Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com Voce
scritta da Walden Bello per The Palgrave Encyclpedia of Imperialism
and Anti-Imperialism.
Walden Bello è attualmente membro della Camera dei rappresentanti della Repubblica delle Filippine, in rappresentanza di Akbayan (Partito d’azione dei cittadini). Oltre all’attività politica, è Visiting Professor alla St Mary’s University di Halifax, Canada, e Adjunct Professor alla State University di New York a Binghamton.
Walden Bello è attualmente membro della Camera dei rappresentanti della Repubblica delle Filippine, in rappresentanza di Akbayan (Partito d’azione dei cittadini). Oltre all’attività politica, è Visiting Professor alla St Mary’s University di Halifax, Canada, e Adjunct Professor alla State University di New York a Binghamton.
Una
panoramica
Una
panoramica
Ho
Chi Minh – conosciuto anche come Nguyen Sinh Cung, Nguyen Tat Thanh
e Nguyen Ai Quoc – è stato la figura centrale della lotta
vietnamita per la liberazione nazionale nel XX secolo. Nacque nella
provincia di Nghe An, Vietnam centrale, il 19 maggio 1890. Il padre,
che era riuscito a superare gli esami per accedere al mandarinato
dopo tre tentativi, ma aveva perso l’opportunità di divenire un
burocrate reale, gli aveva insegnato la scrittura cinese. Costretto
ad interrompere la sua istruzione formale in quanto accusato di aver
preso parte ad uno sciopero di contadini, Ho firmò per imbarcarsi
come cuoco e tuttofare in una nave francese, lasciando il Vietnam nel
1911. Ciò gli consentì di visitare, nel corso degli anni
successivi, New York, Londra, Parigi, l’Algeria, la Tunisia e il
Senegal. Il suo primo significativo atto politico consistette nel
presentare la “Petizione della nazione annamita” alla conferenza
di versailles, nel 1919. Ma sulla base di quanto da lui steso
riferito, l’evento trasformativo della sua vita ebbe luogo nel
1920, quando venne a contatto con le “Tesi sulle questioni
nazionale e coloniale” di Lenin. Col che ebbe inizio una
rimarchevole carriera nel movimento comunista internazionale. Egli fu
tra i fondatori del Partito comunista francese, e operò in diversi
paesi, particolarmente in Cina, quale agente della Terza
internazionale, fondata al fine di assistere le lotte rivoluzionarie
a livello globale.
Nel
1930 presiedeva, ad Hong Kong, la conferenza che avrebbe portato
all’unificazione delle varie organizzazioni comuniste vietnamite.
Seguirono alcuni anni durante i quali si trovò messo da parte e
assegnato a Mosca, probabilmente a causa di divergenze circa la
cosiddetta linea del “Terzo periodo”, allora prevalente
nell’Internazionale, in base alla quale veniva posta eguale enfasi
sull’opposizione all’imperialismo e sullo svolgimento della lotta
di classe interna. Una tendenza che secondo Ho, a quanto pare, minava
la creazione di un ampio fronte nazionalista, necessario per
abbattere il dominio coloniale francese.
Col
fascismo in ascesa in Europa, l’Internazionale comunista abbandonò
la linea del Terzo periodo a favore di una strategia basata sulla
formazione di un ampio “Fronte popolare”. Questi sviluppi
aprirono la strada al ritorno di Ho in Asia, nel 1939, e nel 1941 in
Vietnam, dove presiedette l’ottavo congresso del Partito comunista
indocinese, obiettivo del quale era la creazione di un largo fronte
unito contro l’imperialismo e il fascismo. Da questo momento in poi
la sua guida della rivoluzione sarebbe stata indiscussa.
Nell’agosto
del 1945, Il Partito comunista lanciava un’insurrezione generale al
fine di prendere il potere, ed il 2 settembre Ho leggeva in piazza Ba
Dinh, ad Hanoi, la Dichiarazione d’indipendenza dal dominio
coloniale francese. Il leader vietnamita cercò di negoziare un
ritiro pacifico della Francia, ma una volta fallito questo tentativo
condusse una lotta, protrattasi per nove anni, che culminò nella
catastrofica disfatta francese di Dien Bien Puh, nel 1954. Quello
stesso anno, alla Conferenza di Ginevra, il Vietnam veniva
temporaneamente suddiviso in due zone, le quali avrebbero dovuto
riunirsi, due anni dopo, a seguito di elezioni nazionali, che ci si
aspettava Ho avrebbe vinto agevolmente.
Quando
gli statunitensi fecero marcia indietro sull’accordo, installando
un governo del Vietnam del sud, ebbero inizio altri 20 anni di
guerra, che ebbero fine nel 1975 con la completa sconfitta di
Washington. Ho, tuttavia, non visse abbastanza da vedere la vittoria
finale e l’unificazione del paese, scomparve infatti il 2 settembre
del 1969. Ma la sua fiducia nella futura riunificazione del Vietnam
non vacillò mai. Una sicurezza colta da una dichiarazione del 1966,
rilasciata nel momento in cui gli USA intensificavano i
bombardamenti, preparandosi ad inviare ancora più truppe in Vietnam:
“Gli imperialisti USA possono mandare in questo paese 500.000
truppe, e anche di più… La guerra può continuare per cinque,
dieci, vent’anni e ancora oltre. Hanoi, Haiphong ed altre città
possono essere distrutte. Ma il popolo vietnamita non è in alcun
modo intimorito! Niente è più prezioso dell’indipendenza e della
libertà. Quando il giorno della vittoria sarà arrivato,
ricostruiremo il nostro paese, rendendolo ancora più bello e
magnifico” (citato in Vo Nguyen Giap 2011: 42).
La leggenda
Ho
Chi Minh fu una leggenda della sua epoca, e come ogni leggenda che si
rispetti, manifestò differenti personalità a coloro che lavorarono
con lui, lo incontrarono o lo studiarono. Agli occhi di Nikita
Khrushchev appariva come una sorta di “santo del comunismo”:
Ho avuto modo di incontrare molte persone nel corso della mia carriera politica, ma nessuna mi ha fatto una così singolare impressione. I credenti parlano spesso degli apostoli. Ebbene, per il suo modo di vita e l’influenza esercitata sui suoi pari, Ho Chi Min è comparabile a questi “santi apostoli”. Un apostolo della rivoluzione, beninteso. Non dimenticherò mai l’alone di purezza e sincerità nei suoi occhi. La sincerità di un comunista incorruttibile e la purezza di un uomo totalmente votato alla propria causa, nei principi e nell’azione. (citato in Brocheux 2007: 144)
Al
contrario, a detta di Sophie Quinn-Judge (autrice del miglior studio
circa l’attività di Ho nel periodo 1919-41), sebbene egli fosse
motivato “da un sincero patriottismo e da un profondo sdegno nei
confronti dell’imperialismo francese”:
Non si trattava di una sorta di sant’uomo del comunismo. Egli visse con varie donne in diversi periodi, fece compromessi e infiltrò altri partiti nazionalisti. Non sempre ebbe un atteggiamento franco – in molte situazioni avrebbe ritenuto avventato l’essere onesto circa le proprie convinzioni politiche. La profondità del suo attaccamento al comunismo è difficile da valutare – la sola cosa che si può affermare è il suo scarso interesse per il dogma. La via da lui seguita era spesso frutto di una scelta fra una serie di opzioni, limitate da eventi fuori dal suo controllo. (Quinn-Judge 2002: 256)
Ruth
Fischer, una contemporanea nonché collega nell’Internazionale
comunista, forniva ancora un’altro punto di vista, più sfumato
rispetto a quelli di Khrushchev e Quinn-Judge:
In mezzo a quegli uomini rotti all’azione rivoluzionaria, a quegli intellettuali esigenti, egli portava una nota di bontà, di semplicità che avvinceva. Era in mezzo a noi il bravo ragazzo, che ne sapeva di più, d’altronde, di quanto non lasciasse vedere, e quella fama meritata gli evitò di lasciarsi invischiare nei conflitti interni. Senza contare che la sua mentalità lo portava molto di più verso l’azione che verso le discussioni dottrinarie, e che sempre, in seno la movimento, egli fu un empirico. Ma tutto ciò non gli diminuiva la considerazione dei compagni e grande era il suo prestigio. (citata in Lacouture: 53)
L’uomo d’azione come scrittore
Uomo
d’azione per antonomasia, Ho era nondimeno dedito alla scrittura e
alla riflessione. Del resto, era un propagandista assai abile. Un suo
breve scritto sul linciaggio, sottotitolato “Un aspetto poco
conosciuto della civilizzazione americana”, scritto nel 1924, a
distanza di ottant’anni, non ha perso niente della sua forza ed
immediatezza, in gran parte dovute alla padronanza dell’ironia e
del sarcasmo:
Immaginate un’orda furiosa, i pugni stretti, gli occhi iniettati di sangue, la schiuma alla bocca, urlante insulti e maledizioni… Un orda trasportata dall’ebrezza selvaggia di un delitto che verrà commesso senza alcun rischio. Armati di bastoni, torce, rivoltelle, corde, coltelli, forbici, in una parola, con tutto ciò che può servire ad uccidere e ferire.
Immaginate in mezzo ad una simile marea umana un relitto di carne nera, spintonato, picchiato, calpestato, lacerato, sfregiato, insultato, stratonato da una parte all’altra, ricoperto di sangue, inerte…
In un’ondata di odio e bestialità, i linciatori trascinano il nero verso un bosco o una piazza. Lo legano ad un albero, gli versano addosso del cherosene, ricoprendolo di materiale infiammabile. Nell’attesa che il fuoco lo avvolga, gli rompono i denti, uno ad uno. Dopo, gli cavano gli occhi. Ciuffi crespi di capelli vengono strappati dalla sua testa assieme a brandelli di pelle, scoprendo un cranio sanguinante…
“Giustizia popolare”, come dicono da quelle parti, è fatta. Placatasi, la folla si congratula con gli organizzatori, per poi scorrere via lentamente e in allegria, come dopo una festa, dandosi appuntamento l’un l’altro alla prossima occasione.
Mentre a terra, nel puzzo di grasso e fumo, una testa nera, mutilata e bruciata, deforme, sogghigna orribilmente e sembra domandare al sole calante, “è questa, dunque, la civilizzazione?” (Ho 1969 [1929]: 20-21)
Nonostante
scrivesse molto, l’innovazione teorica non era il suo forte. Cosa
che egli ammetteva prontamente. Di fatto, correva voce che Ho
affermasse, non senza un certo sarcasmo, che egli non aveva bisogno
di scrivere, dato che Mao Zedong aveva già scritto tutto ciò che
era necessario (Masina 1960: 18).
Dunque
perché leggere Ho? Non tanto per trovarvi una qualche originalità
teoretica, bensì per rendersi conto di come un rivoluzionario
impegnato, dotato di perspicacia, si sforzasse di tradurre concetti e
idee, con i quali era entrato in contato da attivista internazionale
nei circoli marxisti-leninisti, in una strategia, una tattica ed
un’organizzazione in grado di liberare, nel corso della prima meta
del XX secolo, un paese colonizzato, sconfiggendo nel corso di tale
processo ben due imperi: la Francia e gli Stati Uniti. Leggerlo
significa assistere alla creativa collisione fra marxismo e realtà
coloniale, sfociante nell’innovativo mutamento del paradigma di
classe e conflitto di classe, nella sua migrazione dal luogo
d’origine, l’Europa, all’Asia.
Il giovane Ho
Ho
giunse alla maturità politica nella turbolenta epoca scatenatasi a
seguito della Prima guerra mondiale. Per circa un decennio, dopo il
1911, l’anno in cui lasciò il Vietnam, visse per mare come cuoco
di bordo e tuttofare, visitando diverse parti del mondo, comprese New
York e Londra, prima di stabilirsi per alcuni anni a Parigi a partire
dal 1919. Quale attivista per la libertà del Vietnam sin
dall’inizio, attirò l’attenzione promuovendo la causa del suo
paese fra le delegazioni estere durante la Conferenza di Versailles
del 1919. Come per molti altri rappresentanti dei paesi colonizzati,
il richiamo della conferenza era dovuto alle promesse del presidente
Woodrow Wilson riguardo l’autodeterminazione delle nazioni
assoggettate.
Il
giovane Ho, Nguyen Ai Quoc come era conosciuto all’epoca, non aveva
remore nell’esprimere la preminenza della lotta contro il
colonialismo quale criterio per stabilire con chi lavorare. Allo
storico Congresso di Tours, quando la maggioranza della SFIO (Sezione
francese dell’Internazionale operaia) votò per unirsi alla
trionfante Terza internazionale, messa in campo dai bolscevichi, Ho
intervenne affermando che “il Partito socialista deve agire
efficacemente in favore dei nativi oppressi… vorremo vedere in
questa sua adesione alla Terza internazionale la promessa che d’ora
in poi alla questione coloniale verrà attribuita l’importanza che
merita”.
Ciò
che distingueva Ho dagli altri rivoluzionari nazionalisti e delle
colonie, secondo il noto corrispondente di guerra francese Bernard
Fall, era il fatto che, nonostante fosse appassionatamente devoto
alla causa dell’indipendenza del Vietnam, egli comprendeva la
condizione della sua patria, in quanto paese coloniale, come “tipica
dell’intero sistema coloniale” (citato in Fall 1967: vi). Ho
sentiva dunque una profonda affinità con gli altri popoli
intrappolati nella stessa rete di oppressione, conservando lungo
tutta la sua vita la convinzione per cui l’emancipazione, oltreché
nazionale, doveva essere universale. La sua “Relazione sulla
questione nazionale e coloniale al V congresso dell’Internazionale
comunista”, non solo costituisce una descrizione globale del
sistema coloniale francese, ma anche un’infiammata dichiarazione di
solidarietà verso le popolazioni arabe, africane e del Pacifico
sotto dominio della Francia. Nella prospettiva di Ho, inoltre, la
questione nazionale era strettamente legata a quella di classe.
Una
visione di portata mondiale quella di Ho, frutto non solo della sua
esperienza giovanile di figlio di un insegnante impoverito, il quale
aveva scelto di non servire come burocrate di un regno oramai ridotto
a cliente della Francia, ma anche della sua condizione di classe come
persona di colore che, per oltre un decennio, si era dovuta
guadagnare da vivere a bordo di una nave che seguiva rotte
internazionali. Pochi luoghi di lavoro sono caratterizzati da una
forza lavoro internazionale come quella delle navi di lunga
percorrenza, e questa comune esperienza con lavoratori di tutti i
colori non mancò certo di costituire un fattore della sua adesione
al marxismo.
La scoperta dell’opera di Lenin
Il
tramite fondamentale verso il futuro socialista di Ho fu la figura di
Lenin. Vale la pena, in proposito, citare il resoconto, da egli
stesso fornito, circa la sua folgorazione sulla via di Damasco,
contenuto in un saggio intitolato “Il
cammino che mi ha condotto al leninismo“:
Ciò che mi interessava sapere – e questo era proprio quello di cui non si dibatteva in quelle riunioni – era: quale delle Internazionali si pone al fianco dei popoli dei paesi coloniali?
Posi questa domanda – a mio parere, la più importante – in una delle riunioni. Alcuni compagni mi risposero: “Sarà la Terza, no la Seconda”. E un compagno mi diede da leggere le “Tesi sulle questioni nazionale e coloniale” di Lenin, pubblicate dalla rivista L’Humanité.
C’erano termini politici difficili da capire in questo libro, ma leggendolo e rileggendolo, ne capii finalmente il senso. Che entusiasmo, emozione, fiducia e chiaroveggenza infuse in me! Ero pieno di allegria, fino alle lacrime. Anche se ero solo nella mia camera, declamavo come se mi trovassi davanti a una gran folla di popolo: “Cari martiri compatrioti! Questo è quello di cui abbiamo bisogno! Qui c’è il cammino per la nostra liberazione!”
Le
“Tesi” leniniane sono state probabilmente il più significativo
documento prodotto dalla Terza internazionale. Il leader
rivoluzionario russo vi esponeva tre punti salienti, che sarebbero
stati fondamentali, in seguito, nella formulazione della strategia
dei comunisti vietnamiti, così come di altri paesi asiatici. Primo,
“la pietra angolare di tutta la politica dell’Internazionale
comunista nelle questioni nazionale e coloniale deve essere
l’avvicinamento dei proletari e delle masse lavoratrici di tutte le
nazioni e di tutti i paesi ai fini della lotta rivoluzionaria comune
per rovesciare i grandi proprietari terrieri e la borghesia. Solo
questo avvicinamento potrà infatti garantire la vittoria sul
capitalismo, senza la quale è impossibile abolire l’oppressione e
la disuguaglianza nazionale” (Lenin, 1967 [1920]: 161).
Secondo,
“la necessità di appoggiare particolarmente il movimento contadino
dei paesi arretrati contro i grandi proprietari fondiari, contro la
grande proprietà terriera, contro qualsiasi manifestazione e
sopravvivenza di feudalesimo, e la necessità di lottare per
imprimere al movimento contadino il carattere più rivoluzionario
mediante la più stretta alleanza tra il proletariato comunista
dell’Europa occidentale e il movimento rivoluzionario contadino
dell’oriente, delle colonie e dei paesi arretrati in
genere” (Lenin, 1967 [1920]: 164).
Terzo,
il compito immediato, per quanto riguardava le colonie ed i paesi
oppressi, consisteva nel sostenere i movimenti democratici borghesi
nazionali – sebbene, “solo a condizione che, in tutti i paesi
arretrati, gli elementi dei futuri partiti proletari – comunisti di
fatto e non soltanto di nome – siano raggruppati ed educati nella
coscienza dei loro compiti particolari, consistenti nella lotta
contro i movimenti democratici borghesi in seno alla loro
nazione” (Lenin, 1967 [1920]: 164). Il momento della
rivoluzione socialista sarebbe giunto più tardi.
Queste
tesi, che oggi potrebbero non sembrare controverse, ebbero un
significato decisivo nel momento in cui vennero espresse per la prima
volta.
Il
primo punto prendeva di petto la negligenza riguardo la questione
nazionale, prevalente, di fatto, tra i progressisti europei nel
periodo tra le due guerre. Durante il V congresso del Comintern, nel
1924, un frustrato Ho portava le argomentazioni di Lenin un passo
avanti, affermando che, senza affrontare in modo decisivo la
questione coloniale, i socialisti non si sarebbero potuti aspettare
la vittoria della rivoluzione in occidente.
Vi chiedo di scusare la mia franchezza, ma non posso fare a meno di notare che i discorsi dei compagni provenienti dalla madrepatria danno l’impressione di voler uccidere il serpente schiacciandogli la coda. Tutti voi sapete che il veleno e la vitalità del serpente capitalista sono concentrati più nelle colonie che nella madrepatria… Eppure, nelle nostre discussioni circa la rivoluzione voi dimenticate di parlare delle colonie… Perché dimenticate le colonie, dato che il capitalismo se ne serve per il proprio sostegno, per la propria difesa, nonché per contrastarvi? (Nguyen Ai Quoc 1974: 309)
Il
secondo punto, riguardante il potenziale rivoluzionario dei contadini
nelle colonie, tendeva anch’esso ad essere trascurato. Non solo a
causa della centralità, in ambito socialista, del ruolo guida della
classe lavoratrice europea nella rivoluzione mondiale – la quale,
così si riteneva ancora all’epoca, sarebbe dovuta esplodere nei
paesi capitalisti sviluppati. Bensì anche in ragione del classico
disdegno da parte marxista per il mondo contadino, così come
espresso nei commenti di Marx circa “l’idiotismo della vita
rurale”, e nel suo paragone tra i contadini ed un “sacco di
patate”, in riferimento alla loro capacità di organizzarsi
politicamente.
La
terza proposizione era quella che esercitava la maggiore attrazione
su Ho. Ma anche quella che avrebbe suscitato maggiori controversie
nella storia dell’Internazionale comunista. Questa tesi, in
seguito, sarebbe divenuta nota come teoria delle “due fasi” della
rivoluzione. Da un certo punto di vista, costituiva semplicemente un
tentativo di formalizzare l’esperienza rivoluzionaria russa del
1917 – la quale ebbe inizio con la rivoluzione democratica di
febbraio, seguita da quella socialista nell’ottobre – come
strategia per i progressisti delle “società arretrate”, con una
modifica cruciale: ovvero che la prima fase non sarebbe stata
esclusivamente la lotta per ottenere i diritti democratici, ma anche
l’indipendenza nazionale.
Tensioni teoriche e politiche
La
formulazione leniniana delle due fasi divenne la base della strategia
di Ho finalizzata alla liberazione del Vietnam. Guardando
retrospettivamente ai suoi sviluppi, circa trent’anni dopo la
formazione del Partito comunista indocinese, Ho riferiva nella sua
“Relazione sulla bozza di modifica della costituzione”:
Nel Vietnam del primo dopoguerra, la borghesia e la piccola borghesia nazionali si dimostrarono incapaci di guidare, con successo, il movimento di liberazione nazionale. La classe lavoratrice vietnamita, alla luce della Rivoluzione d’ottobre, delineò il corso della Rivoluzione vietnamita. Nel 1930, venne fondato il Partito comunista indocinese, l’organizzazione politica della classe lavoratrice, dimostrando che la Rivoluzione vietnamita avrebbe dovuto attraversare due fasi: la rivoluzione democratica nazionale e quella socialista.
La
realtà, ovviamente, era ben più complessa. La teoria delle due
fasi, in oriente, comportò per la Terza internazionale e i
comunisti non poche controversie tattiche. Una delle quali riguardava
il rapporto del partito rivoluzionario coi suoi alleati non
comunisti, specialmente la “borghesia nazionale e gli esponenti
delle classi possidenti favorevoli all’indipendenza. Un’altra
ancora, ruotava intorno a quali sarebbero state le rivendicazioni
della fase “democratica nazionale”, in particolare a proposito
della questione della terra.
Si
trattava di problemi teorici con ricadute pratiche di estrema
importanza, la risoluzione dei quali, ebbe modo di constatare Ho,
avrebbe avuto enorme rilevanza nello svolgersi delle rivoluzioni
nelle colonie. Nel suo “Rapporto sul Tonchino, l’Annam e la
Cocincina”, indirizzato al Comitato esecutivo dell’Internazionale
comunista, Ho – che allora scriveva sotto il nome di Ngyen Ai Quoc
– asseriva che in Vietnam “la lotta di classe non si svolge con
le stesse modalità dell’occidente” (citato in Song Thanh 2012:
103). “Nel periodo in cui vennero organizzati i soviet di Nghe-An,
Ho assunse un atteggiamento in qualche modo ambiguo. Laddove, quasi
certamente, egli non approvava questa operazione, comunque non agì
per fermarla. Nel 1953, venne reso noto che Ho aveva votato contro
una risoluzione a favore di un’insurrezione contadina, ma che
trovandosi in minoranza di un solo voto si era attenuto alla volontà
della maggioranza. Comunque si siano svolti i fatti, non vi è dubbio
che si trattò della prima occasione in cui egli perse il controllo
del movimento sotto la sua guida” (McAlister 1969: 94). “Il
nazionalismo”, sosteneva, “è la maggiore forza moralizzatrice”
(ibid.). In un altro testo, basato sulle lezioni tenute per i quadri
vietnamiti a Guangzhou, scriveva, “operai e contadini sono i
padroni della rivoluzione, ne costituiscono la radice… mentre gli
studenti, i commercianti ed i piccoli proprietari terrieri, anch’essi
duramente oppressi dai capitalisti, sia pur non quanto operai e
contadini, sono gli amici rivoluzionari di questi ultimi” (citato
in Song Thanh, 2012: 109). A detta di interpreti recenti, come Song
Thanh, questi commenti indicano che Ho aveva precocemente posto in
risalto l’importanza di un fronte unito delle classi contro
l’imperialismo, nel contesto della “rivoluzione democratica
borghese”, in contrasto con la posizione secondo la quale la lotta
di classe interna doveva ricevere uguale priorità: “Partendo dalla
realtà di un paese coloniale, egli non considerava che tali compiti
avrebbero dovuto svolgersi in contemporanea, con le stesse modalità,
conferendo invece la priorità all’azione antimperialista, ai fini
della liberazione nazionale, laddove quella anti-feudale, per la
distribuzione delle terre ai coltivatori, sarebbe stata realizzata
gradualmente” (2012: 113).
Fu
il campo di battaglia cinese a fornire gli argomenti alle diverse
parti coinvolte nel dibattito su strategia e tattica da adottare nel
mondo coloniale e semi-coloniale. In Cina, l’applicazione
dell’approccio delle due fasi, sotto la direzione del Comintern, si
tradusse nell’appoggio da parte del Partito comunista cinese ai
nazionalisti del Kuomintang. Non si trattava solo di formare
un’alleanza con quest’ultimo, ma di aiutarlo dal punto di vista
organizzativo e militare. Una politica che si concluse con una
debacle nel 1927, quando Chiang Kai-Shek volto le spalle ai comunisti
facendone strage.
Ho
si trovò a lavorare per il Comintern, a Canton, nel periodo 1924-27,
e aveva dunque familiarità con le fatali dinamiche del “Fronte
unito” tra comunisti e nazionalisti. Nel momento in cui venne
spedito dal Comintern ad Hong Kong, nel 1930, con l’obiettivo di
unificare il movimento comunista vietnamita, la Terza internazionale
era entrata nel cosiddetto, e ben noto, “Terzo periodo”, con i
comunisti che rivolgevano i loro strali contro i socialdemocratici –
bollati come “social-fascisti” – nei paesi capitalistici,
abbandonando il fronte unito con la borghesia e la piccola borghesia,
in favore del governo di “operai, contadini e soldati”, per
quanto riguardava le colonie.
Ho
fu in grado di imporre una fragile unità tra le fazioni comuniste
vietnamite in competizione, costituendo il Partito comunista
indocinese. Tuttavia, l’unificazione si basava su di
un’interpretazione della teoria delle due fasi basata sulla linea
radicale del Terzo periodo. L'”Appello in occasione della
fondazione del Partito comunista indocinese”, datato 18 febbraio
1930, conosciuto anche come “Piattaforma abbreviata”, si
rivolgeva “agli operai, ai contadini, ai soldati e agli studenti”
vietnamiti, affinché rovesciassero “l’imperialismo francese, il
feudalesimo vietnamita e la borghesia reazionaria”, così da
“rendere l’Indocina completamente indipendente”; e ancora,
“stabilire un governo degli operai, contadini e soldati”,
“confiscare le banche e le altre imprese in possesso degli
imperialisti, ponendole sotto il controllo del governo degli operai,
contadini e soldati”; “confiscare tutte le piantagioni e le
proprietà in mano agli imperialisti e alla borghesia reazionaria
vietnamita, distribuendole ai contadini poveri”.
Era
Ho a parlare, oppure si trattava del Comintern? Il leader vietnamita
si era forse arreso temporaneamente alla linea del Terzo periodo?
Sembrerebbe che egli stesse articolando la linea del Comintern, pur
mantenendo serie riserve in proposito. Giap, ad esempio, ha precisato
che la “piattaforma abbreviata” non sosteneva la parola d’ordine
“riforma agraria e terra ai contadini”, ovvero l’obiettivo
cruciale della rivoluzione anti-feudale” (Vo Nguyen Giap 2011: 7).
Tanto più che compare il seguente passaggio, in cui si promuove una
più vasta unità:
Il partito deve intrattenere frequenti contatti con la piccola borghesia, gli intellettuali, i contadini medi, i giovani, i membri del Partito Tan Viet, ecc. Per quanto riguarda i ricchi agricoltori, i piccoli e medi proprietari e i borghesi vietnamiti che non hanno ancora espresso inclinazioni controrivoluzionarie, dovremmo tentare di neutralizzarli e conquistarli, traendo vantaggio dalla loro posizione. (119)
Simili
elementi di moderazione, tuttavia, non passarono inosservati, e
nell’ottobre 1930, l’Internazionale comunista approvò una
risoluzione che annullava il Programma di febbraio, firmato da Ho,
ritornando alla linea simultaneamente, e rigorosamente,
antimperialista, anti-feudale e anticapitalista. Tale disconoscimento
significò per Ho l’inizio di quasi otto anni di marginalizzazione
dai vertici del Partito comunista vietnamita, gran parte dei quali
trascorsi a Mosca.
Ciò
nonostante, Ho fece del suo meglio affinché la linea del Terzo
periodo non demolisse totalmente l’ampio fronte antimperialista che
egli riteneva ancora necessario (119-120). Per tanto, si oppose alle
insurrezioni contadine che il nuovo partito unificato aveva istigato
nelle province di Nghe An e Ha Tinh, Vietnam centrosettentrionale,
nel 1931, miranti a stabilire dei soviet di villaggio. Probabilmente
aveva intuito che la linea del Terzo periodo avrebbe potuto condurre
ad una politica disastrosa in termini di alleanze. Il che,
effettivamente, accadde. Come notato da John McAlister Jr (1969: 99):
Probabilmente, l’errore fondamentale va rintracciato nel fatto che il terrore comunista fu diretto, quasi esclusivamente, contro funzionari vietnamiti di basso rango, i quali esercitavano l’autorità per conto dell’amministrazione francese, anziché contro la Francia stessa… I comunisti attribuirono questo passo falso alle mancanze insite nelle Tesi sulla rivoluzione democratica borghese in Vietnam, adottate dal Partito comunista indocinese nel 1930… Come rilevato da un comunista vietnamita, tale programma “commetteva l’errore di sostenere il rovesciamento della borghesia nazionale, contemporaneamente a quello dei colonialisti francesi e dei feudatari indigeni… [Poiché] questa borghesia aveva interessi in conflitto con gli imperialisti… [e] questi avrebbero dovuto essere inseriti nei ranghi della repubblica democratica borghese e non sistematicamente separati”
Influenzato
dalle prudenti – qualcuno direbbe opportunistiche – politiche di
Lenin circa le alleanze, Ho aveva una forte inclinazione contro
l’esclusione di chiunque sulla base, esclusivamente, dell’origine
di classe, e non sarebbe stata l’unica volta in cui avrebbe votato
contro, e criticato, una simile politica. Laddove interrogato su chi
fossero gli alleati ed i nemici dei comunisti, probabilmente
avrebbe risposto, sulla scorta di Lenin: dipende dalle condizioni,
dalla fase e dal luogo.
La creazione di un ampio fronte
Nel
1935, a seguito dell’ascesa al potere di Hitler in Germania, il
Comintern iniziò a favorire la politica dei “Fronti popolari”.
Col suo sostegno a larghe alleanze antifasciste, il nuovo approccio
ben si attagliava all’inclinazione di Ho riguardo le tattiche che
avrebbero fatto avanzare la lotta per l’indipendenza. Il suo
periodo di marginalizzazione era giunto al termine, ed egli fece
ritorno in Asia e in Vietnam, dove supervisionò l’articolazione
della nuova strategia del partito per il suo paese. I punti
fondamentali del nuovo orientamento, contenuti in un rapporto
intitolato “La linea del partito nella fase del Fronte democratico
(1936-1939)”, erano i seguenti:
-
Nella fase attuale il partito dovrebbe astenersi dal presentare rivendicazioni eccessivamente esigenti (indipendenza nazionale, parlamento, ecc.). Agire altrimenti significherebbe fare il gioco dei fascisti giapponesi. Sarebbe opportuno limitarsi a pretendere i diritti democratici, ovvero libertà di organizzazione, di assemblea, di stampa e di parola, nonché amnistia generale per tutti i prigionieri politici e, infine, libertà per il partito di svolgere attività legale.
-
Al fine di raggiungere tali obiettivi, il partito dovrebbe impegnarsi nell’organizzazione di un ampio fronte democratico e nazionale. Quest’ultimo dovrebbe essere aperto non solo agli indocinesi, bensì anche ai francesi progressisti residenti in Indocina, non solo ai lavoratori, ma anche alla borghesia nazionale.
-
Il partito dovrebbe, inoltre, assumere un atteggiamento diplomatico e flessibile nei confronti della borghesia nazionale, sforzandosi di portarla all’interno del fronte e mantenercela, sollecitarla all’azione laddove possibile, isolarla politicamente se necessario. Ad ogni modo, non la si dovrebbe escludere dal Fronte, impedendo che cada nelle mani della reazione, rafforzando in tal modo quest’ultima.
Nel
momento dello scoppio della Seconda guerra mondiale, si erano venute
a crear le condizioni affinché i comunisti assumessero la guida
della lotta per l’indipendenza vietnamita. La loro forza
organizzativa aveva consentito loro di sopravvivere alla dura
repressione francese, messa in atto inseguito alla vicenda dei soviet
di Nghe An e Ha Tinh, laddove il loro unico concorrente – il
Partito nazionalista del Vietnam (VNQDD) – ne era uscito
completamente distrutto. Come in Cina, essi vantavano una tattica
straordinariamente flessibile – il Fronte nazionale democratico –
mirante ad unire la nazione contro i giapponesi ed il governo
coloniale francese, oramai sottoposto al controllo dei primi.
Tuttavia, pur facendo appello ai sentimenti patriottici di tutti i
vietnamiti, Ho aveva cura, nella sua “Lettera dall’estero”, di
legare la lotta per l’indipendenza con la rivoluzione di classe,
nel paese e a livello mondiale:
L’ora è scoccata! Innalzate la bandiera dell’insurrezione e guidate il popolo, in tutto il paese, per sconfiggere i giapponesi e i francesi! Il sacro appello della patria risuona nelle nostre orecchie; il sangue ardente dei nostri eroici predecessori pulsa attraverso i nostri cuori! Lo spirito della lotta del popolo cresce di fronte ai nostri occhi! Uniamoci e concentriamo la nostra azione, così da sconfiggere i giapponesi ed i francesi.
La rivoluzione vietnamita trionferà!
La rivoluzione mondiale trionferà!
Non
a caso egli era un comunista.
Il leninista in azione
Jean
Lacouture, uno dei biografi di Ho, ha segnalato la forte influenza
sul leader vietnamita di due idee leniniste: la nozione di “momento
favorevole” ed il concetto di “avversario principale”
(Lacouture 1967). La sua padronanza di questi due principi si
manifestò pienamente nel momento in cui proclamò l’indipendenza
del Vietnam nel 1945. Il “momento favorevole” è analogo al
concetto di “contraddizione sovradeterminata”, espresso da Louis
Althusser, indicante una particolare confluenza di forze e
circostanze le quali, laddove si sia in grado di trarne vantaggio,
premiano un’azione politica audace. Analizzando la Rivoluzione
russa come “contraddizione sovradeterminata”, Altusser scrive:
“la Russia alla vigilia di una rivoluzione proletaria, si trovava
in ritardo di una rivoluzione borghese, gravida quindi di due
rivoluzioni, incapace, anche differendo la prima, di contenere
l’altra. Lenin aveva visto giusto distinguendo in questa situazione
eccezionale e «senza uscita» (per le classi dirigenti)
le condizioni
oggettive di
una rivoluzione in Russia, e creando sotto la forma di un partito
comunista che non avesse anelli deboli le condizioni
soggettive,
il mezzo dell’ultimo assalto contro l’anello debole della catena
imperialista” (Althusser 1972: 79). Tale fu la decisione di Lenin
di prendere il potere nell’ottobre 1917. E tale fu quella di Ho di
lanciare un’insurrezione generale e dichiarare l’indipendenza,
rispettivamente nell’agosto e nel settembre del 1945, traendo
vantaggio da una congiuntura nella quale i francesi erano stati
disarmati dai giapponesi, e questi ultimi avevano, al oro volta,
appena capitolato di fronte agli alleati, con la Francia che non era
in grado di reclamare la colonia (Lacouture 1967: 112-113). Si
trattava, come nel caso della Russia del 1917, di una situazione che
praticamente invitava i comunisti ad agire. Agosto e settembre del
1945 videro un’insurrezione, relativamente incruenta, con i
comunisti in grado di sfruttare a pieno la legittimità che si erano
guadagnati, derivante dal ruolo guida svolto in cinque anni di lotta
antifascista contro il regime coloniale francese e suoi supervisori
giapponesi.
L’elaborazione
della “Dichiarazione d’indipendenza della Repubblica democratica
del Vietnam”, dimostrava la padronanza da parte di Ho della tattica
del fronte unito – il cui obiettivo centrale era appunto
l’individuazione dell’avversario principale – non solo a
livello nazionale, ma anche globale. Il problema fondamentale, nel
1945, consisteva nel prevenire le potenze occidentali, vittoriose sui
giapponesi, di coalizzarsi contro i vietnamiti. Ho era ben
consapevole del carattere di potenza imperiale degli USA. Tuttavia,
era anche conscio che gli statunitensi avevano una loro tradizione
anticolonialista, il che rappresentava un granello nell’ingranaggio
della politica postbellica USA in Asia – un granello che rendeva
assai scomodo per Washington mostrarsi a favore di una restaurazione
del dominio francese in Indocina, persino tenendo conto
dell’alleanza, durante la guerra, con il governo della Francia
libera.
Le
buone relazioni stabilitesi tra comunisti e l’Office of Strategic
Services (OSS) nel corso della campagna anti-giapponese fornirono una
base alla strategia di Ho. Il suo richiamo all’incipit della
Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America – “che
tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati
dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono
la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità” – proprio
all’inizio della Dichiarazione d’indipendenza del Vietnam, era un
colpo da maestro, finalizzato ad approfondire la crepa tra la
maggiore potenza globale ed un’impero coloniale pesantemente
indebolito dalla guerra.
Gli
anni dal 1946 al 1954 rappresentarono il picco della sua leadership.
Egli negoziò un’accordo con l’alto commissario francese Jean
Sainteny, nel quale il vietnam veniva riconosciuto come “stato
libero in seno all’Unione francese”. Un’accordo controverso, e
al fine di guadagnare l’accettazione popolare, Ho condivise la
complessa razionalità alla base del suo agire con una platea ostile
riunitasi nel teatro municipale di Hanoi:
Siamo effettivamente indipendenti dall’agosto
del 1945, ma sinora nessun potere ha riconosciuto la nostra
indipendenza. L’accordo con la Francia apre la strada al
riconoscimento internazionale. Esso ci condurrà verso una sempre più
solida posizione a livello internazionale, il che rappresenta un
enorme risultato. Vi saranno soltanto quindicimila soldati francese e
rimarranno per cinque anni… vi è dimostrazione di intelligenza
politica nel negoziare invece di combattere. Perché dovremmo
sacrificare cinquantamila o centomila uomini quando possiamo ottenere
l’indipendenza tramite il negoziato, probabilmente nel giro di
cinque anni?… Io, Ho Chi Minh, vi ho sempre condotti lungo la via
che porta alla libertà. Sapete bene che preferirei morire piuttosto
che vendere il mio paese. Posso giurarvi che non vi ho venduti.
(citato in Brocheux 2007: 116)
Il
discorso ribaltò gli umori della folla. Rivelò inoltre quella che
Lacouture ha descritto come inclinazione di Ho al dibattito quale
metodo per risolvere i problemi: “vi è qualcosa che non si discute
in Ho, ed è la passione di convincere, un’aspirazione molto
democratica a fa sì che gli argomenti prevalgano sulla costrizione”
(Lacouture 1967: 240).
Le
vicende successive avrebbero dimostrato che l’identificazione di Ho
nell’accordo con Sainteny era stata una tattica saggia, ponendo la
Francia sulla difensiva e gettando una capa di illegittimità sulla
loro rottura dell’intesa e sulla conseguente guerra di riconquista.
Ho e la guerra di popolo
Come
noto, la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi. In
nessun altro caso il detto di von Claussewitz si è dimostrato
altrettanto vero che in quello di Ho, il quale sempre oscillò
magistralmente tra negoziato e guerra, senza mai perdere di vista
l’obiettivo, ossia un Vietnam indipendente. Nel dicembre del 1946,
a seguito del collasso dei negoziati con i francesi, egli era di
nuovo in guerra.
Se
il generale Vo Nguyen Giap è non di rado accreditato come un genio
militare, grazie alla brillantezza strategica con la quale condusse
la Battaglia di Dien Bien Phu, gli scritti di Ho rivelano anch’essi
una comprensione globale dei principi della guerra di popolo. Nel suo
“Appello dopo sei mesi di resistenza”, emesso il 14 giugno del
1947, Ho delineava con lungimiranza il corso dei successivi sette
anni:
Il nemico punta ad una vittoria rapida. Se la guerra si trascina, soffrirà perdite crescenti e sarà sconfitto.
Questa è la ragione per la quale ricorriamo alla guerra protratta di resistenza, al fine di sviluppare le nostre forze e accumulare esperienza. Ci serviamo di tattiche di guerriglia per abbattere le forze nemiche, sino a quando un’offensiva generale non le spazzerà via.
Il nemico è come il fuoco e noi come l’acqua. L’acqua avrà certamente la meglio sul fuoco.
Inoltre, nella lunga guerra di resistenza ogni cittadino è un combattente, ogni villaggio una fortezza. I venti milioni di vietnamiti sono decisi a ridurre a brandelli i pochi guadagni di migliaia di colonialisti reazionari.
La
discussione di questioni belliche occupa buona parte degli scritti di
Ho successivi al 1947. In essi reitera in continuazione l’essenza
di quella che definisce la “protratta guerra di resistenza”:
– Il
partito deve guidare la strategia militare
– Stringersi
al popolo, poiché esso è la sorgente della forza dell’esercito.
– Lo
scopo della guerriglia “non consiste nell’intraprendere battaglie
su larga scala, bensì nel logorare il nemico, tormentandolo a tal
punto che egli non può mangiare o dormire in pace, nel non
concedergli tregua, nel consumarlo fisicamente e mentalmente, per
infine annientarlo” (“Istruzioni rivolte alla conferenza sulla
guerriglia”)
– La
guerriglia costituisce una fase necessaria, ma inevitabilmente, con
lo spostarsi dei rapporti di forza a favore del popolo, la guerra
passa dalla fase difensiva a quella di conflitto attivo e, da ultimo,
alla “controffensiva generale”. Mentre è possibile determinare
le fasi principali sulla base della situazione generale… non è
possibile separare completamente una fase dall’altra come si taglia
una torta. La durata di ciascuna fase dipende dalla situazione
interna e mondiale, nonché dai cambiamenti nelle forze nemiche e
nostre. (Rapporto politico per il Secondo congresso nazionale del
Partito dei lavoratori del Vietnam)
Le
analogie di tali prescrizioni con la teoria maoista della guerra di
popolo sono impressionanti, ma non è certo se Ho, o Giap, le abbiano
semplicemente tratte da Mao. Questi principi sembrerebbero essere
emersi, in larga parte, da un processo di sperimentazione e
apprendimento dagli errori, nel contesto di quel monumentale
succedersi di tentativi ed errori che è stato la Rivoluzione
vietnamita.
Con
ciò non si vuole affermare che non abbia avuto luogo una
fecondazione reciproca tra le due quasi simultanee guerre di popolo,
considerati gli stretti contatti tra Ho, e altri comunisti
vietnamiti, con i cinesi, nonché, nel caso del leader vietnamita, la
diretta partecipazione, in alcune fasi della sua carriera di
rivoluzionario, alla Rivoluzione cinese.
La sfida della riforma agraria
Anche
mentre la lotta militare andava avanti, i problemi nella gestione
delle diverse classi coinvolte nella battaglia nazionale per
l’indipendenza non erano di facile soluzione e, nel contesto di una
guerra di popolo, la risoluzione di simili questioni aveva un suo
impatto sull’equazione militare. In proposito, gli scritti di Ho
esprimevano la tensione tra la soddisfazione delle rivendicazioni dei
contadini, i quali costituivano il 90 percento della popolazione, e
la neutralizzazione delle classi superiori, in particolare quella dei
proprietari terrieri.
Durante
l’occupazione giapponese e i primi anni della ricolonizzazione
francese, la politica di Ho e del partito consistette nel posporre la
riforma agraria e nel promuovere una riduzione delle rendite, insieme
alla confisca delle terre appartenenti ai francesi e ai vietnamiti
filo-francesi.
Riduzione
delle rendite significava costringere i proprietari terrieri, e i
contadini ricchi, a diminuire le proprie entrate dal 50 al 20
percento , sulla base del principio operativo di “limitare lo
sfruttamento dei contadini da parte dei proprietari feudali,
procedendo al contempo a modifiche del sistema di proprietà,
fintanto che tali misure non ostacolano il Fronte unito nazionale
anticolonialista” (direttiva governativa citata in Brocheux 2007:
153).
Con
la vittoria sui francesi ormai a portata di mano, nel 1953, il
partito decise finalmente di implementare una radicale
redistribuzione della terra. Brocheux suggerisce che sia stata la
sfida posta da Stalin e dagli appena trionfanti comunisti cinesi a
spingere Ho verso la riforma agraria (145). Il che è improbabile,
data la centralità da lui, e dai suoi compagni, attribuita alla
riforma agraria, intesa quale “contenuto principale” della fase
democratica borghese della rivoluzione. Tuttavia, è vero che Ho
riteneva che essa necessitasse di un’accurata pianificazione, e di
essere implementata tenendo conto della complessità della struttura
sociale rurale. Di fatto, già agli esordi della sua carriera di
comunista, egli sottolineava le differenze tra le campagne europee e
la società rurale asiatica:
Le condizioni sociali dei piccoli proprietari terrieri con terre dai dieci ai cento mau sono complesse ed imprevedibili. Con questa quota di terra, un contadino può finire per essere sfruttato, sfruttatore o neutrale. … La lotta di classe non assume le forme con le quali si svolge in occidente. I lavoratori mancano di coscienza, sono rassegnati e disorganizzati… In tal modo, se i contadini non hanno pressoché niente, i proprietari terrieri non dispongono comunque di grandi fortune… I primi son rassegnati al loro fato, i secondi moderati nei loro appetiti. Per cui il conflitto tra i loro interessi è attenuato. Ciò è innegabile.
Sebbene
non fosse coinvolto direttamente nella sua applicazione, fu Ho, nel
1953, a definire la direzione strategica del programma di riforma
agraria (“Rapporto per la Terza sessione dell’Assemblea
nazionale”):
Il problema fondamentale rimane irrisolto: le masse contadine non hanno terra o ne hanno poca. Ciò influisce sulle forze della resistenza e sul lavoro di produzione dei contadini.
Solo con l’attuazione della riforma agraria, dando le terre ai coltivatori, liberando le forze produttive delle campagne dal giogo della classe dei signori feudali, potremo farla finita con la povertà e l’arretratezza e mobilitare saldamente le enormi forze dei contadini, al fine di sviluppare la produzione e condurre la guerra di resistenza sino alla completa vittoria.
Ma
anche mentre impostava la strategia di una radicale riforma agraria,
Ho avvertiva che il feudalesimo avrebbe dovuto essere spazzato via
“passo dopo passo e con discernimento”. Più nel dettaglio,
significava che “nel corso della riforma agraria, dobbiamo assumere
differenti atteggiamenti rispetto ai proprietari terrieri, in base
alle loro attitudini politiche individuali. Ciò significa che a
seconda dei casi singoli ordineremo la confisca o la requisizione,
con o senza compensazione, ma non confische e requisizioni di massa
senza compensazione”.
Questi
accenti di cautela, tuttavia, andarono ben presto persi nel vortice
che si abbatté sulle campagne, dove la riforma agraria, in molti
casi, assunse la forma di una jacquerie organizzata.
Molti furono gli abusi compiuti e le persone uccise – secondo Bui
Tin, più di 10.000 persone vennero eliminate, molte delle quali
“membri del partito o patrioti che avevano sostenuto la rivoluzione
ma erano abbastanza benestanti” (Ruane 2000: 67). Ho, in seguito,
intervenne personalmente per “rettificare” la campagna, il che
implicava la destituzione di Truong Chinh – vicino alle posizioni
cinesi, strettamente coinvolto nel processo – dalla carica di
segretario generale. Ho guidò il percorso di autocritica del
partito, lasciando però che fosse il generale Giap, suo uomo di
fiducia, a dare voce alle sue opinioni e a rendere pubblica la
critica che il partito rivolgeva a se stesso al 10° Congresso del
comitato centrale:
(a)
Nello svolgere il loro compito anti-feudale, i nostri quadri hanno
sottovalutato, o peggio ancora, negato ogni acquisizione
antimperialista, e hanno separato la riforma agraria dalla
rivoluzione. Fatto ancor più grave, in alcune aree hanno reso i due
processi reciprocamente esclusivi.
(b)
Non siamo stati in grado di comprendere la necessità di ottenere
consenso fra i contadini medi, inoltre avremmo dovuto concludere una
qualche forma di alleanza con quelli ricchi, che abbiamo trattato
alla stregua dei grandi proprietari.
(c)
Abbiamo attaccato indiscriminatamente le famiglie in possesso di
terre, senza alcuna considerazione per coloro che hanno servito la
rivoluzione e per quelle famiglie con figli nell’esercito. Non
abbiamo dimostrato indulgenza verso i proprietari terrieri che hanno
partecipato alla resistenza, trattandone i figli allo stesso modo in
cui abbiamo trattato quelli di altri proprietari terrieri.
(d)
Vi sono state troppe deviazioni e troppe persone oneste sono state
giustiziate. Abbiamo attaccato su un fronte troppo largo e, vedendo
nemici dovunque, fatto ricorso al terrore, il quale si è diffuso
eccessivamente.
(e) Nell’attuare
il nostro programma di riforma agraria abbiamo mancato di rispettare
i principi di libertà di fede e culto in molte aree.
(f)
In regioni abitate da tribù minoritarie abbiamo attaccato i capi
tribali con troppa veemenza, così offendendo, anziché rispettarli,
i costumi e le usanze locali.
(g)
Nel riorganizzare il partito abbiamo conferito eccessiva importanza
alla nozione di classe sociale, invece di attenerci fermamente alla
sola qualificazione politica. Anziché riorganizzare l’educazione,
quale requisito essenziale, abbiamo fato ricorso esclusivamente a
misure organizzative come provvedimenti disciplinari, espulsioni,
esecuzioni, scioglimento di branche e cellule di partito. Ancor
peggio, la tortura ha finito per essere considerata una pratica
normale durante la riorganizzazione del partito. (citato in O’Neil
1969: 166-167)
Pur
non avendo guidato direttamente la riforma agraria, e dunque non
potendo essere considerato personalmente responsabile degli abusi
compiuti,ad Ho è stato rimproverato di non essere intervenuto quando
avvisato di gravi soprusi, limitandosi ad esprimere preoccupazione
(Bui Tin 1999: 28). Non vi è dubbio che la riforma agraria sul
modello cinese contraddiceva l’enfasi posta precedentemente da Ho
sull’unire piuttosto che dividere, sul negoziato da anteporre alla
battaglia, sull’educazione anziché sulle misure burocratiche o
organizzative e sul correggere le persone invece di trasformarle in
paria.
Il marxista come umanista
Come
nel caso di Mao, in Ho era presente un tratto da moralista. Ma nei
suoi scritti a fini esortativi, egli adottava un approccio
decisamente non-maoista alla moralità rivoluzionaria, trattenendosi
dal caratterizzare colore con cui era in disaccordo, all’interno
del partito, come nemici di classe o come inclini a “tendenze
capitaliste”, sempre raccomandando l’unità rispetto alle
differenze transitorie, nonché sostenendo la possibilità di
riscatto e spingendo i quadri ad assistere coloro che avevano deviato
dalla retta via. Ad esempio, in “Praticare la parsimonia e
combattere la corruzione, gli sprechi e la burocrazia”, Ho afferma:
Vi sono persone entusiaste e fiduciose nel corso della lotta; esse non temono né pericoli, né avversità né nemici, e dunque hanno servito la rivoluzione egregiamente; ma non appena si sono trovate a detenere un minimo di autorità, ecco l’arroganza e la lussuria, l’indulgenza alla corruzione, allo spreco e a un’incosciente burocrazia, rendendosi colpevoli di fronte alla rivoluzione. È nostro dovere salvarle, aiutarle a riacquistare le virtù rivoluzionarie. Altri, pretendendo di servire la madrepatria, si sono abbandonati alla corruzione e agli sprechi, danneggiando il paese e il popolo. È nostro dovere educarli, e guidarli sulla via della rivoluzione.
Una
delle cose più impressionanti della personalità di Ho è la
capacità nell’esprimere un solido fondamento etico, quella qualità
che, come notato in precedenza, spinse Khrushchev a definirlo un
“santo del comunismo”, e Ruth Fischer, che ebbe modo di
conoscerlo negli ambienti della terza internazionale, a dire che egli
spiccava, “In mezzo a quegli uomini rotti all’azione
rivoluzionaria, a quegli intellettuali esigenti”, perché “portava
una nota di bontà, di semplicità che avvinceva”. Un’etica,
quella di Ho, che derivava da molteplici fonti, essendo il marxismo
solo una di esse, per quanto la più importante. Tra le altre, il
confucianesimo ebbe un’influenza rilevante. Come sottolineato da
Giap, “la quantità di cultura cinese che ebbe modo di assorbire
durante l’infanzia fu così consistente, e talmente impressa nella
sua mente, che egli era in grado di comporre poemi in caratteri
cinesi, com’è appunto il caso delle sue celebri poesie. Pertanto,
non sorprende che nei suoi discorsi e scritti ricorresse a concetti
cinesi, e citasse detti confuciani, al fine di esprimere più
chiaramente il proprio pensiero” (Vo Nguyen Giap 2011: 53).
Nel
suo discutere di etica, vi era una salutare mancanza di dogmatismo.
Sarebbe difficile immaginare, per esempio, le stesse espressioni di
umanesimo in Mao:
il lato buono del confucianesimo è la spinta a migliorare se stessi nell’etica personale. Quello del cattolicesimo consiste nella benevolenza. Laddove quello del marxismo risiede nel metodo dialettico. Ancora, il lato positivo della dottrina di Sun Yat Sen è che si adatta alle condizioni del Vietnam. Confucio, Cristo, Marx e Sun Yat Sen hanno dei punti in comune, non è forse così? Tutti miravano alla felicità per il genere umano e al benessere della società. Se fossero vivi ancora oggi, sono convinto che riuscirebbero a vivere in armonia come buoni amici. Da parte mia, provo ad essere un loro umile allievo.
In
Ho era presente anche una nota ascetica. Questa si manifestava non
solo nel suo stile di vita, che comprendeva duro lavoro ed esercizi
mattutini, bensì ancor più ovviamente nel suo celibato. Ho, afferma
Sophie Quinn-Judge, ebbe alcune relazioni, ma nessuna a lungo
termine. Quando interrogato sull’argomento, la sua spiegazione non
differiva molto dalle motivazioni addotte dal Vaticano per il
celibato dei preti, con la differenza che egli non lo imponeva ad
altri:
Quando ero giovane ed operavo come attivista all’estero, non ero troppo brutto per essere amato dalle ragazze. Ovunque andassi, vi erano almeno due o tre ragazze attratte da me. Qualcuna espresse persino il desiderio di divenire la mia compagna… Tuttavia, per realizzare le mie aspirazioni, ho sempre dovuto lavorare in segretezza. Ho sempre pensato che il vincolo matrimoniale avrebbe limitato il mio lavoro perché, laddove avessi avuto una moglie e dei figli, difficilmente avrei potuto nascondermi. Durante il tempo passato in Francia, molti comunisti francesi mi consigliarono di sposarmi. Lo stesso accadde quando giunsi in Cina e incontrai Zhou En-Lai, Zhou De ed altri. Io spiegai loro le mie ragioni, ed essi compresero. (citato in Khanh Hong 2010: 91)
Un
abbozzo della personalità di Ho sarebbe incompleto senza citare una
certa cavalleria presente nel suo carattere, una qualità che si
rivolgeva, oltreché alle donne e agli amici, anche agli avversari.
Tra questi ultimi il generale Raoul Salan, il quale accompagnò Ho
durante la sua visita in Francia, nel 1946, compiuta nell’infruttuoso
tentativo di ottenere il riconoscimento dell’indipendenza del
Vietnam. Col riprendere delle ostilità tra francesi e vietnamiti, Ho
apprese che Salan era stato nominato comandante in capo delle forze
francesi in Indocina e gli scrisse una lettera contenente i seguenti
passi: “Eravamo buoni amici. Ora, circostanze al di là del nostro
controllo ci hanno trasformato in avversari, e ritengo ciò
deplorevole. Da parte mia, il sacro dovere di patriota mi obbliga a
combattere per la mia patria e i miei connazionali. Da parte vostra,
la responsabilità del combattente vi obbliga a fare ciò che in cuor
vostro non desiderate… Poiché ci ritroviamo a dover combattere
l’uno contro l’altro, spero sarete un avversario cavalleresco e
un galantuomo, in attesa del momento in cui potremo nuovamente essere
amici” (citato in Song Thanh 2012: 528-529).
Una
dichiarazione di amicizia trascendente le barriere nazionali ed
ideologiche, espressa mentre Ho pianificava di combattere sino alla
morte, senz’altro rara, al punto da spingere un commentatore
vietnamita a definire il rapporto tra Ho e Salan “una lotta tra
autentici cavalieri”.
Da zio affettuoso a padre inflessibile
A
suscitare interesse è il fatto che l’umanesimo di Ho e la sua
cortesia coesistevano con la ferrea determinazione ad ottenere ciò
che voleva. In alcune occasioni non mancava di far ricorso a misure
estreme, specialmente se riteneva che il dialogo con i “concorrenti”
dei comunisti per la lealtà dei vietnamiti fosse divenuto ormai
impossibile. Come nota Lacouture (1967: 230):
Nel nord i nazionalisti anticomunisti e i cattolici dal settembre 1945 al luglio 1946; nel sud i trockijsti, oppure gli «hoa hao» recalcitranti conobbero la «fermezza» d’uno zio che, al caso, può tramutarsi in un padre fustigatore, unicamente preoccupato dell’ordine rivoluzionario.
L’episodio che viene solitamente citato al fine di illustrare il lato duro di Ho è l’arresto, di cui egli sarebbe stato l’artefice, del nazionalista vietnamita Phan Boi Chau, allo scopo di liberarsi di un rivale assai rispettato fra gli esuli politici vietnamiti nella Canton del 1925. Tuttavia, va precisato che numerosi studiosi, come Sophie Quinn-Judge (2007: 74-76), contestano il ruolo di Ho nell’arresto di Phan.
Nei
confronti dei trockijsti utilizzava un linguaggio ingiurioso e non
esitava a mostrare la propria lealtà a Stalin: “Per quanto
concerne i trockijsti, non vi può essere né compromesso, né
alcuna concessione. È necessario fare tutto il possibile per
smascherarli quali agenti del fascismo e annientarli politicamente”.
Che dichiarazioni di tale durezza potessero condurre all’eliminazione
non solo politica ma fisica non dovrebbe sorprendere. È stato
riferito che il Viet Minh ha eliminato dei trockijsti legandoli
tra loro, per poi gettarli in un fiume lasciandoli annegare. Si dice
anche che, nel 1946, il Viet Minh “arrestò Nguyen Ta Thu Than, il
più dotato leader e scrittore trockijsta, alla stazione di
Quang Ngai, per poi condurlo in una spiaggia e giustiziarlo” (Moyar
2006: 18). Per quanto Ho potesse non essere coinvolto personalmente
in queste morti, non si può ignorare la sua responsabilità
nell’attuazione di una linea politica estremamente dura che
incoraggiò simili abusi.
Dalla democrazia nazionale al socialismo
Durante
la sua vita, Ho fu perseguitato dall’interrogativo circa la sua
identità politica, ovvero se egli era principalmente un nazionalista
o un comunista. Per i rivali nel movimento nazionalista in Vietnam,
così come per i nemici a Parigi e a Washington, egli era un agente
della rivoluzione mondiale, l’uomo dell’Internazionale
comunista per
excellence.
Per i trockijsti, e per alcuni rivali nel Partito comunista
indocinese, era un nazionalista piccolo borghese oppure colpevole di
“deviazione nazionalista”. Pare che Stalin lo sospettasse di
malsane tendenze nazionaliste, sfidandolo ad applicare la riforma
agraria al fine di metterlo alla prova (Brocheaux 2007: 145).
La
situazione successiva alla disfatta francese nel 1954, tuttavia,
dimostrò come Ho fosse un leninista devoto. Ovvero, fedele alle
“Tesi sulle questioni nazionale e coloniale” di Lenin, nelle
quali era contenuta la teoria di una rivoluzione democratica borghese
seguita da quella socialista, e che tanta influenza esercitarono su
di lui nei primi anni Venti. Col Vietnam diviso tra il nord sovrano
ed il sud sotto controllo USA, Ho adatto questa teoria alle
specifiche circostanze del suo paese:
Oggi, la Rivoluzione vietnamiti si trova di fronte due compiti: primo la costruzione del socialismo nel nord del paese e, secondo, il compimento della rivoluzione democratica nazionale nel sud. Questi due compiti hanno un obiettivo comune: il rafforzamento della pace e aprire la strada per la riunificazione sulle basi dell’indipendenza e della democrazia.
Tali
rivendicazioni, rivoluzione socialista e indipendenza nazionale,
venivano, sul modello leninista, riformulate creativamente, al fine
di rispondere ad una congiuntura storica particolare, ma non vi era
alcun dubbio che il socialismo in seno ad una nazione indipendente
fosse l’obiettivo strategico. Ho era scomparso da circa sei anni
nel momento in cui il paese si era liberato degli statunitensi, per
essere riunificato nel marzo del 1975. Ma, fedeli al suo punto di
vista leninista, i seguaci di Ho dichiararono immediatamente
completata la rivoluzione nazionale borghese nel sud, battezzando
l’intero paese come Repubblica socialista del Vietnam. Per Ho,
autentico nazionalismo significava lavorare al fine di portare il
socialismo in uno stato nazione, il quale sarebbe diventato parte di
un ordine internazionale costituito, a sua volta, da stati nazione
indipendenti e socialisti.
Un pragmatico marxista
Ho
non ha lasciato innovazioni teoriche significative, tanto meno un
corpus teorico organico. Questo, ovviamente, non ha impedito ad
alcuni, nel Partito comunista vietnamita, di parlare di un “pensiero
di Ho Chi Minh”, inteso come un nuovo sviluppo nella teoria
marxista-leninista. Non sorprende che ciò abbia suscitato un certo
scetticismo, poiché i vietnamiti sanno che Ho non ha lasciato un
insieme completo di scritti teorici.
Dove
eccelleva veramente era nella capacità di adattare le idee astratte
del leninismo alla realtà vietnamita, sviluppando una strategia e
una tattica per la rivoluzione nazionale basate su di esse, nonché
costruendo un’organizzazione, il Partito comunista, al fine di
porle in pratica. Probabilmente, il suo approccio analitico emerge al
meglio, nella sua articolazione, nel discorso tenuto in occasione
dell’inaugurazione del primo corso teorico della scuola Nguyen Ai
Quoc, il 7 settembre 1957:
La realtà consiste di problemi da risolvere e di contraddizioni insite nelle cose. Essendo noi quadri rivoluzionari, la nostra realtà è costituita dalla risoluzione dei problemi che la rivoluzione ci pone. La vita reale è immensa. Essa copre il lavoro ed il pensiero di un individuo, le politiche e la linea del partito, la sua esperienza storica ed i problemi interni e mondiali. Nel corso dei nostri studi, saranno queste le realtà con le quali dovremo rimanere in contatto.
Grazie alla sua capacità di combinare il marxismo-leninismo con l’attuale situazione del paese, il nostro partito ha ottenuto numerosi successi nel corso della sua attività. Tuttavia, la combinazione della verità marxista-leninista con la pratica della Rivoluzione vietnamita non è completa, e si è accompagnata a numerosi errori, in particolare quelli commessi durante la riforma agraria, il riordino dell’organizzazione e la costruzione economica. Al momento, nell’edificare il socialismo, sebbene possiamo contare sulla ricca esperienza di paesi fratelli, non possiamo limitarci ad applicare quest’ultima meccanicamente, poiché il nostro paese ha le sue peculiarità. L’indifferenza alle particolarità di una nazione, nel processo di apprendimento dell’esperienza compiuta da altre, costituisce un grave errore, una form di dogmatismo. Ma la sottovalutazione del ruolo delle peculiarità nazionali e la negazione del valore universale delle grandi, e fondamentali, esperienze dei paesi fratelli, condurrebbero a seri problemi di carattere revisionista (citato in Woddis: 111-112).
Le
idee hanno un ruolo nel corso della storia. Ed è stata una delle
capacità di Ho il tradurre le idee rivoluzionarie in un programma
pragmatico ma allo stesso tempo ispiratore, con una solida
organizzazione finalizzata a metterlo in pratica con successo, ciò
che rende questa personalità eccezionale.
Ho e la costruzione del socialismo
Quanto
le idee di Ho, in particolare quelle relative alla “costruzione del
socialismo”, possano essere utili oggi – nel momento in cui il
Vietnam cerca di superare il sottosviluppo, ed il socialismo classico
è stato discreditato – è una questione interessante.
Sia
durante il periodo della rivoluzione che della costruzione del
socialismo nel Vietnam del nord, Ho si dimostrò sempre sensibile
allo stato dei rapporti di classe in ambito agrario. Un delle ragioni
di tale atteggiamento risiedeva nella sua visione dell’agricoltura
come settore chiave dell’economia, perlomeno nelle prime fasi dello
sviluppo nazionale. “Se vogliamo sviluppare l’industria e
l’economia in generale, dovremmo metter l’agricoltura come
fondamento. Se non sviluppiamo l’agricoltura, non disporremo di
basi per sviluppare l’industria, poiché la prima fornisce materie
prime e cibo alla seconda e si serve di beni da essa prodotti”
(citato in Song Thanh 2012: 359). In un’altra occasione,
argomentando contro un collega che promuoveva la concentrazione delle
risorse sull’industria pesante ai fini di una rapida
industrializzazione, egli avrebbe così risposto, “è una decisione
soggettiva se vogliamo procedere ad un’industrializzazione rapida.
Pertanto, nella pianificazione economica, dovremmo promuovere
innanzitutto l’agricoltura, in seguito l’artigianato e
l’industria leggera, e solo più tardi quella pesante”.
Ho
fece mostra di altrettanta sensibilità riguardo ai rapporti di
classe nelle città, e non solo per ragioni legate all’esigenza di
tenere le classi medie e gli imprenditori dalla parte della
rivoluzione, bensì ai fin della ricostruzione nazionale. Se ho foste
stato vivi nei tardi anni Settanta, quasi certamente avrebbe fermato
le espropriazioni di piccoli negozi e fabbriche appartenenti a
sino-vietnamiti, le quali avrebbero poi scatenato la fuga dei
cosiddetti “boat people”. Si può supporre avrebbe chiesto un
passo indietro rispetto al programma di costruzione socialista
accelerata, il quale avrebbe provocato enormi problemi, tanto nelle
campagne quanto nelle città, nei tardi anni Settanta e nei primi
Ottanta. Ma si sarebbe spinto ad approvare le riforme di mercato, il
riemergere del settore privato ed il corteggiamento degli investitoti
stranieri che hanno segnato l’economia politica del Vietnam negli
ultimi due decenni? Tenendo conto dei forte tratti pragmatisti e
umanisti presenti nel suo marxismo, è lecito sospettare che avrebbe
appoggiato tale corso, sebbene probabilmente non avrebbe sostenuto le
affermazioni di un commentatore, secondo il quale “in base alla
legge dello sviluppo, in società, vi sarà una parte della
popolazione che si arricchisce per prima, ed altre parti in seguito,
ma il tenore di vita della gente è più alto, e cresce passo dopo
passo”.
Il
Vietnam, a grandi linee, ha seguito la via di Deng, consistente nello
stimolare un rapido sviluppo capitalistico tramite l’integrazione
nell’economia globale, allo scopo di raggiungere quella prosperità
che Ho considerava un pilastro fondamentale del socialismo. Il paese
ha ottenuto qualche successo, divenendo uno dei principali
esportatori mondiali di riso e caffè. Sfortunatamente, il suo schema
di sviluppo post-1978 ha riprodotto anche le crescenti ed acute
ineguaglianze del modello cinese. Per quanto il coefficiente di Gini
(il miglior indice della disuguaglianza) sia basso rispetto ad altri
paesi del sudest asiatico, è comunque in aumento. Nel 2013, il
numero di persone estremamente povere in Vietnam è cresciuto del 14,
7 percento, il secondo tasso più alto dell’area, dopo la
Thailandia, spingendo il leader del Partito comunista Nguyen Phu
Trong ad avvertire che: “il divario tra poveri e ricchi mostra
segni di peggioramento”. Trong, inoltre, ha aggiunto che tale
divario esiste anche all’interno del partito. “Alcuni membri del
partito si sono arricchiti così rapidamente, da permettersi di
condurre una vita di agi, a miglia di distanza da quella dei
lavoratori” (Thanh Nien News 2013).
Come
avrebbe reagito Ho a questa situazione fosse stato ancora vivo? È
difficile pensare che simili sviluppi non avrebbero destato la sua
preoccupazione, o che non si sarebbe attivato per invertirla. Ma
esattamente come per i dirigenti attuali del paese, gli sarebbe stato
difficile contenere un processo, nel quale il meccanismo scelto al
fine di raggiungere la prosperità – vale a dire, un rapido
sviluppo capitalistico – produce le condizioni in cui emergono
marcate ineguaglianze, le quali, sempre più, stanno conducendo il
paese lontano dall’obiettivo dichiarato dell realizzazione del
socialismo.
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