Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/dalla-parola-alla-verita-scritta-carlo.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/uomo-la-passione-della-verita-carlo-sini.html
Ciò che dobbiamo fare è un itinerario complesso. Sono sette passi entro l’enigma del
denaro. Non sono io che parlo di enigma del denaro, lo hanno detto in molti, in
particolare uno studioso che si è formato alla Bocconi, che ha scritto un bel libro,
L’enigma del denaro.
Io cercherò di accennare con poche battute iniziali perché L’enigma del denaro sia
l’enigma dell’uomo, ricordando che una domanda del genere se la faceva, per esempio,
Adam Smith.
C’è un passo molto bello tra le prime pagine del suo capolavoro, in cui Smith si chiede
da dove venga l’istinto o la spinta umana a scambiare. Noi siamo degli scambisti e
continuamente scambiamo. Smith si chiede da dove venga questa caratteristica, che è
propria di tutte le culture e di tutte le umanità. Smith, dopo aver detto che tra gli
animali non si trova niente del genere, fa un’ipotesi, svolge un ragionamento e dice:
“Probabilmente l’istinto dello scambio nasce dal linguaggio”. L’uomo è un animale che
parla e che, come diceva Aristotele, possiede il linguaggio. Il linguaggio è il segreto del
segreto, diciamo così, o l’enigma dell’enigma. Perché? Provo a spiegarlo in due battute
perché è un tema immenso, accontentiamoci di un orientamento. Con l’uomo comincia il
mondo del segno. Gli animali non hanno veri e propri segni. Gli animali non hanno
nemmeno il mondo, sono il mondo. Questo non significa che non ci sia una forma di
baratto tra gli animali. Abbiamo esempi molto interessanti e molto curiosi di certe
specie di uccelli, dove il maschio porta del cibo alla femmina per convincerla alla
copulazione. Oppure dove il maschio prepara il nido affinché la femmina si decida a
unirsi con lui, però non dispone di segni, dispone di baratto. Ti do questo in cambio di
quello. È una storia antica. Di segni però, intesi come cose che stanno per un’altra cosa
che la rappresentano, non ce ne sono. Prendiamo ad esempio la parola. La parola è un
segno che non sta per se stesso, sta per un’altra cosa. Arriviamo subito nel cuore: il
denaro. Non è così anche per il denaro? Non si scambia il denaro con ogni cosa? Non è il
denaro il segno di qualsivoglia oggetto di scambio? Dobbiamo partire da qui, per dire
qualche cosa di questo segreto del denaro o enigma del denaro come segreto
dell’uomo.
Il nostro compito è rispondere a una domanda che si potrebbe formulare in questo
modo, pensando a come è stato introdotto questo ciclo di incontri: che cosa è il denaro,
in verità? Come il linguaggio. E cioè? Per rispondere a questa domanda vi propongo
sette passi, sette passaggi e mi dovrò controllare per stare dentro a questo percorso,
perché quello che mi sembra importante è l’intero del percorso che dà alcune
prospettive secondo me utili, spiega molte cose della nostra esperienza attuale. Quindi
che cosa è il denaro in verità? Partirò molto indietro.
Questo non è l’unico punto di partenza possibile, però è un punto di partenza che è
molto caratterizzante la storia dell’Occidente. Lasciamo stare l’Oriente che è sempre un
altro mondo.
Comincerò dalla civiltà babilonese, 3500 anni a.C. Qui siamo di fronte -
originariamente - a una società che gli studiosi hanno definito molto bene “società del
dono”. Questo è il primo passo. E qui mi devo affrettare; la società del dono esigerebbe
da sola un intero ciclo di lezioni. Dobbiamo dire in fretta che cos’è la società del dono,
per poi capire noi, che non siamo più in questa società da tempo immemorabile, ma
siamo nella società dello scambio. Non che il dono non abbia mantenuto una sua
pregnanza nella nostra vita di tutti i giorni, ma è ai margini, non è la fondazione della
nostra vita sociale. Nella società del dono si vive in una società sacrale, in una società
che considera tutto ciò che favorisce, protegge e che incrementa la vita degli esseri
umani, che combatte la morte, che garantisce la discendenza, che garantisce la
continuità del gruppo umano o, come noi diremmo modernamente, della specie umana.
All’inizio si tratta del gruppo, il mio gruppo, noi cinquanta. Centomila anni fa i gruppi
umani erano dai venti ai cinquanta individui. Essi erano, però, già umani, nel senso che
vivevano la vita come il dono degli dei. Come sappiamo tutti, la vita è un dono. È un
segno della benevolenza divina. In questa società, sostanzialmente, tutte le cose che
favoriscono la vita sono dono e al dono bisogna corrispondere naturalmente, al dono
bisogna restituire, rispondere. La grande risposta che c’è ancora nelle nostre società è il
sacrificio. Noi non sacrifichiamo più agnelli o tori, ma il sacrificio dell’eucarestia nella
Chiesa cristiana è ancora la memoria di una società del dono. In Mesopotamia - sulla
base della società del dono - dove si costruirono le prime città, i primi agglomerati
urbani, si stabilì una sorta di economia del palazzo o economia del tempio. Il tempio era
governato dal sovrano, incarnazione in terra del dio, e amministrato dai sacerdoti, il
ponte tra il cielo e la terra. In questa economia tutta la terra era dono degli dei. La terra,
nell’economia babilonese-arcaica era sacra, era la madre terra ed era inalienabile, non si
poteva vendere e comprare; sarebbe stato come vendere e comprare la vita e questo era
inconcepibile. La terra veniva data in usufrutto ai contadini, alla popolazione più umile.
E i contadini ricevevano dal tempio, in una sorta di dono, le sementi, gli strumenti, i
lavori che irrigavano i campi, la difesa dai predoni. Il tempio diventava l’amministratore
di questo passaggio dal dio al lavoro dei contadini, alla terra, al frutto della terra che in
parte i contadini dovevano restituire al tempio. Perché ogni giorno i sacerdoti
restituivano al dio, sacrificando nel nome del dio e implorando la continuità del dono
della vita. Questa organizzazione, chiamiamola così, funzionò molto bene e cominciò a
dare luogo a una popolazione fertile, feconda e, nei suoi tempi, anche ricca. C’era molto
da mettere da parte. Nel tempio, nel palazzo, sotto l’amministrazione dei sacerdoti, si
potevano raccogliere beni che servivano per garantirsi la vita futura.
A un certo punto, questo tipo di scambio (questo circolo: io ti do il dono della terra,
attraverso di me lo ricevi dal dio, tu mi porti una parte di frutti della terra con i quali io
sacrifico al dio) divenne così complicato che gli esseri umani fecero una delle più grandi
invenzioni di tutta la loro storia. Invenzione che si chiama scrittura. Iniziarono a
circolare le famose tavolette di argilla cotta, sulle quali venivano registrati i debiti.
Cominciò un’amministrazione che all’inizio era, se posso usare questa parola, innocente:
“io ti ho dato questo. Tu in questo tempo, nel mese tal dei tali, mi restituirai quest’altro”.
Era semplicemente una migliore organizzazione, un ricordo scritto. Questa registrazione
del debito innescò un fenomeno strepitoso di cui certamente i primi inventori non
ebbero minimamente idea. E lo dico subito, in tre parole, quale fenomeno innescò
perché lo abbiamo ancora con noi: il fenomeno della burocrazia, il fenomeno del denaro
e il fenomeno del tempo lineare (tempo lineare perché sulla tavoletta c’era scritto: “Il
giorno tale del mese tale tu tornerai, restituirai e porterai”). Quello che accadde fu
straordinario. Certamente incrementò moltissimo la produzione e la razionalizzò, ma
stabilì una spaccatura dalla quale non siamo mai più usciti. Una spaccatura drammatica,
perché quello che era registrato sulla tavoletta era la vita del contadino, presa sotto un
profilo di debito pubblico. Mentre della sua vita personale la tavoletta non faceva
cenno. È la prima spaccatura tra la vita privata, gli affari tuoi e la risposta pubblica, la
responsabilità pubblica. “C’è stata una cattiva annata, mi sono ammalato, i miei figli sono
morti”: sulla tavoletta non c’è scritto. Sulla tavoletta tu sei un nome ana-grafico ed è di
quello che tu rispondi. Naturalmente questo sistema, con l’andare del tempo, nel giro di
cinquecento anni - si è calcolato tra il 3000 a.C. e il 2500 a.C. - cominciò a produrre i suoi
effetti negativi. L’amministrazione era fiorente, ma i contadini, sempre di più, cadevano
sotto il peso della fatalità, della disgrazia, della morte. E siccome non c’era altro da
restituire, gli veniva donata la vita eterna. Con che cosa potevano restituire? Con la loro
vita. Diventavano schiavi. Non potevano che diventare schiavi dei sacerdoti e i
sacerdoti, un po’ alla volta e amministrando molto abilmente queste tavolette, dov’era
registrato il debito pubblico, diventarono - lo dice un grande studioso che si chiama
Bulgarelli - la prima figura di banchiere della storia.
I sacerdoti erano amministratori del sacro e divennero amministratori del debito e
accumulatori di beni. La società babilonese, che era così fiorente, iniziò a declinare: i
contadini scappavano dalle terre per non diventare schiavi; quelli che diventavano
schiavi lavoravano male perché gli schiavi lavorano male, perché lavorano per un altro.
Allora i sovrani pensarono uno stratagemma importantissimo che, come vedremo, avrà
una funzione precisa nel nostro percorso. Inventarono quella che si chiama la rottura
delle tavolette. Tutte le volte che un sovrano veniva nominato tale, veniva innalzato al
regno, come gesto di favore verso il suo popolo ordinava la rottura di tutte le tavolette
del debito: si azzeravano i debiti, si ricominciava da capo e indubbiamente questo
espediente per un po’ funzionò. Dal 2100 a.C fino al 1800 più o meno funzionò. Che cosa
lo fece precipitare nel nulla? Anche Solone in Grecia fece qualcosa del genere - lo dico
tra parentesi. Azzeriamo i debiti, ogni tanto è necessario azzerare i debiti. Noi non ce la
facciamo. Nel nostro tempo non ce la facciamo ad azzerare i debiti del Terzo mondo. A
quel tempo lo si faceva. Verso il 1600, però, non si videro più rotture delle tavolette, in
quanto i sacerdoti, divenuti molto potenti, più potenti del sovrano, inventarono un
escamotage straordinario, inventarono tavolette sulle quali era scritto: “Questo debito
non è revocabile”. E così i sovrani si trovarono disarmati. Niente più rotture delle
tavolette, declino demografico, declino economico, una storia che non possiamo seguire
nei suoi particolari, ma interessa questa idea: c’è un debito, ma c’è un’autorità sovrana
che in qualche modo lo tiene a bada.
Siamo al terzo passo, siamo passati da una società del dono a una società dello scambio
e da una società dello scambio adesso entreremo nella società della moneta
immaginaria.
L’invenzione della moneta immaginaria al tempo di Carlo Magno, ossia nell’800 d.C..
Si
tratta di un’istituzione che è durata mille anni, anche se, a onore del vero, verso la fine
del 600 del XVII secolo era già gravemente in crisi, come vedremo. Durò formalmente
sino a Napoleone (si va da Carlo Magno fino a Napoleone, il quale la abolì
definitivamente). Che cos’è la moneta immaginaria, o anche, come si suole dire, la lira
carolingia? È una moneta che non esiste. È una moneta irreale. Per noi la moneta è una
cosa. Allora si distingueva ancora tra due elementi che poi si sono infaustamente per
certi aspetti fusi. Si distingueva tra il denaro come unità di conto/unità di misura -
Quanto vale questa moneta, quanto vale questo denaro particolare? - e il denaro che
circolava in maniera empirica. Ora è chiaro che c’erano denari di ogni genere che
circolavano per l’Europa e la lira carolingia stabiliva l’unità di conto, cioè di nuovo era il
sovrano che interveniva e, guardando i debiti, guardando la situazione debitoria del
popolo, riequilibrava un po’ le cose. Stabiliva unità di conto favorevoli per i più deboli,
per i più poveri, per i debitori che non erano in grado di ottemperare all’impegno.
Facciamo un esempio dal Granducato della Toscana (molto tempo dopo, ma che ancora
si modella sulla moneta immaginaria carolingia): nel Granducato della Toscana noi
abbiamo il Fiorino, la moneta internazionale circolante, con i fiorini si scambiano i
prodotti, le merci, ciò che è fuori della Toscana. All’interno della Toscana c’è il quattrino,
la moneta circolante dentro il Granducato della Toscana. Ma cosa vale un fiorino rispetto
a un quattrino? Vi stupirà questo, perché oggi siamo in tutt’altro sistema: lo stabilisce il
Granduca quanto vale e lo stabilisce sulla base della lira, della lira ancora carolingia,
dell’idea carolingia di un’unità di misura che lì si chiama la lira del Granduca. Non è che
ci sia la lira del Granduca, è il Granduca che si siede di fronte ai contraenti e dice: “Va
bene, l’unità di misura, per misurare il rapporto, è questa”. Naturalmente viene di volta in
volta cambiata, mutata. Tenete presente che in questa società non esiste per nulla
mercato del credito, non si compra non si vende la moneta. Non si presta a usura. Tutto
il Medioevo, come sappiamo, è contrario all’usura e la condanna. Condanna l’usura, non
la considera legittima, lecita.
Passiamo a un quarto passaggio: la lettera di cambio. Gli esseri umani sono inventivi e
geniali. Intorno al XIII secolo l’intensità degli scambi, la rinascita dell’Europa dopo il
Mille, le attività dei mercanti che andavano dall’Oriente all’Occidente e le navigazioni -
attraverso le invenzioni tecniche come la bussola e il sestante - avevano consentito una
trasmissione che prima era inimmaginabile. In questo mondo di grande impulso
economico, commerciale, di ricchezza delle prime grandi città - l’Italia è il centro di
questo fenomeno - i banchieri fiorentini, soprattutto loro, inventarono la lettera di
cambio. Se traducessimo questo termine come lo diremmo oggi parleremmo di
cambiale. La lettera di cambio non è altro che la cambiale. Vale a dire un mezzo
cartaceo - ecco che comincia ad apparire la carta - che sostituisce momentaneamente il
pagamento del debito. Perché? La ragione è molto chiara. Perché il mercante che
compra i prodotti e li trasporta in un altro luogo e li rivende ha bisogno, ovviamente, di
un prestito. Ha bisogno di un denaro di partenza. Quando avrà venduto e avrà ricavato
l’utile giusto che ne deve ricavare, sarà in grado di restituire quello che gli è stato
prestato.
Il pegno tra questi due momenti - ottengo e restituisco - è appunto la lettera di cambio o
la cambiale. Salvo che bisogna guardare bene come funziona la lettera di cambio
nell’ottica della professione del banchiere fiorentino e non solo fiorentino di quel
tempo. Il pagamento avverrà a tre mesi, nelle grandi fiere, appositamente istituite nel
Medioevo per regolare i conti dei mercanti, degli acquirenti e dei venditori. Più di tutte,
famosa in tutto il mondo è la Fiera di Lione. La Fiera di Lione stabilisce che coloro che
hanno preso a prestito ora devono restituire, ma in che misura? Qui ancora vedete la
forza, la rottura delle tavolette, la moneta immaginaria. Si restituisce sulla base di
un’unità di conto che viene chiamata moneta di fiera. La moneta di fiera è una moneta
immaginaria. È una moneta che dice: tanti fiorini è uguale a tanti baiocchi, tanti baiocchi
è uguale a tanti quattrini.
L’equiparazione del debito e del credito, cioè la chiusura dei conti che ogni tre mesi è
obbligo fare nelle grandi fiere internazionali, è stabilita dalla comunità dei
commercianti stessa, dalla comunità dei mercanti, nell’interesse comune. Talvolta è il
sovrano, ma talvolta è proprio la comunità dei mercanti, che accetta di ottenere di meno
a favore della continuità dello scambio, a favore della vitalità dello scambio, secondo il
principio della moneta immaginaria: facciamo tornare i conti senza rovinare nessuno,
possibilmente. Facciamo tornare i conti, lasciando vivere la vitalità dello scambio,
l’iniziativa del singolo mercante, del suo lavoro, della sua attività. Ma la cosa più
importante da ricordare non è solo questa insistente presenza della rottura delle
tavolette, della moneta immaginaria, cioè di un’unità di conto che volta per volta viene
stabilita, per sapere poi qual è il debito che davvero si tratta di saldare. Tutto questo
ormai ci è chiaro, ma c’è un’altra cosa importantissima: tutti si presentano con la loro
cambiale. Una volta sanato il debito, la carta si distrugge, serve soltanto per quel
passaggio, serve soltanto come garanzia di quei tre mesi, come garanzia che tutto sarà
ricomposto in armonia.
Su questa base l’economia moderna prende grande rilievo:
riflettiamo soprattutto sulle grandi iniziative degli olandesi e sulla Borsa di Amsterdam
che poi diventerà la Borsa di Londra. Già qui cominciamo a vedere che le cose stanno
molto cambiando rispetto all’antichità. C’è ancora una moneta immaginaria, c’è ancora
una netta separazione tra la moneta come unità di conto e la moneta come liquidità -
denaro che circola per comprare e vendere le cose. Il tutto però è stabilito non più dal
sovrano o, comunque, sempre meno dal sovrano, cioè da un padre provvido - come
veniva rappresentato nella retorica del tempo - che è preoccupato per il bene dei suoi
figli - che sarebbero poi il suo popolo - ma sulla base di una scrittura di conto, di una
matematica favorevole, di una matematica che non ha come finalità il dono. Badate, non
è più un dono. Il dono è completamente impallidito, è scomparso, è diventato un fatto
privato. Io non ho un debito verso il latte materno. E privatamente è ancora così. Come
mondo pubblico il dono non c’è più; ci sono il calcolo, la partita doppia - inventata
dall’italiano Luca Pacioli - la matematica e la scrittura matematica che, sulla base della
convenienza comune - non della restituzione del dono, della sacralità della vita,
dell’interesse comune di tutti coloro che partecipano della vita economica, comunitaria
e internazionale - si ripartiscono nel modo più armonioso possibile i debiti e i crediti. Voi
capite che non si sa più, non è più importante a chi si deve che cosa. Non è più il dio,
non è più il sovrano, è l’altro mercante. Spesso non ci sono rapporti personali, spesso i
rapporti si sono completamente spersonalizzati. È un debito generico verso esseri umani
generici, in quanto titolari di una carta di credito.
A questo punto il passo decisivo
bisogna dire che viene compiuto - questo è abbastanza storicamente certo e fondato -
dai genovesi. I genovesi si sono fatti una brutta fama fino a oggi. Adesso non bisogna
dipingere le cose in negativo, i genovesi sono geniali e innescano tutta una serie di
conseguenze, di cui noi qui sottolineiamo solamente l’aspetto negativo. Ma attenzione
però, perché ci sono anche quelli positivi. Solo che noi stiamo vivendo un momento
difficile, quindi ci interessa capire gli aspetti negativi da dove hanno avuto origine, di
che natura sono e che cosa è diventato in verità il denaro.
Con i genovesi ci fu un passaggio decisivo e straordinario. I genovesi sono stati cacciati
da Lione. Sono stati cacciati da Lione perché, evidentemente, non rispettavano le regole
comuni e tendevano a un certo egoismo economico e finanziario. I mercanti genovesi,
naturalmente facendosi forti del Ducato Genovese - questa grande repubblica che aveva
nei mari ormai un privilegio, una presenza che si estendeva fino all’Oriente - lasciano
Lione - cacciati da Lione - e si inventano un altro luogo, un’altra fiera di cambio che
chiamano di Fiera di Bisenzone.
A Bisenzone i mercanti genovesi inventano una cosa straordinaria: per la prima volta noi
abbiamo un mercato senza merci. Per la prima volta abbiamo un mercato allo stato
puro, del denaro puro. Che cosa fanno questi mercanti genovesi? Fanno incetta di quelle
lettere di cambio di cui abbiamo parlato prima, ma si guardano bene dal distruggerle.
Non c’è la rottura delle tavolette, non c’è la distruzione della carta. Anzi, questa carta
viene rinviata di fiera in fiera. In queste fiere si presta la carta ai grandi imperi, ai grandi
stati, sta nascendo lo Stato moderno. In maniera precisa e specifica i prestiti vanno in
direzione della Spagna (Filippo II). La Spagna è il luogo del fiume d’argento, del fiume
d’oro che viene dalle Americhe. Sulla base di questo fiume d’oro e d’argento, la Spagna
concepisce la prima visione di un impero europeo moderno, sotto la sua potestà.
Naturalmente ha estremamente bisogno di prestiti. I prestiti avvengono con questa
carta che non ha più un corrispettivo in nessuna unità di conto, ma che è data, - questo è
un passaggio fondamentale - la carta è data direttamente al posto del metallo. È ancora
quella che abbiamo qui nel portafoglio. Ma in realtà, non è proprio così. Nessuno sa più
niente dell’unità di conto antica, nessuno sa più niente della moneta immaginaria,
nessuno si ricorda certamente della rottura delle tavolette. Noi pensiamo che questo
pezzo di carta ha l’equivalente in una moneta. L’hanno inventato i genovesi questo
sistema. Ma questo sistema si articolava in tre momenti fondamentali (poi i Genovesi
sono stati imitati da molti altri): Siviglia, dove arrivava l’oro e l’argento; Genova, che
emetteva questa carta, questo credito cartaceo; Anversa: dove si chiudevano i conti o
almeno dove si sarebbero dovuti chiudere i conti. Ma i genovesi non avevano nessun
interesse a chiudere i conti. Perché i genovesi avevano escogitato quello che tutti gli
economisti saprebbero descrivere meglio di me, ossia il tasso d’interesse: io ti presto a
Siviglia e tu restituisci, attraverso Genova, ad Anversa. Tra qui e qua restituisci un po’ di
più, semplicemente perché c’è del tempo, il tempo è denaro. C’è del tempo che passa, c’è
un rischio. Il rischio è dettato dal fatto che non c’è più nessuna autorità che mi
garantisca che mi salvi attraverso la moneta immaginaria. Qui c’è un rischio reale. Io ti do
della carta, con questa carta tu puoi fare delle operazioni e acquisire dell’oro ma poi
dopo tu me ne dai di più, perché io ho rischiato.
In sostanza questo sistema del tasso di interesse era un’usura mascherata. Non è un
caso che il Papa condannò i genovesi, dicendo che stavano esercitando una forma di
usura. Il denaro di carta genovese, il famoso asiento, è sostanzialmente qualche cosa che
non ha più niente a che fare con la moneta immaginaria, non ha più nulla a che fare con
la cambiale che poi si distrugge dopo tre mesi. Succede una cosa inaudita, per noi è
ovvia. (Una cosa bella dell’andare indietro nel tempo è quella di scoprire come siano
diventate ovvie le cose per noi, quando non lo erano).
Qual è dunque la cosa incredibile che i genovesi hanno fatto nascere con questa
operazione? Una cosa così ovvia, che il denaro produce denaro. Per la prima volta nella
storia umana il denaro figlia, fa figli. Questo non era mai accaduto prima se non in forme
molto private e condannate dell’usura, ma appunto erano piccole cose. Qui diventa una
cosa pubblica, universale. Il denaro c’è proprio perché, quel denaro, l’asiento, la carta, il
pagherò della moneta della monarchia di Spagna, produce denaro. Come lo produce? Lo
produce perché, avendo ancorato la carta al metallo e, avendo stabilito che, se io ti
presto del metallo, e tu sottoscrivi con l’asiento questo prestito, dopo, quando vorrai
chiudere i conti e dovrai darmi più metallo, evidentemente con questa lettera di
cambio, questo asiento, non abbiamo nessun interesse a esigere subito, poiché la
differenza è tra quando ti do e quando restituisci. La temporalità diventa il cuore del
denaro per cui più tempo passa, più si alza il tasso d’interesse, io non ho nessun
interesse, in fondo, a essere pagato subito. Aspetto, rinvio, per così dire, di Bisenzio in
Bisenzio, di Bisenzone in Bisenzone. A quel tempo tale pratica si chiamava la ricorsa. I
grandi mercanti genovesi e poi tutti gli altri che ne seguirono l’esempio, praticavano la
ricorsa. Praticavano la ricorsa sino al limite del rischio. E questo rischio ovviamente si
correva, perché bisognava essere sicuri che qualcuno prima o poi pagasse.
Quando avveniva il pagamento, si era guadagnato parecchio sulla base del denaro
originario. Io ti avevo dato cinquanta monete d’oro e tu me ne restituivi settantacinque o
molto di più.
Ecco che comincia questa nuova economia, assolutamente sconosciuta nel mondo
antico, assolutamente inconcepibile per una mentalità che è ancora sacrale che, diciamo
così, ancora ha il dono nello sfondo e che si è via via tradotta in un’economia umana, ma
che ancora non ha perso il senso della comunità, dell’interesse della comunità. Qui
l’unico interesse è l’interesse del denaro stesso, è l’interesse di questa carta. Non c’è
bisogno di dire che le cose non andarono bene per la Corona di Spagna. Come tutti
sappiamo, il primo esperimento di stato moderno finì in bancarotta. A un certo punto il
grande fiume di oro e di argento finì, sperperato dalla Moneta di Spagna, dal Regno di
Spagna e dalla sovranità spagnola che usò questi soldi per conquiste militari - per
esempio la Guerra nei Paesi Bassi - e non per incrementare nuove forme produttive.
Queste ultime, infatti, rimasero arretrate e arcaiche nella Spagna del tempo, come
sappiamo una società squilibrata, piena di denaro ma anche piena di debiti - più debiti
che denaro - ma anche povera di lavoro (il lavoro era ancora quello della società
contadina arcaica). Non c’era una borghesia efficiente o per meglio dire imprenditoriale
che riequilibrasse il problema di questi debiti.
Quindi, sostanzialmente, questo progetto
fallì, ma ispirò il passo successivo. E qui veniamo molto vicino a noi. La data è precisa:
1694. È la data della costituzione della prima Banca Centrale mondiale: la Banca del
Regno d’Inghilterra. Come nasce la Banca del Regno d’Inghilterra? Nasce dall’esperienza
della catastrofe spagnola. E nasce, se così si può dire, per evitare la bancarotta, per
costruire un pagherò di maggiore efficienza, di maggiore tenuta. Perché è evidente che il
sistema è squilibrato. Siccome la moneta figlia, il denaro figlia, continua a produrre un
tasso di interesse crescente, non ci saranno mai soldi sufficienti a saldare questo debito.
Inevitabilmente costituirà un motivo di catastrofe prima o poi e noi siamo oggi nel
prima o poi.
Allora l’idea è questa - se erano geniali i genovesi, anche i londinesi o gli inglesi non
scherzavano perché l’Inghilterra riesce là dove la Spagna aveva fallito - ed è l’inizio
della nostra storia più recente: prima c’era la triangolazione Siviglia-Genova-Anversa,
mentre qui la triangolazione diventa Stato-Banca Centrale-Mercati finanziari. Che cosa
succede raccontato in due parole? Un gruppo di finanzieri privati presta allo Stato una
certa cifra. Una cifra che ammonta grossomodo a 1,2 milioni di sterline e lo Stato si
impegna a pagare a questo gruppo finanziario l’8% annuo. L’accordo è per dodici anni.
Siamo nei tempi della grande filosofia inglese, Locke e Newton hanno avuto a che fare
con queste vicende. Ormai si erano superati i pregiudizi del dare a usura, del tasso
d’interesse, era diventato normale attraverso le pratiche genovesi, chiamiamole così per
fare in fretta.
Ma qui nasce una cosa completamente nuova: questa restituzione dopo
dodici anni non accadrà mai più. Il gruppo dei finanziatori dello Stato inglese, che sta
costruendo il suo impero con molta più efficacia della Spagna, costituisce la prima
Banca di Stato, la prima Banca d’Inghilterra. E che cosa fanno? Fanno una cosa
incredibile: si attribuiscono, naturalmente con la connivenza dello Stato, la possibilità, la
legittimità di far nascere una sorta di invenzione stranissima, quella che loro chiamano
le note di banco. Cosa sono le note di banco? Sono le banconote - quelle che abbiamo qui
nelle tasche. E cosa sono le note di banco a quell’epoca? Sono il diritto che quei
finanzieri, elettisi a Banca d’Inghilterra, si attribuiscono di emettere carta-moneta.
Appunto banconote esattamente equivalenti al prestito in oro che hanno dato allo
Stato. È un’operazione che lascia sgomenti, perché è chiaro quello che succede. Loro
hanno dato allo Stato 1,2 milioni di sterline però le hanno duplicate nella carta. Sono
diventate un miracolo: due e quattro.
Questa è la moneta che abbiamo ancora in tasca,
questa è la moneta moderna che è un’invenzione strepitosa ma pericolosissima.
Pericolosissima perché è evidente che la carta moneta in teoria corrisponde all’oro che è
stato dato allo Stato, ma in realtà corrisponde a nulla. È una cosa grossa, che se fosse
fatta da un privato, andrebbe in galera. Però certo è stata un’invenzione meravigliosa,
bisogna guardare il bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, perché certo questo è il
peccato originale della modernità.
È il peccato nel quale siamo ancora nei guai noi, ma è anche la sua gloria. Perché senza
questa invenzione non ci sarebbe stato l’incremento inimmaginabile della ricchezza
mondiale, della solidità della vita, dei privati, cioè il diffondersi di un benessere mai
visto prima sulla faccia della terra. I ricchi signori morivano di freddo all’interno dei loro
castelli o morivano a 45 anni come i loro contadini. Qui comincia tutta la modernità
come costruzione di un impero - di merci, di scienze, di conoscenze, di università, di
studi, di libri - non si può tacere questo aspetto. Però non si può tacere neanche l’altro,
questa carta vale nulla. La foglia di fico per cui sulle banconote - anche quelle italiane,
vi ricordate quando c’era la lira? - si scriveva che il portatore di questo pezzo di carta
avrebbe il diritto di ottenerne il cambio in oro che è, ben inteso, depositato nella Banca
di Stato. Non è mai successo. Non solo non è mai successo, ma non era nemmeno
prevedibile che succedesse. La ricorsa genovese diceva: “Non facciamoci pagare subito il
debito che così cresce”.
Non hanno interesse a esigerlo perché, come si dice in francese, “Tout ce tien”. Se crolla
la Banca d’Inghilterra siamo rovinati tutti.
E allora si assume per principio che la Banca
d’Inghilterra, cioè lo Stato, che ne è garante, non può fallire. La Spagna falliva perché era
ancora arcaica. Lo Stato moderno non può fallire. Questo mostro, come lo chiama
Hobbes, non può fallire, è troppo grosso per immaginare che fallisse. Lo potevamo
supporre. Quando, ad esempio, è crollata la banca newyorkese siamo rimasti tutti
scioccati, non lo ritenevamo possibile - anche se poi è stata salvata (In fondo, il sistema,
bisogna salvarlo). Il sistema è truffaldino nel suo cuore, ormai l’avete capito. Non dice la
verità. Dice che dietro questo pezzo di carta c’è una garanzia che non c’è. Ma ormai è
così. Ormai siamo legati a doppio filo e nessuno ha interesse a far saltare il banco. Se
salta il banco saltiamo tutti noi e allora questa nuova moneta che spesso gli economisti
indicano con l’espressione Fiat Money, è una decisione dello Stato che stampa moneta e
ti dice: “Questa è moneta”, “Questo è denaro, vale! Vale per comprare le merci, eccetera,
eccetera”.
Ecco, per tre secoli il velo pietoso della convertibilità con l’oro - il famoso gold
standard - è andato avanti nel silenzio connivente di tutti, perché era meglio stendere un
velo pietoso su questa situazione che era nell’interesse di molti, se non di tutti,
mantenere. Sappiamo bene che tutto questo ha avuto fine in tempi molto recenti, se
guardiamo l’arcata temporale, cioè il 15 agosto del 1971, quando il presidente degli
Stati Uniti d’America Nixon dichiarò – e ormai non stupì nessuno, ma la dichiarazione
fece un certo scalpore – che non c’era più nessuna convertibilità, se mai c’era stata, tra il
dollaro e l’oro. Il dollaro si sganciava completamente dall’oro. Non aveva più nessuna
convertibilità. Non c’era più nessun sovrano dietro la cartamoneta, non c’era più nessun
dio. C’era soltanto l’interesse del mercato di quella merce particolare che era, appunto, il
mercato finanziario. Qualche cosa che era portatore di un tasso d’interesse e che come
tale aveva valore: il denaro si presta a interesse, il denaro produce altro denaro.
Conseguenze.
Adesso stiamo arrivando a tirare le fila di questo percorso, che è stato una
galoppata, ma se non si guardano tutte queste tappe nella loro pregnanza, non ci si
orienta. Il debito originario verso gli dei, si è tradotto in un debito verso le istituzioni, un
debito verso gli uomini, e bisogna aggiungere una cosa: se questa economia ha dato vita
allo Stato moderno - che ha indubbiamente il suo cuore nella rivoluzione capitalistica -
che oggi è in crisi, è afflitto da tensioni fortissime, non riesce più a governare in maniera
davvero autonoma ed efficace le economie particolari, se cioè lo Stato ha perso potere
nei confronti della globalità del mercato – perché questo è quello che succede – direi
che è facile immaginare che con questo tipo di moneta la dobbiamo piantare. Si, perché
è stata inventata gloriosamente, genialmente, truffaldinamente. È servita a fare l’Europa
moderna, il mondo moderno, l’occidente moderno. Nel momento in cui queste grandi
istituzioni, queste grandi banche centrali entrano in crisi – siamo nel mondo delle
banche e dei loro problemi e di chi controlla il controllore – entra in crisi una figura
dell’umano - una grande figura dell’umano – il suo segno promotore primo, che è il
denaro. Quel denaro così concepito, dai genovesi in avanti.
Le conseguenze importanti sono due, ma ce ne sono infinite.
Primo. Poiché il denaro è diventato un tasso di interesse, è diventato esso stesso merce,
qualcosa che si compra e in cambio della quale si paga un interesse, cosa che si ottiene
in cambio di un interesse. Se io prendo cinquanta ma devo pagare un tasso di interesse
– il famoso 8% dei finanzieri londinesi – è chiaro che è venuto meno il mondo
mercantilistico, è venuto meno il mondo del mercante che, bene o male, riproduceva una
certa ciclicità. Qui non si ricomincia più da capo. Poiché ottengo denaro a interesse, e se
non ho questo denaro, se le banche non me lo prestano, io non posso iniziare un’attività
– come era per i mercanti – non posso comprare, non posso produrre, non posso pagare
il lavoro per produrre, è evidente che devo produrre più di quello che mi hanno
prestato. Se mi prestano 50 e devo restituire 50 più l’8%, devo produrre di più di quello
che vale 50. Abbiamo davanti agli occhi il mistero dei misteri, perché siamo tutti
ossessionati da questa cosa del PIL che deve crescere. Ecco perché deve crescere.
Semplicemente per questo, perché noi dobbiamo restituire di più, avendo ottenuto
l’ossigeno per vivere a un tasso di interesse. Quindi siamo obbligati a vivere in una
situazione dove i conti non si chiudono mai, dove non si pareggia mai la situazione,
dove il debito complessivo cresce all’infinito. E allora anche la produzione deve crescere
all’infinito.
È terribile se ci pensate, se pensate poi che tutto questo è fatto su un pianeta che non è
infinito. È stato calcolato dagli economisti che per andare avanti in questa direzione,
ponendo come modello la vita di New York, avremmo bisogno di 5 altri pianeti. Questi
sono calcoli interessanti. Se prendiamo come modello la vita di Parigi, che è un po’
meno dispendiosa di New York, abbiamo bisogno di almeno 3 pianeti. Ne abbiamo uno,
molto finito, nel quale non è immaginabile una crescita produttiva infinita. E questo
dipende proprio dalla scrittura meramente quantitativa, progressiva, del denaro
inventato dai moderni.
Seconda conseguenza. I mercati finanziari, i mercati della moneta che è diventata
merce, hanno capito benissimo il giochetto genovese: siccome sulla merce si specula,
siccome la merce ha il suo valore - così come il denaro-merce ha il suo valore perché
figlia - allora ecco che quando io ho in mano un credito, me ne libero subito e lo faccio
circolare. Questo è descritto meravigliosamente nel terzo libro del capitale di Marx: i
contadini dell’entroterra londinese vanno in banca, depositano dei soldi, il frutto del loro
lavoro, e la banca li amministra. Cosa vuol dire che la banca li amministra? Che li presta
centomila volte, che li fa girare, che questa carta circola continuamente e cresce.
Naturalmente, se io ho del denaro lo devo mettere subito in borsa, devo vedere dove lo
posso collocare affinché renda di più. Ma capite che a un certo punto qualcuno deve
pagare. Non solo; io faccio circolare denaro anche là dove non c’è nessuna garanzia di
un suo ritorno. Questa è la tecnica della bolla finanziaria che Marx ha spiegato
perfettamente. Nel terzo libro del Capitale Marx spiega con lucidità assoluta perché si
crea la bolla. È evidente che questa circolazione infinita, che questa quantità di
cartamoneta che circola dappertutto, dove debitore e creditore non si sa nemmeno più
chi sono, ha un limite. Non possiamo inventare una circolazione infinita. Prima o poi
questa circolazione deve corrispondere a qualche cosa, deve avere un minimo di realtà
alla base che la sorregga. Non sarà più l’oro, non sarà più convertibile in oro. Ma se io
presto a interesse a persone che non sono in grado di restituire, questo interesse
evidentemente crolla, crea una situazione finanziariamente inaccettabile.
Allora
potremmo sintetizzare i due passi, l’alfa e l’omega di questo discorso, in una maniera
molto sintetica ma effettiva: la scrittura del debito a Babilonia.
La scrittura del debito a
Babilonia aveva la pretesa - e in parte lo realizzò, per un certo numero di secoli fu una
fortuna, fu uno strumento di grande incremento - grazie alla scrittura e alle tavolette in
cui era scritto il “tuo debito”, di produrre più di quanto la vita personale non consenta,
più di quanto gli accidenti della vita individuale non siano in grado di fare. Dapprima
molti pagarono il fio di questo squilibrio diventando schiavi, scappando dai campi. È
evidente che a questa società si poteva in qualche modo sovvenire con la previdenza
pubblica, dicendo che la scrittura è senza dubbio uno strumento di incremento, però è
uno strumento pericoloso perché ci sono i casi individuali, c’è la vita vera, c’è la vita
degli dei, quella che si incarna nella nostra vita, e non sempre le cose vanno come la
tavoletta pretende. Di fronte a queste disgrazie, a questa impossibilità della vita singola
di farsi pari alla scrittura ideale dello scambio, si può sovvenire con società del
risparmio, con interventi di moneta immaginaria, con avventure della finanza saggia. Ma
quando si arriva alla scrittura del capitale, alla scrittura che è tipica della nostra moneta
- quella di Londra, della Banca d’Inghilterra, quella della duplicazione miracolosa,
magica - quando si entra in questa ottica e visione che ha prodotto effetti
straordinariamente positivi dei quali è difficile non riconoscere il peso, ma dei quali non
è neanche difficile non riconoscere il limite. Ecco, quando si entra in questa ottica, la
produzione non è più in contrasto con la vita singola. Si pretende una produzione che la
vita singola non è in grado di sopportare. No, qui si pretende una produzione che è la
vita collettiva, planetaria, che non può consentire. Oggi noi andiamo avanti con
duecento milioni di schiavi in Cina. Noi stiamo ancora in piedi perché duecento milioni
di schiavi - butto lì una cifra per difetto - vivono in officine dormitorio. Ma il problema
non è un problema soltanto morale che in questo caso non interessa. Qui il problema è
economico, nel senso della casa in cui viviamo. La casa in cui viviamo è il pianeta terra.
Il pianeta terra non consente una vita collettiva che continuamente produce più lavoro,
più merci, più scambi, più mercati. Questa è la società della mercificazione illimitata,
progressiva, che ha alla sua base la necessità di produrre sempre più liquidità. Come
aveva capito Marx, il problema serio è la liquidità, il fatto che a un certo punto c’è
sempre bisogno di più liquidità. Tuttavia, a un certo punto, la liquidità finisce perché non
corrisponde più a nulla di reale e quindi, in maniera inquietante, rivela la gherminella
originaria: questa carta è uguale a nulla.
In un mondo di questo tipo è evidente che il sistema economico non può che entrare in
crisi e porre un grandissimo problema: la scrittura del debito originario era la scrittura
del debito della comunità verso la vita o - come si diceva prima - verso gli dei. Poi noi
abbiamo inventato un’altra società, abbiamo costruito nei secoli, nei millenni, un’altra
società. Una società nella quale il debito era nei confronti dell’istituzione: non la vita,
ma qualcosa che riguardava un’attività particolare, gli economisti non sono dei
sacerdoti, anche se ci sono dei sacerdoti economisti alle origini. Gli economisti sono dei
professionisti che sanno le loro cose meravigliosamente e hanno una competenza. Il
debito diventa debito verso una istituzione, l’istituzione delle istituzioni è lo Stato
moderno, che ancora, in parte, ci accompagna. Nel momento in cui viene meno lo Stato
moderno, lo Stato moderno non ha più la possibilità di proteggere i suoi membri
comunitari. La grande casa X chiude perché si sposta in Cina o semplicemente in
Polonia e gli italiani che ci lavoravano “cavoli loro” (come il contadino con il suo debito,
“Eh, ti è andata male”). Lo Stato, l’istituzione non li può più proteggere perché l’economia
finanziaria internazionale ha preso questo giro inarrestabile e non c’è più nessun
riferimento solido.
Ma allora, domanda: non è ora di pensare che anche il denaro è un bene comunitario, e
non un bene privato, non un bene finanziario, non un bene delle banche, non un bene
della borsa? (E la moneta, come il linguaggio, essendo l’essenza dell’umano - abbiamo
detto all’inizio - deve trovare nell’umano, nella comunità umana, oggi in una comunità
addirittura internazionale, extraterritoriale per le quale non abbiamo ancora chiare le
leggi, i costumi). È un bene della comunità il denaro, non un bene del banchiere, non un
bene dello stato, non un bene del privato, almeno non del tutto, è anche un bene
pubblico.
Vorrei aggiungere una cosa alla quale tengo molto perché sembra una barzelletta, anche
se qualche economista mi ha detto che è più seria di quanto non sembri, tanto che ci
stanno lavorando. La domanda è questa: non vi pare che se il denaro fa dei figli - lo
metti in banca e figlia - deve morire anche lui? Deve avere un termine di vita. Se noi
moriamo, deve morire anche lui. Il denaro a termine, denaro che va speso, che è liquido,
che non è qualcosa che ha un tasso di interesse infinito. Solo così noi non avremo un
padrone immortale e ferocissimo.
--
Note biografiche
Carlo Sini Nato a Bologna nel 1933, è tra i più illustri filosofi italiani. Accademico del Lincei, amato dal grande pubblico come brillante conferenziere e socratico maestro, ha ricoperto per tanti anni la cattedra di Filosofia Teoretica all’Università Statale di Milano, dove è stato allievo di Enzo Paci.
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