mercoledì 30 ottobre 2019

Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino” - Alessandro Visalli

Da: https://tempofertile.blogspot.com/
AlessandroVisalli è architetto e dottore di ricerca in pianificazione urbanistica; si occupa di ambiente ed energie rinnovabili. https://www.facebook.com/alessandro.visalli. 
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 Questo testo chiude il percorso e la trilogia di studi sui “sistemi-mondo”, a pochi mesi dalla morte dell’autore, e ne è sia un seguito sia una rielaborazione. Il tema chiave è il tentativo, compiuto dall’amministrazione Bush, di reagire alla minaccia di declino che si era presentata sin dalla crisi sistemica degli anni settanta con una forte proiezione imperiale in grado di aprire un nuovo “secolo americano”, essenzialmente tramite il controllo diretto, manu militari, delle regioni chiave per le economie industrializzate. Come si dice sinteticamente, “guerre per il petrolio”, ma in realtà “guerre per il mondo”. 

 Il primo tema è dunque il lancio, prima, ed il fallimento, poi, di questo progetto di “dominio senza egemonia”. 

 Il secondo è l’affermazione, o meglio il ritorno, della Cina in posizione centrale nel mondo.

 Questo tema, la rinascita economica dell’oriente asiatico, è l’effetto di una serie ininterrotta di “miracoli” economici: il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore, la Malaysia, la Thailandia, infine la Cina.

Ma l’oriente asiatico, in ombra nella prima parte del secolo scorso (anche se il Giappone già fa eccezione), non era sempre stato considerato una parte sottosviluppata del mondo. In effetti ancora Adam Smith, nel settecento, ne aveva un’immagine altamente positiva. In particolare della Cina come del centro sviluppato del mondo e del luogo di maggiore ricchezza, se pur connotato da una forte stabilità. Questa immagine degrada molto rapidamente durante l’ottocento, e alla fine della seconda guerra mondiale la Cina era arrivata ad essere ormai una delle nazioni più povere del mondo.
Una situazione che inizia a cambiare di nuovo quando negli anni sessanta in Vietnam gli Stati Uniti alla fine sono sconfitti e devono scendere a patti; è da allora che accelera e prende sempre più forza quello che alcuni hanno chiamato “l’arcipelago capitalista” nell’oriente asiatico.

Il libro di Arrighi, come lo stesso titolo mostra, utilizza una lettura non convenzionale del capolavoro di Adam Smith “La ricchezza delle nazioni” per interpretare il particolare tipo di mercato impiantato con enorme successo in Cina come “non capitalista” e continuo alla lunga tradizione del paese. Smith, del resto, sperava che potesse impiantarsi una società di mercato globale basata su una maggiore equità e rispetto per le diverse aree mondiali di civiltà; una società non fondata sulla forma a suo dire “innaturale” di sviluppo che il mercantilismo della sua epoca stava impiantando. Secondo il modo di leggere il filosofo morale (la sua prima specializzazione) scozzese che propone Arrighi questi non è stato affatto un teorico dello sviluppo capitalistico, o il suo difensore. Smith intendeva i mercati come strumento di controllo e di governo dell’avidità e ciò riveste importanza per comprendere le economie di mercato non capitaliste, come quella cinese prima che venissero incorporate in posizione subalterna nel sistema globalizzato di stati guidato dall’Europa.

Ma cosa è “un’economia di mercato socialista”, che si vorrebbe creare in Cina, e cosa, invece, la “economia di mercato elitaria” (secondo la denuncia di Liu Guoguang nel 2006) che si rischia di creare? Tra il “socialismo con elementi cinesi” dei discorsi ufficiali e la realtà di capitalismo selvaggio che si registra spesso c’è, per Arrighi, un vasto lavoro da fare, nelle lotte del popolo cinese e nella sistemazione delle idee. Questo secondo compito, ambizioso, è quello che si dà.


Adam Smith e la nuova era asiatica

Il libro prende le parti dunque di una sorta di “marxismo neosmithiano” che lavora entro la frattura, ben ricordata nelle prime pagine, tra il marxismo de “Il Capitale”, concentrato sullo sviluppo delle forze produttive nei centri più avanzati e che assegna ai relativi lavoratori il compito di guida in quanto testimoni della maggiore contraddizione, e quello delle periferie del mondo, concentrato sulla questione del potere e della lotta nazionale di liberazione.

Come scrive Arrighi: “Non ci sono dubbi sulla distanza che separa la teoria del sistema capitalistico di Marx dal marxismo di Castro, Amilcar Cabral, Ho Chi Min, o Mao Zedong, una distanza che si poteva superare solo con un atto di fede nell’unità storica del movimento marxista” (p.32). Un tema fondamentale, recentemente ripreso con grande energia da Domenico Losurdo.

Questa frattura, continua, Arrighi:

fra marxisti essenzialmente interessati all’emancipazione del Terzo Mondo dall’eredità dell’imperialismo neocoloniale e marxisti che si preoccupavano principalmente dell’emancipazione della classe operaia. Il problema era che se Il Capitale avesse rappresentato effettivamente un’adeguata chiave di lettura del conflitto di classe, i presupposti di Marx a proposito dello sviluppo capitalistico su scala mondiale non sarebbero sembrati reggere a un’analisi empirica. I presupposti di Marx richiamano molto più la tesi del ‘mondo piatto’ che Thomas Friedman è andato diffondendo negli ultimi anni.” (p.33)

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