lunedì 23 ottobre 2017

Ho Chi Minh (1890-1969) - Walden Bello

Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com   Voce scritta da Walden Bello per The Palgrave Encyclpedia of Imperialism and Anti-Imperialism. 
Walden Bello è attualmente membro della Camera dei rappresentanti della Repubblica delle Filippine, in rappresentanza di Akbayan (Partito d’azione dei cittadini). Oltre all’attività politica, è Visiting Professor alla St Mary’s University di Halifax, Canada, e Adjunct Professor alla State University di New York a Binghamton.


Una panoramica


Ho Chi Minh – conosciuto anche come Nguyen Sinh Cung, Nguyen Tat Thanh e Nguyen Ai Quoc – è stato la figura centrale della lotta vietnamita per la liberazione nazionale nel XX secolo. Nacque nella provincia di Nghe An, Vietnam centrale, il 19 maggio 1890. Il padre, che era riuscito a superare gli esami per accedere al mandarinato dopo tre tentativi, ma aveva perso l’opportunità di divenire un burocrate reale, gli aveva insegnato la scrittura cinese. Costretto ad interrompere la sua istruzione formale in quanto accusato di aver preso parte ad uno sciopero di contadini, Ho firmò per imbarcarsi come cuoco e tuttofare in una nave francese, lasciando il Vietnam nel 1911. Ciò gli consentì di visitare, nel corso degli anni successivi, New York, Londra, Parigi, l’Algeria, la Tunisia e il Senegal. Il suo primo significativo atto politico consistette nel presentare la “Petizione della nazione annamita” alla conferenza di versailles, nel 1919. Ma sulla base di quanto da lui steso riferito, l’evento trasformativo della sua vita ebbe luogo nel 1920, quando venne a contatto con le “Tesi sulle questioni nazionale e coloniale” di Lenin. Col che ebbe inizio una rimarchevole carriera nel movimento comunista internazionale. Egli fu tra i fondatori del Partito comunista francese, e operò in diversi paesi, particolarmente in Cina, quale agente della Terza internazionale, fondata al fine di assistere le lotte rivoluzionarie a livello globale. 

Nel 1930 presiedeva, ad Hong Kong, la conferenza che avrebbe portato all’unificazione delle varie organizzazioni comuniste vietnamite. Seguirono alcuni anni durante i quali si trovò messo da parte e assegnato a Mosca, probabilmente a causa di divergenze circa la cosiddetta linea del “Terzo periodo”, allora prevalente nell’Internazionale, in base alla quale veniva posta eguale enfasi sull’opposizione all’imperialismo e sullo svolgimento della lotta di classe interna. Una tendenza che secondo Ho, a quanto pare, minava la creazione di un ampio fronte nazionalista, necessario per abbattere il dominio coloniale francese.

Col fascismo in ascesa in Europa, l’Internazionale comunista abbandonò la linea del Terzo periodo a favore di una strategia basata sulla formazione di un ampio “Fronte popolare”. Questi sviluppi aprirono la strada al ritorno di Ho in Asia, nel 1939, e nel 1941 in Vietnam, dove presiedette l’ottavo congresso del Partito comunista indocinese, obiettivo del quale era la creazione di un largo fronte unito contro l’imperialismo e il fascismo. Da questo momento in poi la sua guida della rivoluzione sarebbe stata indiscussa.

Nell’agosto del 1945, Il Partito comunista lanciava un’insurrezione generale al fine di prendere il potere, ed il 2 settembre Ho leggeva in piazza Ba Dinh, ad Hanoi, la Dichiarazione d’indipendenza dal dominio coloniale francese. Il leader vietnamita cercò di negoziare un ritiro pacifico della Francia, ma una volta fallito questo tentativo condusse una lotta, protrattasi per nove anni, che culminò nella catastrofica disfatta francese di Dien Bien Puh, nel 1954. Quello stesso anno, alla Conferenza di Ginevra, il Vietnam veniva temporaneamente suddiviso in due zone, le quali avrebbero dovuto riunirsi, due anni dopo, a seguito di elezioni nazionali, che ci si aspettava Ho avrebbe vinto agevolmente.

Quando gli statunitensi fecero marcia indietro sull’accordo, installando un governo del Vietnam del sud, ebbero inizio altri 20 anni di guerra, che ebbero fine nel 1975 con la completa sconfitta di Washington. Ho, tuttavia, non visse abbastanza da vedere la vittoria finale e l’unificazione del paese, scomparve infatti il 2 settembre del 1969. Ma la sua fiducia nella futura riunificazione del Vietnam non vacillò mai. Una sicurezza colta da una dichiarazione del 1966, rilasciata nel momento in cui gli USA intensificavano i bombardamenti, preparandosi ad inviare ancora più truppe in Vietnam: “Gli imperialisti USA possono mandare in questo paese 500.000 truppe, e anche di più… La guerra può continuare per cinque, dieci, vent’anni e ancora oltre. Hanoi, Haiphong ed altre città possono essere distrutte. Ma il popolo vietnamita non è in alcun modo intimorito! Niente è più prezioso dell’indipendenza e della libertà. Quando il giorno della vittoria sarà arrivato, ricostruiremo il nostro paese, rendendolo ancora più bello e magnifico” (citato in Vo Nguyen Giap 2011: 42). 

La leggenda


Ho Chi Minh fu una leggenda della sua epoca, e come ogni leggenda che si rispetti, manifestò differenti personalità a coloro che lavorarono con lui, lo incontrarono o lo studiarono. Agli occhi di Nikita Khrushchev appariva come una sorta di “santo del comunismo”:
Ho avuto modo di incontrare molte persone nel corso della mia carriera politica, ma nessuna mi ha fatto una così singolare impressione. I credenti parlano spesso degli apostoli. Ebbene, per il suo modo di vita e l’influenza esercitata sui suoi pari, Ho Chi Min è comparabile a questi “santi apostoli”. Un apostolo della rivoluzione, beninteso. Non dimenticherò mai l’alone di purezza e sincerità nei suoi occhi. La sincerità di un comunista incorruttibile e la purezza di un uomo totalmente votato alla propria causa, nei principi e nell’azione. (citato in Brocheux 2007: 144)

Al contrario, a detta di Sophie Quinn-Judge (autrice del miglior studio circa l’attività di Ho nel periodo 1919-41), sebbene egli fosse motivato “da un sincero patriottismo e da un profondo sdegno nei confronti dell’imperialismo francese”:
Non si trattava di una sorta di sant’uomo del comunismo. Egli visse con varie donne in diversi periodi, fece compromessi e infiltrò altri partiti nazionalisti. Non sempre ebbe un atteggiamento franco – in molte situazioni avrebbe ritenuto avventato l’essere onesto circa le proprie convinzioni politiche. La profondità del suo attaccamento al comunismo è difficile da valutare – la sola cosa che si può affermare è il suo scarso interesse per il dogma. La via da lui seguita era spesso frutto di una scelta fra una serie di opzioni, limitate da eventi fuori dal  suo controllo. (Quinn-Judge 2002: 256)

Ruth Fischer, una contemporanea nonché collega nell’Internazionale comunista, forniva ancora un’altro punto di vista, più sfumato rispetto a quelli di Khrushchev e Quinn-Judge:
In mezzo a quegli uomini rotti all’azione rivoluzionaria, a quegli intellettuali esigenti, egli portava una nota di bontà, di semplicità che avvinceva. Era in mezzo a noi il bravo ragazzo, che ne sapeva di più, d’altronde, di quanto non lasciasse vedere, e quella fama meritata gli evitò di lasciarsi invischiare nei conflitti interni. Senza contare che la sua mentalità lo portava molto di più verso l’azione che verso le discussioni dottrinarie, e che sempre, in seno la movimento, egli fu un empirico. Ma tutto ciò non gli diminuiva la considerazione dei compagni e grande era il suo prestigio. (citata in Lacouture: 53)


L’uomo d’azione come scrittore


Uomo d’azione per antonomasia, Ho era nondimeno dedito alla scrittura e alla riflessione. Del resto, era un propagandista assai abile. Un suo breve scritto sul linciaggio, sottotitolato “Un aspetto poco conosciuto della civilizzazione americana”, scritto nel 1924, a distanza di ottant’anni, non ha perso niente della sua forza ed immediatezza, in gran parte dovute alla padronanza dell’ironia e del sarcasmo:
Immaginate un’orda furiosa, i pugni stretti, gli occhi iniettati di sangue, la schiuma alla bocca, urlante insulti e maledizioni… Un orda trasportata dall’ebrezza selvaggia di un delitto che verrà commesso senza alcun rischio. Armati di bastoni, torce, rivoltelle, corde, coltelli, forbici, in una parola, con tutto ciò che può servire ad uccidere e ferire.
Immaginate in mezzo ad una simile marea umana un relitto di carne nera, spintonato, picchiato, calpestato, lacerato, sfregiato, insultato, stratonato da una parte all’altra, ricoperto di sangue, inerte…
In un’ondata di odio e bestialità, i linciatori trascinano il nero verso un bosco o una piazza. Lo legano ad un albero, gli versano addosso del cherosene, ricoprendolo di materiale infiammabile. Nell’attesa che il fuoco lo avvolga, gli rompono i denti, uno ad uno. Dopo, gli cavano gli occhi. Ciuffi crespi di capelli vengono strappati dalla sua testa assieme a brandelli di pelle, scoprendo un cranio sanguinante…
“Giustizia popolare”, come dicono da quelle parti, è fatta. Placatasi, la folla si congratula con gli organizzatori, per poi scorrere via lentamente e in allegria, come dopo una festa, dandosi appuntamento l’un l’altro alla prossima occasione.
Mentre a terra, nel puzzo di grasso e fumo, una testa nera, mutilata e bruciata, deforme, sogghigna orribilmente e sembra domandare al sole calante, “è questa, dunque, la civilizzazione?” (Ho 1969 [1929]: 20-21)

Nonostante scrivesse molto, l’innovazione teorica non era il suo forte. Cosa che egli ammetteva prontamente. Di fatto, correva voce che Ho affermasse, non senza un certo sarcasmo, che egli non aveva bisogno di scrivere, dato che Mao Zedong aveva già scritto tutto ciò che era necessario (Masina 1960: 18).

Dunque perché leggere Ho? Non tanto per trovarvi una qualche originalità teoretica, bensì per rendersi conto di come un rivoluzionario impegnato, dotato di perspicacia, si sforzasse di tradurre concetti e idee, con i quali era entrato in contato da attivista internazionale nei circoli marxisti-leninisti, in una strategia, una tattica ed un’organizzazione in grado di liberare, nel corso della prima meta del XX secolo, un paese colonizzato, sconfiggendo nel corso di tale processo ben due imperi: la Francia e gli Stati Uniti. Leggerlo significa assistere alla creativa collisione fra marxismo e realtà coloniale, sfociante nell’innovativo mutamento del paradigma di classe e conflitto di classe, nella sua migrazione dal luogo d’origine, l’Europa, all’Asia.


Il giovane Ho


Ho giunse alla maturità politica nella turbolenta epoca scatenatasi a seguito della Prima guerra mondiale. Per circa un decennio, dopo il 1911, l’anno in cui lasciò il Vietnam, visse per mare come cuoco di bordo e tuttofare, visitando diverse parti del mondo, comprese New York e Londra, prima di stabilirsi per alcuni anni a Parigi a partire dal 1919. Quale attivista per la libertà del Vietnam sin dall’inizio, attirò l’attenzione promuovendo la causa del suo paese fra le delegazioni estere durante la Conferenza di Versailles del 1919. Come per molti altri rappresentanti dei paesi colonizzati, il richiamo della conferenza era dovuto alle promesse del presidente Woodrow Wilson riguardo l’autodeterminazione delle nazioni assoggettate.

Il giovane Ho, Nguyen Ai Quoc come era conosciuto all’epoca, non aveva remore nell’esprimere la preminenza della lotta contro il colonialismo quale criterio per stabilire con chi lavorare. Allo storico Congresso di Tours, quando la maggioranza della SFIO (Sezione francese dell’Internazionale operaia) votò per unirsi alla trionfante Terza internazionale, messa in campo dai bolscevichi, Ho intervenne affermando che “il Partito socialista deve agire efficacemente in favore dei nativi oppressi… vorremo vedere in questa sua adesione alla Terza internazionale la promessa che d’ora in poi alla questione coloniale verrà attribuita l’importanza che merita”.

Ciò che distingueva Ho dagli altri rivoluzionari nazionalisti e delle colonie, secondo il noto corrispondente di guerra francese Bernard Fall, era il fatto che, nonostante fosse appassionatamente devoto alla causa dell’indipendenza del Vietnam, egli comprendeva la condizione della sua patria, in quanto paese coloniale, come “tipica dell’intero sistema coloniale” (citato in Fall 1967: vi). Ho sentiva dunque una profonda affinità con gli altri popoli intrappolati nella stessa rete di oppressione, conservando lungo tutta la sua vita la convinzione per cui l’emancipazione, oltreché nazionale, doveva essere universale. La sua “Relazione sulla questione nazionale e coloniale al V congresso dell’Internazionale comunista”, non solo costituisce una descrizione globale del sistema coloniale francese, ma anche un’infiammata dichiarazione di solidarietà verso le popolazioni arabe, africane e del Pacifico sotto dominio della Francia. Nella prospettiva di Ho, inoltre, la questione nazionale era strettamente legata a quella di classe.

Una visione di portata mondiale quella di Ho, frutto non solo della sua esperienza giovanile di figlio di un insegnante impoverito, il quale aveva scelto di non servire come burocrate di un regno oramai ridotto a cliente della Francia, ma anche della sua condizione di classe come persona di colore che, per oltre un decennio, si era dovuta guadagnare da vivere a bordo di una nave che seguiva rotte internazionali. Pochi luoghi di lavoro sono caratterizzati da una forza lavoro internazionale come quella delle navi di lunga percorrenza, e questa comune esperienza con lavoratori di tutti i colori non mancò certo di costituire un fattore della sua adesione al marxismo.


La scoperta dell’opera di Lenin


Il tramite fondamentale verso il futuro socialista di Ho fu la figura di Lenin. Vale la pena, in proposito, citare il resoconto, da egli stesso fornito, circa la sua folgorazione sulla via di Damasco, contenuto in un saggio intitolato “Il cammino che mi ha condotto al leninismo“:
Ciò che mi interessava sapere – e questo era proprio quello di cui non si dibatteva in quelle riunioni – era: quale delle Internazionali si pone al fianco dei popoli dei paesi coloniali?
Posi questa domanda – a mio parere, la più importante – in una delle riunioni. Alcuni compagni mi risposero: “Sarà la Terza, no la Seconda”. E un compagno mi diede da leggere le “Tesi sulle questioni nazionale e coloniale” di Lenin, pubblicate dalla rivista L’Humanité.
C’erano termini politici difficili da capire in questo libro, ma leggendolo e rileggendolo, ne capii finalmente il senso. Che entusiasmo, emozione, fiducia e chiaroveggenza infuse in me! Ero pieno di allegria, fino alle lacrime. Anche se ero solo nella mia camera, declamavo come se mi trovassi davanti a una gran folla di popolo: “Cari martiri compatrioti! Questo è quello di cui abbiamo bisogno! Qui c’è il cammino per la nostra liberazione!”

Le “Tesi” leniniane sono state probabilmente il più significativo documento prodotto dalla Terza internazionale. Il leader rivoluzionario russo vi esponeva tre punti salienti, che sarebbero stati fondamentali, in seguito, nella formulazione della strategia dei comunisti vietnamiti, così come di altri paesi asiatici. Primo, “la pietra angolare di tutta la politica dell’Internazionale comunista nelle questioni nazionale e coloniale deve essere l’avvicinamento dei proletari e delle masse lavoratrici di tutte le nazioni e di tutti i paesi ai fini della lotta rivoluzionaria comune per rovesciare i grandi proprietari terrieri e la borghesia. Solo questo avvicinamento potrà infatti garantire la vittoria sul capitalismo, senza la quale è impossibile abolire l’oppressione e la disuguaglianza nazionale” (Lenin, 1967 [1920]: 161).

Secondo, “la necessità di appoggiare particolarmente il movimento contadino dei paesi arretrati contro i grandi proprietari fondiari, contro la grande proprietà terriera, contro qualsiasi manifestazione e sopravvivenza di feudalesimo, e la necessità di lottare per imprimere al movimento contadino il carattere più rivoluzionario mediante la più stretta alleanza tra il proletariato comunista dell’Europa occidentale e il movimento rivoluzionario contadino dell’oriente, delle colonie e dei paesi arretrati in genere” (Lenin, 1967 [1920]: 164).

Terzo, il compito immediato, per quanto riguardava le colonie ed i paesi oppressi, consisteva nel sostenere i movimenti democratici borghesi nazionali – sebbene, “solo a condizione che, in tutti i paesi arretrati, gli elementi dei futuri partiti proletari – comunisti di fatto e non soltanto di nome – siano raggruppati ed educati nella coscienza dei loro compiti particolari, consistenti nella lotta contro i movimenti democratici borghesi in seno alla loro nazione” (Lenin, 1967 [1920]: 164). Il momento della rivoluzione socialista sarebbe giunto più tardi.

Queste tesi, che oggi potrebbero non sembrare controverse, ebbero un significato decisivo nel momento in cui vennero espresse per la prima volta.

Il primo punto prendeva di petto la negligenza riguardo la questione nazionale, prevalente, di fatto, tra i progressisti europei nel periodo tra le due guerre. Durante il V congresso del Comintern, nel 1924, un frustrato Ho portava le argomentazioni di Lenin un passo avanti, affermando che, senza affrontare in modo decisivo la questione coloniale, i socialisti non si sarebbero potuti aspettare la vittoria della rivoluzione in occidente.
Vi chiedo di scusare la mia franchezza, ma non posso fare a meno di notare che i discorsi dei compagni provenienti dalla madrepatria danno l’impressione di voler uccidere il serpente schiacciandogli la coda. Tutti voi sapete che il  veleno e la vitalità del serpente capitalista sono concentrati più nelle colonie che nella madrepatria… Eppure, nelle nostre discussioni circa la rivoluzione voi dimenticate di parlare delle colonie… Perché dimenticate le colonie, dato che il capitalismo se ne serve per il proprio sostegno, per la propria difesa, nonché per contrastarvi? (Nguyen Ai Quoc 1974: 309)

Il secondo punto, riguardante il potenziale rivoluzionario dei contadini nelle colonie, tendeva anch’esso ad essere trascurato. Non solo a causa della centralità, in ambito socialista, del ruolo guida della classe lavoratrice europea nella rivoluzione mondiale – la quale, così si riteneva ancora all’epoca, sarebbe dovuta esplodere nei paesi capitalisti sviluppati. Bensì anche in ragione del classico disdegno da parte marxista per il mondo contadino, così come espresso nei commenti di Marx circa “l’idiotismo della vita rurale”, e nel suo paragone tra i contadini ed un “sacco di patate”, in riferimento alla loro capacità di organizzarsi politicamente.

La terza proposizione era quella che esercitava la maggiore attrazione su Ho. Ma anche quella che avrebbe suscitato maggiori controversie nella storia dell’Internazionale comunista. Questa tesi, in seguito, sarebbe divenuta nota come teoria delle “due fasi” della rivoluzione. Da un certo punto di vista, costituiva semplicemente un tentativo di formalizzare l’esperienza rivoluzionaria russa del 1917 – la quale ebbe inizio con la rivoluzione democratica di febbraio, seguita da quella socialista nell’ottobre – come strategia per i progressisti delle “società arretrate”, con una modifica cruciale: ovvero che la prima fase non sarebbe stata esclusivamente la lotta per ottenere i diritti democratici, ma anche l’indipendenza nazionale.


Tensioni teoriche e politiche


La formulazione leniniana delle due fasi divenne la base della strategia di Ho finalizzata alla liberazione del Vietnam. Guardando retrospettivamente ai suoi sviluppi, circa trent’anni dopo la formazione del Partito comunista indocinese, Ho riferiva nella sua “Relazione sulla bozza di modifica della costituzione”:
Nel Vietnam del primo dopoguerra, la borghesia e la piccola borghesia nazionali si dimostrarono incapaci di guidare, con successo, il movimento di liberazione nazionale. La classe lavoratrice vietnamita, alla luce della Rivoluzione d’ottobre, delineò il corso della Rivoluzione vietnamita. Nel 1930, venne fondato il Partito comunista indocinese, l’organizzazione politica della classe lavoratrice, dimostrando che la Rivoluzione vietnamita avrebbe dovuto attraversare due fasi: la rivoluzione democratica nazionale e quella socialista.

La realtà, ovviamente, era ben più complessa. La teoria delle due fasi, in oriente, comportò per la Terza internazionale e  i comunisti non poche controversie tattiche. Una delle quali riguardava il rapporto del partito rivoluzionario coi suoi alleati non comunisti, specialmente la “borghesia nazionale e gli esponenti delle classi possidenti favorevoli all’indipendenza. Un’altra ancora, ruotava intorno a quali sarebbero state le rivendicazioni della fase “democratica nazionale”, in particolare a proposito della questione della terra.
Si trattava di problemi teorici con ricadute pratiche di estrema importanza, la risoluzione dei quali, ebbe modo di constatare Ho, avrebbe avuto enorme rilevanza nello svolgersi delle rivoluzioni nelle colonie. Nel suo “Rapporto sul Tonchino, l’Annam e la Cocincina”, indirizzato al Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista, Ho – che allora scriveva sotto il nome di Ngyen Ai Quoc – asseriva che in Vietnam “la lotta di classe non si svolge con le stesse modalità dell’occidente” (citato in Song Thanh 2012: 103). “Nel periodo in cui vennero organizzati i soviet di Nghe-An, Ho assunse un atteggiamento in qualche modo ambiguo. Laddove, quasi certamente, egli non approvava questa operazione, comunque non agì per fermarla. Nel 1953, venne reso noto che Ho aveva votato contro una risoluzione a favore di un’insurrezione contadina, ma che trovandosi in minoranza di un solo voto si era attenuto alla volontà della maggioranza. Comunque si siano svolti i fatti, non vi è dubbio che si trattò della prima occasione in cui egli perse il controllo del movimento sotto la sua guida” (McAlister 1969: 94). “Il nazionalismo”, sosteneva, “è la maggiore forza moralizzatrice” (ibid.). In un altro testo, basato sulle lezioni tenute per i quadri vietnamiti a Guangzhou, scriveva, “operai e contadini sono i padroni della rivoluzione, ne costituiscono la radice… mentre gli studenti, i commercianti ed i piccoli proprietari terrieri, anch’essi duramente oppressi dai capitalisti, sia pur non quanto operai e contadini, sono gli amici rivoluzionari di questi ultimi” (citato in Song Thanh, 2012: 109). A detta di interpreti recenti, come Song Thanh, questi commenti indicano che Ho aveva precocemente posto in risalto l’importanza di un fronte unito delle classi contro l’imperialismo, nel contesto della “rivoluzione democratica borghese”, in contrasto con la posizione secondo la quale la lotta di classe interna doveva ricevere uguale priorità: “Partendo dalla realtà di un paese coloniale, egli non considerava che tali compiti avrebbero dovuto svolgersi in contemporanea, con le stesse modalità, conferendo invece la priorità all’azione antimperialista, ai fini della liberazione nazionale, laddove quella anti-feudale, per la distribuzione delle terre ai coltivatori, sarebbe stata realizzata gradualmente” (2012: 113).

Fu il campo di battaglia cinese a fornire gli argomenti alle diverse parti coinvolte nel dibattito su strategia e tattica da adottare nel mondo coloniale e semi-coloniale. In Cina, l’applicazione dell’approccio delle due fasi, sotto la direzione del Comintern, si tradusse nell’appoggio da parte del Partito comunista cinese ai nazionalisti del Kuomintang. Non si trattava solo di formare un’alleanza con quest’ultimo, ma di aiutarlo dal punto di vista organizzativo e militare. Una politica che si concluse con una debacle nel 1927, quando Chiang Kai-Shek volto le spalle ai comunisti facendone strage.

Ho si trovò a lavorare per il Comintern, a Canton, nel periodo 1924-27, e aveva dunque familiarità con le fatali dinamiche del “Fronte unito” tra comunisti e nazionalisti. Nel momento in cui venne spedito dal Comintern ad Hong Kong, nel 1930, con l’obiettivo di unificare il movimento comunista vietnamita, la Terza internazionale era entrata nel cosiddetto, e ben noto, “Terzo periodo”, con i comunisti che rivolgevano i loro strali contro i socialdemocratici – bollati come “social-fascisti” – nei paesi capitalistici, abbandonando il fronte unito con la borghesia e la piccola borghesia, in favore del governo di “operai, contadini e soldati”, per quanto riguardava le colonie.

Ho fu in grado di imporre una fragile unità tra le fazioni comuniste vietnamite in competizione, costituendo il Partito comunista indocinese. Tuttavia, l’unificazione si basava su di un’interpretazione della teoria delle due fasi basata sulla linea radicale del Terzo periodo. L'”Appello in occasione della fondazione del Partito comunista indocinese”, datato 18 febbraio 1930, conosciuto anche come “Piattaforma abbreviata”, si rivolgeva “agli operai, ai contadini, ai soldati e agli studenti” vietnamiti, affinché rovesciassero “l’imperialismo francese, il feudalesimo vietnamita e la borghesia reazionaria”, così da “rendere l’Indocina completamente indipendente”; e ancora, “stabilire un governo degli operai, contadini e soldati”, “confiscare le banche e le altre imprese in possesso degli imperialisti, ponendole sotto il controllo del governo degli operai, contadini e soldati”; “confiscare tutte le piantagioni e le proprietà in mano agli imperialisti e alla borghesia reazionaria vietnamita, distribuendole ai contadini poveri”.

Era Ho a parlare, oppure si trattava del Comintern? Il leader vietnamita si era forse arreso temporaneamente alla linea del Terzo periodo? Sembrerebbe che egli stesse articolando la linea del Comintern, pur mantenendo serie riserve in proposito. Giap, ad esempio, ha precisato che la “piattaforma abbreviata” non sosteneva la parola d’ordine “riforma agraria e terra ai contadini”, ovvero l’obiettivo cruciale della rivoluzione anti-feudale” (Vo Nguyen Giap 2011: 7). Tanto più che compare il seguente passaggio, in cui si promuove una più vasta unità:
Il partito deve intrattenere frequenti contatti con la piccola borghesia, gli intellettuali, i contadini medi, i giovani, i membri del Partito Tan Viet, ecc. Per quanto riguarda i ricchi agricoltori, i piccoli e medi proprietari e i borghesi vietnamiti che non hanno ancora espresso inclinazioni controrivoluzionarie, dovremmo tentare di neutralizzarli e conquistarli, traendo vantaggio dalla loro posizione. (119)

Simili elementi di moderazione, tuttavia, non passarono inosservati, e nell’ottobre 1930, l’Internazionale comunista approvò una risoluzione che annullava il Programma di febbraio, firmato da Ho, ritornando alla linea simultaneamente, e rigorosamente, antimperialista, anti-feudale e anticapitalista. Tale disconoscimento significò per Ho l’inizio di quasi otto anni di marginalizzazione dai vertici del Partito comunista vietnamita, gran parte dei quali trascorsi a Mosca.

Ciò nonostante, Ho fece del suo meglio affinché la linea del Terzo periodo non demolisse totalmente l’ampio fronte antimperialista che egli riteneva ancora necessario (119-120). Per tanto, si oppose alle insurrezioni contadine che il nuovo partito unificato aveva istigato nelle province di Nghe An e Ha Tinh, Vietnam centrosettentrionale, nel 1931, miranti a stabilire dei soviet di villaggio. Probabilmente aveva intuito che la linea del Terzo periodo avrebbe potuto condurre ad una politica disastrosa in termini di alleanze. Il che, effettivamente, accadde. Come notato da John McAlister Jr (1969: 99):
Probabilmente, l’errore fondamentale va rintracciato nel fatto che il terrore comunista fu diretto, quasi esclusivamente, contro funzionari vietnamiti di basso rango, i quali esercitavano l’autorità per conto dell’amministrazione francese, anziché contro la Francia stessa… I comunisti attribuirono questo passo falso alle mancanze insite nelle Tesi sulla rivoluzione democratica borghese in Vietnam, adottate dal Partito comunista indocinese nel 1930… Come rilevato da un comunista vietnamita, tale programma “commetteva l’errore di sostenere il rovesciamento della borghesia nazionale, contemporaneamente a quello dei colonialisti francesi e dei feudatari indigeni… [Poiché] questa borghesia aveva interessi in conflitto con gli imperialisti… [e] questi avrebbero dovuto essere inseriti nei ranghi della repubblica democratica borghese e non sistematicamente separati”

Influenzato dalle prudenti – qualcuno direbbe opportunistiche – politiche di Lenin circa le alleanze, Ho aveva una forte inclinazione contro l’esclusione di chiunque sulla base, esclusivamente, dell’origine di classe, e non sarebbe stata l’unica volta in cui avrebbe votato contro, e criticato, una simile politica. Laddove interrogato su chi fossero gli alleati ed  i nemici dei comunisti, probabilmente avrebbe risposto, sulla scorta di Lenin: dipende dalle condizioni, dalla fase e dal luogo.


La creazione di un ampio fronte


Nel 1935, a seguito dell’ascesa al potere di Hitler in Germania, il Comintern iniziò a favorire la politica dei “Fronti popolari”. Col suo sostegno a larghe alleanze antifasciste, il nuovo approccio ben si attagliava all’inclinazione di Ho riguardo le tattiche che avrebbero fatto avanzare la lotta per l’indipendenza. Il suo periodo di marginalizzazione era giunto al termine, ed egli fece ritorno in Asia e in Vietnam, dove supervisionò l’articolazione della nuova strategia del partito per il suo paese. I punti fondamentali del nuovo orientamento, contenuti in un rapporto intitolato “La linea del partito nella fase del Fronte democratico (1936-1939)”, erano i seguenti:
  1. Nella fase attuale il partito dovrebbe astenersi dal presentare rivendicazioni eccessivamente esigenti (indipendenza nazionale, parlamento, ecc.). Agire altrimenti significherebbe fare il gioco dei fascisti giapponesi. Sarebbe opportuno limitarsi a pretendere i diritti democratici, ovvero libertà di organizzazione, di assemblea, di stampa e di parola, nonché amnistia generale per tutti i prigionieri politici e, infine, libertà per il partito di svolgere attività legale.
  2. Al fine di raggiungere tali obiettivi, il partito dovrebbe impegnarsi nell’organizzazione di un ampio fronte democratico e nazionale. Quest’ultimo dovrebbe essere aperto non solo agli indocinesi, bensì anche ai francesi progressisti residenti in Indocina, non solo ai lavoratori, ma anche alla borghesia nazionale.
  3. Il partito dovrebbe, inoltre, assumere un atteggiamento diplomatico e flessibile nei confronti della borghesia nazionale, sforzandosi di portarla all’interno del fronte e mantenercela, sollecitarla all’azione laddove possibile, isolarla politicamente se necessario. Ad ogni modo, non la si dovrebbe escludere dal Fronte, impedendo che cada nelle mani della reazione, rafforzando in  tal  modo quest’ultima.
Nel momento dello scoppio della Seconda guerra mondiale, si erano venute a crear le condizioni affinché i comunisti assumessero la guida della lotta per l’indipendenza vietnamita. La loro forza organizzativa aveva consentito loro di sopravvivere alla dura repressione francese, messa in atto inseguito alla vicenda dei soviet di Nghe An e Ha Tinh, laddove il loro unico concorrente –  il Partito nazionalista del Vietnam (VNQDD) – ne era uscito completamente distrutto. Come in Cina, essi vantavano una tattica straordinariamente flessibile – il Fronte nazionale democratico – mirante ad unire la nazione contro i giapponesi ed il governo coloniale francese, oramai sottoposto al controllo dei primi. Tuttavia, pur facendo appello ai sentimenti patriottici di tutti i vietnamiti, Ho aveva cura, nella sua “Lettera dall’estero”, di legare la lotta per l’indipendenza con la rivoluzione di classe, nel paese e a livello mondiale:
L’ora è scoccata! Innalzate la bandiera dell’insurrezione e guidate il popolo, in tutto il paese, per sconfiggere i  giapponesi e  i francesi! Il sacro appello della patria risuona nelle nostre orecchie; il sangue ardente dei nostri eroici predecessori pulsa attraverso i nostri cuori! Lo spirito della lotta del popolo cresce di fronte ai nostri occhi! Uniamoci e concentriamo la nostra azione, così da sconfiggere i giapponesi ed  i francesi.
La rivoluzione vietnamita trionferà!
La rivoluzione mondiale trionferà!

Non a caso egli era un comunista.

Il leninista in azione


Jean Lacouture, uno dei biografi di Ho, ha segnalato la forte influenza sul leader vietnamita di due idee leniniste: la nozione di “momento favorevole” ed il concetto di “avversario principale” (Lacouture 1967). La sua padronanza di questi due principi si manifestò pienamente nel momento in cui proclamò l’indipendenza del Vietnam nel 1945. Il “momento favorevole” è analogo al concetto di “contraddizione sovradeterminata”, espresso da Louis Althusser, indicante una particolare confluenza di forze e circostanze le quali, laddove si sia in grado di trarne vantaggio, premiano un’azione politica audace. Analizzando la Rivoluzione russa come “contraddizione sovradeterminata”, Altusser scrive: “la Russia alla vigilia di una rivoluzione proletaria, si trovava in ritardo di una rivoluzione borghese, gravida quindi di due rivoluzioni, incapace, anche differendo la prima, di contenere l’altra. Lenin aveva visto giusto distinguendo in questa situazione eccezionale e «senza uscita» (per le classi dirigenti) le condizioni oggettive di una rivoluzione in Russia, e creando sotto la forma di un partito comunista che non avesse anelli deboli le condizioni soggettive, il mezzo dell’ultimo assalto contro l’anello debole della catena imperialista” (Althusser 1972: 79). Tale fu la decisione di Lenin di prendere il potere nell’ottobre 1917. E tale fu quella di Ho di lanciare un’insurrezione generale e dichiarare l’indipendenza, rispettivamente nell’agosto e nel settembre del 1945, traendo vantaggio da una congiuntura nella quale i francesi erano stati disarmati dai giapponesi, e questi ultimi avevano, al oro volta, appena capitolato di fronte agli alleati, con la Francia che non era in grado di reclamare la colonia (Lacouture 1967: 112-113). Si trattava, come nel caso della Russia del 1917, di una situazione che praticamente invitava i comunisti ad agire. Agosto e settembre del 1945 videro un’insurrezione, relativamente incruenta, con i comunisti in grado di sfruttare a pieno la legittimità che si erano guadagnati, derivante dal ruolo guida svolto in cinque anni di lotta antifascista contro il regime coloniale francese e suoi supervisori giapponesi. 

L’elaborazione della “Dichiarazione d’indipendenza della Repubblica democratica del Vietnam”, dimostrava la padronanza da parte di Ho della tattica del fronte unito – il cui obiettivo centrale era appunto l’individuazione dell’avversario principale – non solo a livello nazionale, ma anche globale. Il problema fondamentale, nel 1945, consisteva nel prevenire le potenze occidentali, vittoriose sui giapponesi, di coalizzarsi contro i vietnamiti. Ho era ben consapevole del carattere di potenza imperiale degli USA. Tuttavia, era anche conscio che gli statunitensi avevano una loro tradizione anticolonialista, il che rappresentava un granello nell’ingranaggio della politica postbellica USA in Asia – un granello che rendeva assai scomodo per Washington mostrarsi a favore di una restaurazione del dominio francese in Indocina, persino tenendo conto dell’alleanza, durante la guerra, con il governo della Francia libera. 

Le buone relazioni stabilitesi tra comunisti e l’Office of Strategic Services (OSS) nel corso della campagna anti-giapponese fornirono una base alla strategia di Ho. Il suo richiamo all’incipit della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America – “che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità” – proprio all’inizio della Dichiarazione d’indipendenza del Vietnam, era un colpo da maestro, finalizzato ad approfondire la crepa tra la maggiore potenza globale ed un’impero coloniale pesantemente indebolito dalla guerra. 

Gli anni dal 1946 al 1954 rappresentarono il picco della sua leadership. Egli negoziò un’accordo con l’alto commissario francese Jean Sainteny, nel quale il vietnam veniva riconosciuto come “stato libero in seno all’Unione francese”. Un’accordo controverso, e al fine di guadagnare l’accettazione popolare, Ho condivise la complessa razionalità alla base del suo agire con una platea ostile riunitasi nel teatro municipale di Hanoi:

Siamo effettivamente indipendenti dall’agosto del 1945, ma sinora nessun potere ha riconosciuto la nostra indipendenza. L’accordo con la Francia apre la strada al riconoscimento internazionale. Esso ci condurrà verso una sempre più solida posizione a livello internazionale, il che rappresenta un enorme risultato. Vi saranno soltanto quindicimila soldati francese e rimarranno per cinque anni… vi è dimostrazione di intelligenza politica nel negoziare invece di combattere. Perché dovremmo sacrificare cinquantamila o centomila uomini quando possiamo ottenere l’indipendenza tramite il negoziato, probabilmente nel giro di cinque anni?… Io, Ho Chi Minh, vi ho sempre condotti lungo la via che porta alla libertà. Sapete bene che preferirei morire piuttosto che vendere il mio paese. Posso giurarvi che non vi ho venduti. (citato in Brocheux 2007: 116) 

Il discorso ribaltò gli umori della folla. Rivelò inoltre quella che Lacouture ha descritto come inclinazione di Ho al dibattito quale metodo per risolvere i problemi: “vi è qualcosa che non si discute in Ho, ed è la passione di convincere, un’aspirazione molto democratica a fa sì che gli argomenti prevalgano sulla costrizione” (Lacouture 1967: 240).

Le vicende successive avrebbero dimostrato che l’identificazione di Ho nell’accordo con Sainteny era stata una tattica saggia, ponendo la Francia sulla difensiva e gettando una capa di illegittimità sulla loro rottura dell’intesa e sulla conseguente guerra di riconquista.


Ho e la guerra di popolo


Come noto, la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi. In nessun altro caso il detto di von Claussewitz si è dimostrato altrettanto vero che in quello di Ho, il quale sempre oscillò magistralmente tra negoziato e guerra, senza mai perdere di vista l’obiettivo, ossia un Vietnam indipendente. Nel dicembre del 1946, a seguito del collasso dei negoziati con i francesi, egli era di nuovo in guerra.

Se il generale Vo Nguyen Giap è non di rado accreditato come un genio militare, grazie alla brillantezza strategica con la quale condusse la Battaglia di Dien Bien Phu, gli scritti di Ho rivelano anch’essi una comprensione globale dei principi della guerra di popolo. Nel suo “Appello dopo sei mesi di resistenza”, emesso il 14 giugno del 1947, Ho delineava con lungimiranza il corso dei successivi sette anni:
Il nemico punta ad una vittoria rapida. Se la guerra si trascina, soffrirà perdite crescenti e sarà sconfitto.
Questa è la ragione per la quale ricorriamo alla guerra protratta di resistenza, al fine di sviluppare le nostre forze e accumulare esperienza. Ci serviamo di tattiche di guerriglia per abbattere le forze nemiche, sino a quando un’offensiva generale non le spazzerà via.
Il nemico è come il fuoco e noi come l’acqua. L’acqua avrà certamente la meglio sul fuoco.
Inoltre, nella lunga guerra di resistenza ogni cittadino è un combattente, ogni villaggio una fortezza. I venti milioni di vietnamiti sono decisi a ridurre a brandelli i pochi guadagni di migliaia di colonialisti reazionari.

La discussione di questioni belliche occupa buona parte degli scritti di Ho successivi al 1947. In essi reitera in continuazione l’essenza di quella che definisce la “protratta guerra di resistenza”:
Il partito deve guidare la strategia militare
Stringersi al popolo, poiché esso è la sorgente della forza dell’esercito.
Lo scopo della guerriglia “non consiste nell’intraprendere battaglie su larga scala, bensì nel logorare il nemico, tormentandolo a tal punto che egli non può mangiare o dormire in pace, nel non concedergli tregua, nel consumarlo fisicamente e mentalmente, per infine annientarlo” (“Istruzioni rivolte alla conferenza sulla guerriglia”)
La guerriglia costituisce una fase necessaria, ma inevitabilmente, con lo spostarsi dei rapporti di forza a favore del popolo, la guerra passa dalla fase difensiva a quella di conflitto attivo e, da ultimo, alla “controffensiva generale”. Mentre è possibile determinare le fasi principali sulla base della situazione generale… non è possibile separare completamente una fase dall’altra come si taglia una torta. La durata di ciascuna fase dipende dalla situazione interna e mondiale, nonché dai cambiamenti nelle forze nemiche e nostre. (Rapporto politico per il Secondo congresso nazionale del Partito dei lavoratori del Vietnam)

Le analogie di tali prescrizioni con la teoria maoista della guerra di popolo sono impressionanti, ma non è certo se Ho, o Giap, le abbiano semplicemente tratte da Mao. Questi principi sembrerebbero essere emersi, in larga parte, da un processo di sperimentazione e apprendimento dagli errori, nel contesto di quel monumentale succedersi di tentativi ed errori che è stato la Rivoluzione vietnamita.

Con ciò non si vuole affermare che non abbia avuto luogo una fecondazione reciproca tra le due quasi simultanee guerre di popolo, considerati gli stretti contatti tra Ho, e altri comunisti vietnamiti, con i cinesi, nonché, nel caso del leader vietnamita, la diretta partecipazione, in alcune fasi della sua carriera di rivoluzionario, alla Rivoluzione cinese.


La sfida della riforma agraria


Anche mentre la lotta militare andava avanti, i problemi nella gestione delle diverse classi coinvolte nella battaglia nazionale per l’indipendenza non erano di facile soluzione e, nel contesto di una guerra di popolo, la risoluzione di simili questioni aveva un suo impatto sull’equazione militare. In proposito, gli scritti di Ho esprimevano la tensione tra la soddisfazione delle rivendicazioni dei contadini, i quali costituivano il 90 percento della popolazione, e la neutralizzazione delle classi superiori, in particolare quella dei proprietari terrieri.

Durante l’occupazione giapponese e i primi anni della ricolonizzazione francese, la politica di Ho e del partito consistette nel posporre la riforma agraria e nel promuovere una riduzione delle rendite, insieme alla confisca delle terre appartenenti ai francesi e ai vietnamiti filo-francesi.

Riduzione delle rendite significava costringere i proprietari terrieri, e i contadini ricchi, a diminuire le proprie entrate dal 50 al 20 percento , sulla base del principio operativo di “limitare lo sfruttamento dei contadini da parte dei proprietari feudali, procedendo al contempo a modifiche del sistema di proprietà, fintanto che tali misure non ostacolano il Fronte unito nazionale anticolonialista” (direttiva governativa citata in Brocheux 2007: 153).

Con la vittoria sui francesi ormai a portata di mano, nel 1953, il partito decise finalmente di implementare una radicale redistribuzione della terra. Brocheux suggerisce che sia stata la sfida posta da Stalin e dagli appena trionfanti comunisti cinesi a spingere Ho verso la riforma agraria (145). Il che è improbabile, data la centralità da lui, e dai suoi compagni, attribuita alla riforma agraria, intesa quale “contenuto principale” della fase democratica borghese della rivoluzione. Tuttavia, è vero che Ho riteneva che essa necessitasse di un’accurata pianificazione, e di essere implementata tenendo conto della complessità della struttura sociale rurale. Di fatto, già agli esordi della sua carriera di comunista, egli sottolineava le differenze tra le campagne europee e la società rurale asiatica:
Le condizioni sociali dei piccoli proprietari terrieri con terre dai dieci ai cento mau sono complesse ed imprevedibili. Con questa quota di terra, un contadino può finire per essere sfruttato, sfruttatore o neutrale. … La lotta di classe non assume le forme con le quali si svolge in occidente. I lavoratori mancano di coscienza, sono rassegnati e disorganizzati… In tal modo, se i contadini non hanno pressoché niente, i proprietari terrieri non dispongono comunque di grandi fortune… I primi son rassegnati al loro fato, i secondi moderati nei loro appetiti. Per cui il conflitto tra i loro interessi è attenuato. Ciò è innegabile.

Sebbene non fosse coinvolto direttamente nella sua applicazione, fu Ho, nel 1953, a definire la direzione strategica del programma di riforma agraria (“Rapporto per la Terza sessione dell’Assemblea nazionale”): 
Il problema fondamentale rimane irrisolto: le masse contadine non hanno terra o ne hanno poca. Ciò influisce sulle forze della resistenza e sul lavoro di produzione dei contadini.
Solo con l’attuazione della riforma agraria, dando le terre ai coltivatori, liberando le forze produttive delle campagne dal giogo della classe dei signori feudali, potremo farla finita con la povertà e l’arretratezza e mobilitare saldamente le enormi forze dei contadini, al fine di sviluppare la produzione e condurre la guerra di resistenza sino alla completa vittoria.

Ma anche mentre impostava la strategia di una radicale riforma agraria, Ho avvertiva che il feudalesimo avrebbe dovuto essere spazzato via “passo dopo passo e con discernimento”. Più nel dettaglio, significava che “nel corso della riforma agraria, dobbiamo assumere differenti atteggiamenti rispetto ai proprietari terrieri, in base alle loro attitudini politiche individuali. Ciò significa che a seconda dei casi singoli ordineremo la confisca o la requisizione, con o senza compensazione, ma non confische e requisizioni di massa senza compensazione”.

Questi accenti di cautela, tuttavia, andarono ben presto persi nel vortice che si abbatté sulle campagne, dove la riforma agraria, in molti casi, assunse la forma di una jacquerie organizzata. Molti furono gli abusi compiuti e le persone uccise – secondo Bui Tin, più di 10.000 persone vennero eliminate, molte delle quali “membri del partito o patrioti che avevano sostenuto la rivoluzione ma erano abbastanza benestanti” (Ruane 2000: 67). Ho, in seguito, intervenne personalmente per “rettificare” la campagna, il che implicava la destituzione di Truong Chinh – vicino alle posizioni cinesi, strettamente coinvolto nel processo – dalla carica di segretario generale. Ho guidò il percorso di autocritica del partito, lasciando però che fosse il generale Giap, suo uomo di fiducia, a dare voce alle sue opinioni e a rendere pubblica la critica che il partito rivolgeva a se stesso al 10° Congresso del comitato centrale:

(a) Nello svolgere il loro compito anti-feudale, i nostri quadri hanno sottovalutato, o peggio ancora, negato ogni acquisizione antimperialista, e hanno separato la riforma agraria dalla rivoluzione. Fatto ancor più grave, in alcune aree hanno reso i due processi reciprocamente esclusivi.
(b) Non siamo stati in grado di comprendere la necessità di ottenere consenso fra i contadini medi, inoltre avremmo dovuto concludere una qualche forma di alleanza con quelli ricchi, che abbiamo trattato alla stregua dei grandi proprietari.
(c) Abbiamo attaccato indiscriminatamente le famiglie in possesso di terre, senza alcuna considerazione per coloro che hanno servito la rivoluzione e per quelle famiglie con figli nell’esercito. Non abbiamo dimostrato indulgenza verso i proprietari terrieri che hanno partecipato alla resistenza, trattandone i figli allo stesso modo in cui abbiamo trattato quelli di altri proprietari terrieri.
(d) Vi sono state troppe deviazioni e troppe persone oneste sono state giustiziate. Abbiamo attaccato su un fronte troppo largo e, vedendo nemici dovunque, fatto ricorso al terrore, il quale si è diffuso eccessivamente.
(e) Nell’attuare il nostro programma di riforma agraria abbiamo mancato di rispettare i principi di libertà di fede e culto in molte aree.
(f) In regioni abitate da tribù minoritarie abbiamo attaccato i capi tribali con troppa veemenza, così offendendo, anziché rispettarli, i costumi e le usanze locali.
(g) Nel riorganizzare il partito abbiamo conferito eccessiva importanza alla nozione di classe sociale, invece di attenerci fermamente alla sola qualificazione politica. Anziché riorganizzare l’educazione, quale requisito essenziale, abbiamo fato ricorso esclusivamente a misure organizzative come provvedimenti disciplinari, espulsioni, esecuzioni, scioglimento di branche e cellule di partito. Ancor peggio, la tortura ha finito per essere considerata una pratica normale durante la riorganizzazione del partito. (citato in O’Neil 1969: 166-167)

Pur non avendo guidato direttamente la riforma agraria, e dunque non potendo essere considerato personalmente responsabile degli abusi compiuti,ad Ho è stato rimproverato di non essere intervenuto quando avvisato di gravi soprusi, limitandosi ad esprimere preoccupazione (Bui Tin 1999: 28). Non vi è dubbio  che la riforma agraria sul modello cinese contraddiceva l’enfasi posta precedentemente da Ho sull’unire piuttosto che dividere, sul negoziato da anteporre alla battaglia, sull’educazione anziché sulle misure burocratiche o organizzative e sul correggere le persone invece di trasformarle in paria.


Il marxista come umanista


Come nel caso di Mao, in Ho era presente un tratto da moralista. Ma nei suoi scritti a fini esortativi, egli adottava un approccio decisamente non-maoista alla moralità rivoluzionaria, trattenendosi dal caratterizzare colore con cui era in disaccordo, all’interno del partito, come nemici di classe o come inclini a “tendenze capitaliste”, sempre raccomandando l’unità rispetto alle differenze transitorie, nonché sostenendo la possibilità di riscatto e spingendo i quadri ad assistere coloro che avevano deviato dalla retta via. Ad esempio, in “Praticare la parsimonia e combattere la corruzione, gli sprechi e la burocrazia”, Ho afferma:
Vi sono persone entusiaste e fiduciose nel corso della lotta; esse non temono né pericoli, né avversità né nemici, e dunque hanno servito la rivoluzione egregiamente; ma non appena si sono trovate a detenere un minimo di autorità, ecco l’arroganza e la lussuria, l’indulgenza alla corruzione, allo spreco e a un’incosciente burocrazia, rendendosi colpevoli di fronte alla rivoluzione. È nostro dovere salvarle, aiutarle a riacquistare le virtù rivoluzionarie. Altri, pretendendo di servire la madrepatria, si sono abbandonati alla corruzione e agli sprechi, danneggiando il paese e il popolo. È nostro dovere educarli, e guidarli sulla via della rivoluzione.

Una delle cose più impressionanti della personalità di Ho è la capacità nell’esprimere un solido fondamento etico, quella qualità che, come notato in precedenza, spinse Khrushchev a definirlo un “santo del comunismo”, e Ruth Fischer, che ebbe modo di conoscerlo negli ambienti della terza internazionale, a dire che egli spiccava, “In mezzo a quegli uomini rotti all’azione rivoluzionaria, a quegli intellettuali esigenti”, perché “portava una nota di bontà, di semplicità che avvinceva”. Un’etica, quella di Ho, che derivava da molteplici fonti, essendo il marxismo solo una di esse, per quanto la più importante. Tra le altre, il confucianesimo ebbe un’influenza rilevante. Come sottolineato da Giap, “la quantità di cultura cinese che ebbe modo di assorbire durante l’infanzia fu così consistente, e talmente impressa nella sua mente, che egli era in grado di comporre poemi in caratteri cinesi, com’è appunto il caso delle sue celebri poesie. Pertanto, non sorprende che nei suoi discorsi e scritti ricorresse a concetti cinesi, e citasse detti confuciani, al fine di esprimere più chiaramente il proprio pensiero” (Vo Nguyen Giap 2011: 53).

Nel suo discutere di etica, vi era una salutare mancanza di dogmatismo. Sarebbe difficile immaginare, per esempio, le stesse espressioni di umanesimo in Mao:
il lato buono del confucianesimo è la spinta a migliorare se stessi nell’etica personale. Quello del cattolicesimo consiste nella benevolenza. Laddove quello del marxismo risiede nel metodo dialettico. Ancora, il lato positivo della dottrina di Sun Yat Sen è che si adatta alle condizioni del Vietnam. Confucio, Cristo, Marx e Sun Yat Sen hanno dei punti in comune, non è forse così? Tutti miravano alla felicità per il genere umano e al benessere della società. Se fossero vivi ancora oggi, sono convinto che riuscirebbero a vivere in armonia come buoni amici. Da parte mia, provo ad essere un loro umile allievo.

In Ho era presente anche una nota ascetica. Questa si manifestava non solo nel suo stile di vita, che comprendeva duro lavoro ed esercizi mattutini, bensì ancor più ovviamente nel suo celibato. Ho, afferma Sophie Quinn-Judge, ebbe alcune relazioni, ma nessuna a lungo termine. Quando interrogato sull’argomento, la sua spiegazione non differiva molto dalle motivazioni addotte dal Vaticano per il celibato dei preti, con la differenza che egli non lo imponeva ad altri:
Quando ero giovane ed operavo come attivista all’estero, non ero troppo brutto per essere amato dalle ragazze. Ovunque andassi, vi erano almeno due o tre ragazze attratte da me. Qualcuna espresse persino il desiderio di divenire la mia compagna… Tuttavia, per realizzare le mie aspirazioni, ho sempre dovuto lavorare in segretezza. Ho sempre pensato che il vincolo matrimoniale avrebbe limitato il mio lavoro perché, laddove avessi avuto una moglie e dei figli, difficilmente avrei potuto nascondermi. Durante il tempo passato in Francia, molti comunisti francesi mi consigliarono di sposarmi. Lo stesso accadde quando giunsi in Cina e incontrai Zhou En-Lai, Zhou De ed altri. Io spiegai loro le mie ragioni, ed essi compresero. (citato in Khanh Hong 2010: 91)

Un abbozzo della personalità di Ho sarebbe incompleto senza citare una certa cavalleria presente nel suo carattere, una qualità che si rivolgeva, oltreché alle donne e agli amici, anche agli avversari. Tra questi ultimi il generale Raoul Salan, il quale accompagnò Ho durante la sua visita in Francia, nel 1946, compiuta nell’infruttuoso tentativo di ottenere il riconoscimento dell’indipendenza del Vietnam. Col riprendere delle ostilità tra francesi e vietnamiti, Ho apprese che Salan era stato nominato comandante in capo delle forze francesi in Indocina e gli scrisse una lettera contenente i seguenti passi: “Eravamo buoni amici. Ora, circostanze al di là del nostro controllo ci hanno trasformato in avversari, e ritengo ciò deplorevole. Da parte mia, il sacro dovere di patriota mi obbliga a combattere per la mia patria e i miei connazionali. Da parte vostra, la responsabilità del combattente vi obbliga a fare ciò che in cuor vostro non desiderate… Poiché ci ritroviamo a dover combattere l’uno contro l’altro, spero sarete un avversario cavalleresco e un galantuomo, in attesa del momento in cui potremo nuovamente essere amici” (citato in Song Thanh 2012: 528-529).

Una dichiarazione di amicizia trascendente le barriere nazionali ed ideologiche, espressa mentre Ho pianificava di combattere sino alla morte, senz’altro rara, al punto da spingere un commentatore vietnamita a definire il rapporto tra Ho e Salan “una lotta tra autentici cavalieri”.


Da zio affettuoso a padre inflessibile


A suscitare interesse è il fatto che l’umanesimo di Ho e la sua cortesia coesistevano con la ferrea determinazione ad ottenere ciò che voleva. In alcune occasioni non mancava di far ricorso a misure estreme, specialmente se riteneva che il dialogo con i “concorrenti” dei comunisti per la lealtà dei vietnamiti fosse divenuto ormai impossibile. Come nota Lacouture (1967: 230):
Nel nord i nazionalisti anticomunisti e i cattolici dal settembre 1945 al luglio 1946; nel sud i trockijsti, oppure gli «hoa hao» recalcitranti conobbero la «fermezza» d’uno zio che, al caso, può tramutarsi in un padre fustigatore, unicamente preoccupato dell’ordine rivoluzionario. 

L’episodio che viene solitamente citato al fine di illustrare il lato duro di Ho è l’arresto, di cui egli sarebbe stato l’artefice, del nazionalista vietnamita Phan Boi Chau, allo scopo di liberarsi di un rivale assai rispettato fra gli esuli politici vietnamiti nella Canton del 1925. Tuttavia, va precisato che numerosi studiosi, come Sophie Quinn-Judge (2007: 74-76), contestano il ruolo di Ho nell’arresto di Phan. 

Nei confronti dei trockijsti utilizzava un linguaggio ingiurioso e non esitava a mostrare la propria lealtà a Stalin: “Per quanto concerne i trockijsti, non vi può essere né compromesso, né alcuna concessione. È necessario fare tutto il possibile per smascherarli quali agenti del fascismo e annientarli politicamente”. Che dichiarazioni di tale durezza potessero condurre all’eliminazione non solo politica ma fisica non dovrebbe sorprendere. È stato riferito che il Viet Minh ha eliminato dei trockijsti legandoli tra loro, per poi gettarli in un fiume lasciandoli annegare. Si dice anche che, nel 1946, il Viet Minh “arrestò Nguyen Ta Thu Than, il più dotato leader e scrittore trockijsta, alla stazione di Quang Ngai, per poi condurlo in una spiaggia e giustiziarlo” (Moyar 2006: 18). Per quanto Ho potesse non essere coinvolto personalmente in queste morti, non si può ignorare la sua responsabilità nell’attuazione di una linea politica estremamente dura che incoraggiò simili abusi.


Dalla democrazia nazionale al socialismo


Durante la sua vita, Ho fu perseguitato dall’interrogativo circa la sua identità politica, ovvero se egli era principalmente un nazionalista o un comunista. Per i rivali nel movimento nazionalista in Vietnam, così come per i nemici a Parigi e a Washington, egli era un agente della rivoluzione mondiale, l’uomo dell’Internazionale comunista per excellence. Per i trockijsti, e per alcuni rivali nel Partito comunista indocinese, era un nazionalista piccolo borghese oppure colpevole di “deviazione nazionalista”. Pare che Stalin lo sospettasse di malsane tendenze nazionaliste, sfidandolo ad applicare la riforma agraria al fine di metterlo alla prova (Brocheaux 2007: 145).

La situazione successiva alla disfatta francese nel 1954, tuttavia, dimostrò come Ho fosse un leninista devoto. Ovvero, fedele alle “Tesi sulle questioni nazionale e coloniale” di Lenin, nelle quali era contenuta la teoria di una rivoluzione democratica borghese seguita da quella socialista, e che tanta influenza esercitarono su di lui nei primi anni Venti. Col Vietnam diviso tra il nord sovrano ed  il sud sotto controllo USA, Ho adatto questa teoria alle specifiche circostanze del suo paese:
Oggi, la Rivoluzione vietnamiti si trova di fronte due compiti: primo la costruzione del socialismo nel nord del paese e, secondo, il compimento della rivoluzione democratica nazionale nel sud. Questi due compiti hanno un obiettivo comune: il rafforzamento della pace e aprire la strada per la riunificazione sulle basi dell’indipendenza e della democrazia.

Tali rivendicazioni, rivoluzione socialista e indipendenza nazionale, venivano, sul modello leninista, riformulate creativamente, al fine di rispondere ad una congiuntura storica particolare, ma non vi era alcun dubbio che il socialismo in seno ad una nazione indipendente fosse l’obiettivo strategico. Ho era scomparso da circa sei anni nel momento in cui il paese si era liberato degli statunitensi, per essere riunificato nel marzo del 1975. Ma, fedeli al suo punto di vista leninista, i seguaci di Ho dichiararono immediatamente completata la rivoluzione nazionale borghese nel sud, battezzando l’intero paese come Repubblica socialista del Vietnam. Per Ho, autentico nazionalismo significava lavorare al fine di portare il socialismo in uno stato nazione, il quale sarebbe diventato parte di un ordine internazionale costituito, a sua volta, da stati nazione indipendenti e socialisti.


Un pragmatico marxista


Ho non ha lasciato innovazioni teoriche significative, tanto meno un corpus teorico organico. Questo, ovviamente, non ha impedito ad alcuni, nel Partito comunista vietnamita, di parlare di un “pensiero di Ho Chi Minh”, inteso come un nuovo sviluppo nella teoria marxista-leninista. Non sorprende che ciò abbia suscitato un certo scetticismo, poiché i vietnamiti sanno che Ho non ha lasciato un insieme completo di scritti teorici.

Dove eccelleva veramente era nella capacità di adattare le idee astratte del leninismo alla realtà vietnamita, sviluppando una strategia e una tattica per la rivoluzione nazionale basate su di esse, nonché costruendo un’organizzazione, il Partito comunista, al fine di porle in pratica. Probabilmente, il suo approccio analitico emerge al meglio, nella sua articolazione, nel discorso tenuto in occasione dell’inaugurazione del primo corso teorico della scuola Nguyen Ai Quoc, il 7 settembre 1957:
La realtà consiste di problemi da risolvere e di contraddizioni insite nelle cose. Essendo noi quadri rivoluzionari, la nostra realtà è costituita dalla risoluzione dei problemi che la rivoluzione ci pone. La vita reale è immensa. Essa copre il lavoro ed il pensiero di un individuo, le politiche e la linea del partito, la sua esperienza storica ed i problemi interni e mondiali. Nel corso dei nostri studi, saranno queste le realtà con le quali dovremo rimanere in contatto.
Grazie alla sua capacità di combinare il marxismo-leninismo con l’attuale situazione del paese, il nostro partito ha ottenuto numerosi successi nel corso della sua attività. Tuttavia, la combinazione della verità marxista-leninista con la pratica della Rivoluzione vietnamita non è completa, e si è accompagnata a numerosi errori, in particolare quelli commessi durante la riforma agraria, il riordino dell’organizzazione e la costruzione economica. Al momento, nell’edificare il socialismo, sebbene possiamo contare sulla ricca esperienza di paesi fratelli, non possiamo limitarci ad applicare quest’ultima meccanicamente, poiché il nostro paese ha le sue peculiarità. L’indifferenza alle particolarità di una nazione, nel processo di apprendimento dell’esperienza compiuta da altre, costituisce un grave errore, una form di dogmatismo. Ma la sottovalutazione del ruolo delle peculiarità nazionali e la negazione del valore universale delle grandi, e fondamentali, esperienze dei paesi fratelli, condurrebbero a seri problemi di carattere revisionista (citato in Woddis: 111-112).

Le idee hanno un ruolo nel corso della storia. Ed è stata una delle capacità di Ho il tradurre le idee rivoluzionarie in un programma pragmatico ma allo stesso tempo ispiratore, con una solida organizzazione finalizzata a metterlo in pratica con successo, ciò che rende questa personalità eccezionale.


Ho e la costruzione del socialismo


Quanto le idee di Ho, in particolare quelle relative alla “costruzione del socialismo”, possano essere utili oggi – nel momento in cui il Vietnam cerca di superare il sottosviluppo, ed il socialismo classico è stato discreditato – è una questione interessante.

Sia durante il periodo della rivoluzione che della costruzione del socialismo nel Vietnam del nord, Ho si dimostrò sempre sensibile allo stato dei rapporti di classe in ambito agrario. Un delle ragioni di tale atteggiamento risiedeva nella sua visione dell’agricoltura come settore chiave dell’economia, perlomeno nelle prime fasi dello sviluppo nazionale. “Se vogliamo sviluppare l’industria e l’economia in generale, dovremmo metter l’agricoltura come fondamento. Se non sviluppiamo l’agricoltura, non disporremo di basi per sviluppare l’industria, poiché la prima fornisce materie prime e cibo alla seconda e si serve di beni da essa prodotti” (citato in Song Thanh 2012: 359). In un’altra occasione, argomentando contro un collega che promuoveva la concentrazione delle risorse sull’industria pesante ai fini di una rapida industrializzazione, egli avrebbe così risposto, “è una decisione soggettiva se vogliamo procedere ad un’industrializzazione rapida. Pertanto, nella pianificazione economica, dovremmo promuovere innanzitutto l’agricoltura, in seguito l’artigianato e l’industria leggera, e solo più tardi quella pesante”.

Ho fece mostra di altrettanta sensibilità riguardo ai rapporti di classe nelle città, e non solo per ragioni legate all’esigenza di tenere le classi medie e gli imprenditori dalla parte della rivoluzione, bensì ai fin della ricostruzione nazionale. Se ho foste stato vivi nei tardi anni Settanta, quasi certamente avrebbe fermato le espropriazioni di piccoli negozi e fabbriche appartenenti a sino-vietnamiti, le quali avrebbero poi scatenato la fuga dei cosiddetti “boat people”. Si può supporre avrebbe chiesto un passo indietro rispetto al programma di costruzione socialista accelerata, il quale avrebbe provocato enormi problemi, tanto nelle campagne quanto nelle città, nei tardi anni Settanta e nei primi Ottanta. Ma si sarebbe spinto ad approvare le riforme di mercato, il riemergere del settore privato ed il corteggiamento degli investitoti stranieri che hanno segnato l’economia politica del Vietnam negli ultimi due decenni? Tenendo conto dei forte tratti pragmatisti e umanisti presenti nel suo marxismo, è lecito sospettare che avrebbe appoggiato tale corso, sebbene probabilmente non avrebbe sostenuto le affermazioni di un commentatore, secondo il quale “in base alla legge dello sviluppo, in società, vi sarà una parte della popolazione che si arricchisce per prima, ed altre parti in seguito, ma il tenore di vita della gente è più alto, e cresce passo dopo passo”.

Il Vietnam, a grandi linee, ha seguito la via di Deng, consistente nello stimolare un rapido sviluppo capitalistico tramite l’integrazione nell’economia globale, allo scopo di raggiungere quella prosperità che Ho considerava un pilastro fondamentale del socialismo. Il paese ha ottenuto qualche successo, divenendo uno dei principali esportatori mondiali di riso e caffè. Sfortunatamente, il suo schema di sviluppo post-1978 ha riprodotto anche le crescenti ed acute ineguaglianze del modello cinese. Per quanto il coefficiente di Gini (il miglior indice della disuguaglianza) sia basso rispetto ad altri paesi del sudest asiatico, è comunque in aumento. Nel 2013, il numero di persone estremamente povere in Vietnam è cresciuto del 14, 7 percento, il secondo tasso più alto dell’area, dopo la Thailandia, spingendo il leader del Partito comunista Nguyen Phu Trong ad avvertire che: “il divario tra poveri e ricchi mostra segni di peggioramento”. Trong, inoltre, ha aggiunto che tale divario esiste anche all’interno del partito. “Alcuni membri del partito si sono arricchiti così rapidamente, da permettersi di condurre una vita di agi, a miglia di distanza da quella dei lavoratori” (Thanh Nien News 2013).

Come avrebbe reagito Ho a questa situazione fosse stato ancora vivo? È difficile pensare che simili sviluppi non avrebbero destato la sua preoccupazione, o che non si sarebbe attivato per invertirla. Ma esattamente come per i dirigenti attuali del paese, gli sarebbe stato difficile contenere un processo, nel quale il meccanismo scelto al fine di raggiungere la prosperità – vale a dire, un rapido sviluppo capitalistico – produce le condizioni in cui emergono marcate ineguaglianze, le quali, sempre più, stanno conducendo il paese lontano dall’obiettivo dichiarato dell realizzazione del socialismo.


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