitivo, i modi di produzione schiavistico, feudale,
capitalistico, socialista” (Godelier p. 10). Visione assai cara
al determinismo
stalinista,
che anche a causa di una scelta di Engels, aveva messo tra parentesi
il modo di produzione asiatico, identificato con il dispotismo
orientale, riscontrabile anche in alcune civiltà precolombiane [2].
Come
si ricava dalla nota [2], stabilito che il marxismo rifiuta ogni
forma di lettura riduzionistica della storia ed è aperto ad una
visione multilineare di essa, vorrei aggiungere che si pone come
obiettivo anche quello di riconnettere
cultura e dimensione economico-sociale;
legame come si è visto spezzato soprattutto dall’antropologia
culturale. Su questo tema mi limito a citare le parole di un marxista
britannico, Raymond Williams, il quale scrive: “Una teoria marxista
della cultura riconoscerà la diversità e la complessità, terrà
conto della continuità all’interno del cambiamento, ammetterà il
caso e certe limitate autonomie, ma, con queste riserve, considererà
i fatti della struttura economica e le conseguenti relazioni sociali
come il filo
conduttore su
cui si tesse una cultura, e seguendo il quale una cultura deve essere
compresa” (Cultura
e rivoluzione industriale,
1968: 319).
Concludendo,
a questo punto mi sembra opportuno precisare, se si accetta il mio
punto di vista, che l’antropologia, la storia, la sociologia sono
assimilate dalle diverse prospettive teoriche scelte dai vari
ricercatori, i quali devono però aver acquisito una certa competenza
relativa all’area geografica, storica e politica da studiare. Ossia
apprendere la lingua, la storia, la letteratura legata al fenomeno
storico-sociale che si intende indagare. Le diverse prospettive
teoriche, legate all’uso di differenti metodologie, sono collegate
alle tendenze che traversano le scienze sociali nel loro complesso,
le quali in questo senso sono indistinguibili. Inoltre, bisogna anche
riconoscere che la ricerca sul campo non è una scoperta meramente
antropologica. Si pensi, per esempio, al bellissimo lavoro di Emil
Rasmussen su Davide Lazzaretti (Un
Cristo dei nostri giorni,
pubblicato nel 1904), frutto di un lungo soggiorno dello studioso
danese nella comunità fondata dal profeta dell’Amiata.
Note
[1]
Un significativo studio di questi processi si trova nel libro di Eric
Wolf L’Europa
e i popoli senza storia (1982),
in cui si mostra come il mondo sia interconnesso dalle scoperte
geografiche, e come storia, antropologia, economia etc. costituiscono
un tutt’uno.
[2]
La presenza del modo di produzione asiatico consente di mostrare che
Marx e Engels non avevano una visione unilineare della storia, come
del resto si ricava dal rifiuto del primo di “metamorfosare il mio
schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una
teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta
a tutti i
popoli, in qualunque situazione essi si trovino…La chiave di questi
fenomeni sarà facilmente trovata studiandoli separatamene uno per
uno e poi mettendoli a confronto; non ci si arriverà mai con
il passe-partout della
filosofia della storia, la cui virtù suprema è di essere
soprastorica”
(http://www.marxismo.net/teoria/prefazione_riv_perm.html).
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