martedì 1 ottobre 2019

DEMOCRAZIA E RIVOLUZIONE - Bertrand Russel

Da: Bertrand Russel, Democrazia e Rivoluzione, L'Ordine Nuovo, 1920, N.15 / N.18 - http://www.centrogramsci.it/riviste/nuovo/ordine%20nuovo%20p5.pdf, - 
Vedi anche: La Rivoluzione Russa - Luciano Canfora
Bertrand Russel è uno dei più grandi pensatori del mondo moderno. Professore di matematica e di logica all'Università di Cambridge, egli occupa uno dei primi posti nel mondo della scienza e della ricerca filosofica. Fu avversario coraggioso della guerra. Il suo pacifismo militante gli valse sei mesi di carcere e l'espulsione dall'insegnamento universitario. Quando gli studenti tornarono dal fronte, l'Università fu costretta a reintegrare il Russel nella sua funzione e a distruggere le carte che negli archivi universitari registravano l'espulsione del maestro.

Il Russel è un grande pacifista liberale, uno spirito libero e superiore come pochissimi ne possiede la classe borghese; egli ha compreso il senso profondo e la necessità storica della Rivoluzione proletaria, come non hanno compreso i socialdemocratici che continuano a esaltare la democrazia borghese e a vedere in essa l'ultimo termine dello sviluppo storico.

Non è diventato bolscevico, ma ha concluso uno studio critico sulla Repubblica dei Soviet, scritto dopo un viaggio in Russia, con l'affermazione: "se abitassi in Russia, mi metterei ai servizi dello Stato operaio".                  
                                                                                                            (Antonio Gramsci) 
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Prima di discutere il mio argomento intendo fare un rapidissimo esame del mondo dal punto di vista delle possibilità di libertà. Le ultime possibilità di libertà sono più grandi che mai, ma anche i pericoli sono grandi e molto difficile è l'avvenire immediato.
La guerra è stata una pietra di paragone che ha rivelato cosa vi era di forte e cosa di debole nelle pretese fedi degli uomini. Gran parte di ciò che apparteneva alla tradizione più a lungo ancora probabilmente avrebbe durato, senza le dure realtà che la guerra ha imposte all'attenzione del popolo. Molte cose furono spazzate via, di quelle che facevano parte di ciò che si può chiamare la urbanità; la loro esistenza dipendeva dal fatto che non si era capaci di ritornare alla culla e che non si agitavano le passioni primitive. Il mondo, dopo la guerra, è più franco, meno agile, più brutale. La separazione tra giovani e vecchi è più profonda che mai, perchè i vecchi riuscirono a idealizzare la guerra e per farlo dovettero staccarsi più del solito dalla realtà, mentre i giovani non mai come ora hanno avuto la realtà profondamente radicata entro di sè. In conseguenza di ciò la politica non è più attraente come una volta, e benchè i capi dei partiti politici ancora indulgano alla vecchia ciarlataneria, essa non fa più presa, e i motivi per cui gli uomini votano sono molto realistici.
Non solo il partito liberale ma lo stesso ideale liberale si è, in conseguenza della guerra, eclissato. Il suo fallimento fu reso manifesto dalla clamorosa sconfitta del presidente Wilson. Gli ideali liberali, dipendevano da un certo grado di tolleranza tra uomo e uomo, da una repugnanza a spingere le cose agli estremi. La tolleranza religiosa, la democrazia, la libertà di parola, la libertà di stampa e di commercio erano tutti principi i quali implicavano la non irreconciliabilità delle differenze tra i diversi gruppi. Io sono tra coloro che in conseguenza della guerra sono passati dal liberalismo al socialismo, e non perchè sia venuta meno in me l'ammirazione per molti degli ideali liberali, ma perchè non vedo per essi un avvenire prima di una completa trasformazione della struttura economica della società.
La guerra ha portato a una contrapposizione della plutocrazia e del lavoro, del capitalismo e del socialismo. Il socialismo è apparso infine come una forza quasi uguale al capitalismo per il suo potere. In Russia, esso è al potere e altrove ha la possibilità di giungervi. Che cosa possono offrire questi due opposti principi?
Il capitalismo fino a che ha lottato contro il feudalesimo ha favorito alcune idee liberali: libertà, democrazia e pace. Ha favorito pure l'aumento della produzione. La guerra ha spazzato via gli ultimi resti del feudalesimo: sono scomparsi i tre imperatori che dominavano l'Europa Orientale; nelle superstiti monarchie "i re", secondo le parole di Milton, "ancora seggono al trono, con gli occhi pieni di terrore". Ma ogni passo fatto sulla via della vitoria del capitalismo sul passato lo ha reso più ostile all'avvenire e meno liberale. Oggi mi hanno detto che in America vi è una prigione ai piedi della statua della libertà.
La maggior parte del mondo civile è soggetta al regno del terrore.

Il regno del terrore dei bolscevichi senza dubbio fu usato per darci la carne di pollo, ma esso non differisce dagli altri che per lo scopo. Non faccio speciale allusione al terrore bianco di luoghi come l'Ungheria, dove il bolscevismo è stato vinto: simili metodi, in una forma meno brutale, sono diventati universali. In Francia, assolvendo l'assassino di Juarès, i tribunali hanno fatto comprendere che l'assassinio di un socialista non è illegale. In America chiunque professa idee socialiste è passibile di prigione o di deportazione, e i socialisti regolarmente eletti non sono stati autorizzati a sedere nell'assemblea legislativa di Nuova York. In Irlanda chiunque crede ai diritti delle piccole nazioni e al diritto per esse di disporre di sè, chiunque crede in un altro dei principi per cui la guerra fu combattuta, è passibile di prigione senza giudizio. Inutile parlare delle indie: i fatti sono ormai troppo noti. Da un capo all'altro del mondo assistiamo al cozzo di forze nude. Il socialismo, alleato al nazionalismo degli oppressi, è spietatamente combattuto dal capitalismo sostenuto dal nazionalismo dei vincitori.
In simili circostanze, da un capo del mondo all'altro non si può più parlare di libertà. Ma la democrazia? La democrazia si diceva fosse uno dei principi per i quali in guerra si è combattuto. Ora i bolscevichi ci dicono che la democrazia quale noi l'avevamo pensata finora è un inganno borghese. I capitalisti ci dicono d'altra parte che è antidemocratico il tentativo si impedire con l'azione diretta a un Parlamento reazionario di infischiarsi della volontà della maggioranza. Cerchiamo di capire che cosa è in regime capitalista la democrazia. Incominciamo dal potere giuridico e dal potere civile, entrambi alleati della plutocrazia. Sta di fatto che i membri del parlamento e più di essi i ministri, per la loro posizione sociale e per i loro redditi, sono naturalmente legati con le classi possidenti. Sta di fatto che le influenze capitalistiche agiscono in modo più accentrato, più rapido, più segreto che le influenze del lavoro e sta pure di fatto che la psicologia del potere tende ad avvicinare coloro che ne sono in possesso piuttosto ai direttori del meccanismo industriale capitalistico che a coloro che oggi ostacolano il loro facile lavoro.
Il potere costituzionale della democrazia si limita a una scelta che avviene una volta ogni cinque anni, a una scelta che spesso ha luogo tra candidati nessuno dei quali esprime realmente le opinioni politiche della sua circoscrizione perché, date le spese elettorali, soltanto delle grandi e ricche organizzazioni o degli individui molto fortunati possono lottare con qualche probabilità di successo. In tutto il lavoro che contribuisce a formare l’opinione prima dell’esercizio del voto, il capitalismo ha una preponderanza enorme. Si comincia dalle scuole, dove l’educazione tende a far sorgere il rispetto per lo stato di fatto, si va avanti con la stampa che, salvo rare eccezioni, è una impresa capitalistica devota agli interessi del capitalismo. L’animo del bambino è messo sopra una falsa via, la mente dell’adulto è imbottita di errori; soltanto coloro che hanno una eccezionale energia e si sono conquistata indipendenza di pensiero, essi soli possono sperare di avvicinarsi a una visione esatta delle questioni che debbono decidersi con le elezioni. I primi fautori della democrazia credevano facil cosa per un uomo la conoscenza del proprio interesse, e credevano quindi ch’egli avrebbe votato in accordo con esso. In tal modo la risultante di un governo democratico sarebbe stata una giusta rappresentanza di tutti gli interessi, in proporzione della loro forza numerica. Mirabile teoria! Ma se essi avessero studiato, ad esempio, i Gesuiti e l’influenza loro, si sarebbero convinti della sua falsità. Le opinioni comuni dell’uomo sono fabbricate per lui come la casa che egli abita. E’ libera la scelta tra un piccolo numero di opinioni diverse, ma la varietà è strettamente limitata da forze che sfuggono al suo controllo. E’ vero però che vi sono dei limiti anche a ciò che si può fare per fabbricare l’opinione. Se le idee inculcate portano alla morte di una grande quantità di uomini in una guerra e alla miseria delle donne e dei bambini, può darsi che dopo un certo numero di anni i sistemi abituali di foggiare l’opinione falliscano. In questo caso scoppia la rivoluzione. Ma le miserie che si debbono affrontare prima di giungere a questo punto sono spaventose. Ciò che si suol chiamare governo della maggioranza in una democrazia borghese, è dunque in realtà il dominio di coloro che controllano i mezzi di formare l’opinione comune, specialmente le scuole e la stampa. E’ assurdo avere un culto fideistico per un sistema simile, è assurdo condannare ogni uso dell’azione diretta col pretesto della sedicente sacrosanta autorità di un governo eletto da anni in circostanze completamente diverse dalle attuali. Hanno ragione i bolscevichi di affermare che la democrazia borghese è una truffa mediante la quale le vittime sono invitate a sottoscrivere la propria condanna, onde sia ridotta al minimo la forza necessaria per applicarla.
Allo scoppio della guerra il capitalismo pretendeva che responsabile del disastro era il sistema feudale, rappresentato dal Kaiser. Il feudalesimo è scomparso, ma il capitalismo si è mostrato a sua volta incapace di concludere una pace effettiva. Anche senza parlare dell’ostilità contro la Russia comunista, le rivalità commerciali inerenti al capitalismo hanno imposto un duro trattamento della Germania e dell’Austria che rende impossibile una pace duratura. Ogni essere pensante deve convincersi che il mantenimento del sistema capitalistico non è compatibile con una persistenza della civiltà. E’ chiaro come il sole che se questo sistema dura, alla guerra passata seguiranno necessariamente altre guerre che saranno tanto più distruggitrici quanto più saranno scientifiche. Qualche altro conflitto di questo genere metterà fine a tutto ciò che ha dato valore nel mondo alle razze europee.
Il capitalismo infine ha cominciato a fallire come sistema tecnico di produzione, quindi la universale e ben fondata credenza nell’importanza della produzione non potrà più a lungo consigliare il mantenimento del sistema capitalistico, come accadeva prima d’ora. I vecchi stimoli al lavoro non agiscono più, perché le api hanno incominciato a pensare che non val la pena di fare il miele per i loro proprietari.
Nel momento attuale, in conseguenza della guerra, il mondo ha bisogno di una produzione accelerata in modo finora sconosciuta, ma per rendere possibile questa produzione intensa si devono trovare stimoli nuovi, ed essi non possono trovarsi che nell’autogoverno industriale. Questa idea ha dato nell’Inghilterra una forza così grande e così improvvisa al principio corporativo. Abbiamo seguito tutti con attenzione l’esperimento dell’industria edile a Manchester dove, dopo l’insuccesso completo di tutto l’ordinamento capitalistico nel creare una soluzione al problema dell’abitazione si è trovato che i sistemi corporativi hanno dato una soluzione integrale, perfetta tanto dal punto di vista dei produttori quanto da quello dei consumatori. Soprattutto per questa sconfitta tecnica del capitalismo l’avvento dei sistemi di produzione socialista è oggi infinitamente più facile di quanto mai non sia stato. I lavoratori possono ottenere tutto ciò ch’essi chiedono per realizzare la giustizia nel campo dell’economia. Il solo ostacolo che si leva sul loro cammino è la moderazione delle loro domande.
Così il capitalismo ha perduto tutti i meriti per i quali nel passato ha cercato di farsi apprezzare dagli uomini comuni. Mediante i trusts e mediante la fusione con lo stato, esso è riuscito a distruggere quasi ogni vestigia di libertà. Mediante il controllo dell’istruzione e della stampa ha fatto della democrazia una farsa. Mediante le rivalità nazionali ha reso la pace impossibile prima della sua sparizione. Suscitando infine il malcontento dei lavoratori esso è diventato inefficace come sistema produttivo. Di questi fallimenti, i primi tre sono dei motivi per desiderare che esso scompaia; il quarto è per fortuna anche una ragione per aspettarselo.
Il capitalismo è fallito nel garantire la libertà, la vera democrazia, la pace stabile o la produzione intensa di cui il mondo ha bisogno, e nulla induce a credere che il suo fallimento in questi campi non sia che transitorio. Al contrario, esso diventerà sempre più grave per il malcontento che suscita.
Che cosa offre il socialismo in queste circostanze?
Il più importante dei fatti nuovi risultati dalla guerra è l’esistenza di una grande potenza che ha adottato la pratica del socialismo. Fino ad oggi il socialismo non era stato che una teoria, qualcosa che gli uomini pratici potevano sdegnare come impossibile e utopistico. I bolscevichi, qualunque cosa si possa pensare dei loro meriti e dei loro demeriti, hanno ad ogni modo provato che la pratica del socialismo è compatibile con uno Stato forte e vigoroso. Posti davanti alla ostilità coalizzata dell’Europa e davanti alla guerra civile divampante alle frontiere, giunti al potere in un momento di caos e di carestia inauditi, privati dal blocco di ogni aiuto esteriore, essi malgrado tutto hanno respinto i loro nemici, riconquistata la maggior parte dell’antico impero russo, superato il momento di carestia più acuta senza essere abbattuti dalla rivoluzione interna. Ora con straordinario vigore si accingono a restaurare la produzione. Dal tempo della Rivoluzione francese nulla si è visto di simile ed io per parte mia non posso fare altro che credere che ciò che i bolscevichi fanno è più importante per l’avvenire del mondo di ciò che avevano fatto in Francia i giacobini perché le azioni loro si estendono sopra una scala più grande e la loro teoria è più profondamente nuova.
Io penso che i socialisti del mondo intero debbono sostenere i bolscevichi e collaborare con essi, e penso pure che i membri delle corporazioni in special modo hanno il dover di prestare grande attenzione ai sistemi bolscevichi di organizzazione, non solo per il potere e il prestigio che è insito in essi, ma per il fatto che i Soviet hanno una base industriale piuttosto che una base geografica. Non voglio dire con ciò che in un paese le cui condizioni siano del tutto diverse da quello della Russia noi dobbiamo ciecamente seguire le orme dei bolscevichi. Insieme con altri membri di corporazioni riconosco l’importanza dell’organizzazione per l’industria, ma credo in pari tempo che il parlamento territoriale deve ancora compiere utili funzioni e perciò non sono persuaso che sia desiderabile la soppressione di esso, come forma assolutamente in contraddizione con la forma soviettista. Ho la ferma convinzione che qualunque siano le realizzazioni possibili nel nostro paese, sulla via del socialismo esse potranno compiersi senza la rivoluzione armata.
Non voglio consigliare una imitazione servile dei bolscevichi. Sono propenso a credere che i loro metodi erano probabilmente i soli che potessero avere un successo nella Russia, ma da ciò non si conclude che essi siano i soli possibili o i migliori per noi. Le condizioni in cui ci troviamo noi inglesi sono però speciali; quelle dei paesi del continente si avvicinano molto di più a quelle della Russia e perciò è molto probabile che il socialismo per conquistare il potere debba far uso di metodi simili a quelli russi. In vista dei successi del bolscevismo che respinge i propri nemici, l’espansione del socialismo per tutto il continente è diventata una possibilità che non si può in nessun modo allontanare.
Il bolscevismo si è temporaneamente infischiato di due ideali ai quali molti tra di noi hanno fino ad oggi fermamente creduto: la democrazia e la libertà. Per questo dovremmo noi sprezzarlo? Io non credo.
La dittatura del proletariato è, per sua concessione, una condizione transitoria, una misura di guerra, giustificata fino a che i resti delle antiche classi borghesi lottano ancora per provocare la controrivoluzione. Lenin, seguendo Marx, considera lo Stato come di sua natura dominio di una classe nella comunità: quando il Comunismo avrà abolito la distinzione delle classi, lo Stato verrà meno. Quando non vi sarà più altra classe che il proletariato, la dittatura proletaria sparirà senz’altro e sparirà pure lo Stato nel senso che Lenin attribuisce a questa parola. Abbiamo qualcosa da obbiettare a questo processo, perché attraverso di esso può essere consacrata per un momento la presa del potere da parte di una minoranza? Abbiamo motivo per opporci all’azione diretta esercitata nel nostro paese per fini politici? La difesa che Lenin fa del suo modo di agire è che l’opposizione al comunismo non è che temporanea e che il comunismo avrà il consenso universale quando sarà riuscito a stabilirsi.
Un argomento di questo genere non si può giudicare che dai risultati. Se i risultati dimostrano, come pare sia avvenuto in Russia, che l’opposizione era profondamente ignara e che l’esperienza del nuovo regime porta il popolo a dargli il suo appoggio, si può dire che la transizione violenta ha avuto una giustificazione. Gli argomenti a favore della democrazia e della libertà, si può dire, sono argomenti validi in tempi normali, non in un momento di cataclismi e di rivoluzioni mondiali. In queste epoche terribili ogni uomo deve essere pronto a sostenere la propria fede: se egli ha torto o ragione soltanto il successo può dimostrarglielo. Io credo che vi è talora un po’ di pedanteria nel voler applicare alle cose di Russia il genere di argomenti e di principi che erano buoni per noi in periodo ordinario.
La Russia non può essere salvata che da una volontà ferma ed è dubbio che una forte volontà avrebbe potuto salvarla senza una forma di dittatura. Io non credo però che queste considerazioni potranno essere applicate a noi, anche se noi fossimo molto più vicino di quanto non siamo alla instaurazione di un socialismo integrale. L’Inghilterra, dopo il 1688 ha sempre avuto l’amore della moderazione. Metodi simili a quelli dei bolscevichi alienerebbero il popolo semplice. L’opposizione stessa dei reazionari non è del resto più tanto spietata da giustificare metodi simili. La moderatezza del nostro “Labour Party” è spesso esasperante ma è ad ogni modo adeguata a quella dei suoi avversari. Marx, il grande teorico della dottrina della lotta di classe, affermava che in Inghilterra il socialismo potrebbe stabilirsi con metodi pacifici: speriamo che in ciò, come in tante altre cose, egli sia stato profeta veritiero. Ma per il continente, e l’esempio russo ce lo ha dimostrato, tale speranza è probabilmente chimerica.
Io credo però, quantunque il profetizzarsi sia cosa incerta tanto da non aver maggior valore di un divertimento, che dopo i successi del comunismo russo di fronte alla ostilità coalizzata dei grandi Stati capitalistici, la vittoria del socialismo in Germania, Francia e Italia entro i prossimi dieci anni è cosa che rientra nei limiti del possibile.
Vi sono però dei motivi per temere che in questi paesi l’instaurazione di esso non potrà avvenire senza lo stesso accompagnamento di guerra e di terrorismo che abbiamo visto in Russia, quantunque, forse, in forma attenuata. Non credo che il socialismo, se uscisse vittorioso da questa lotta, limiterebbe l’estensione della sua vittoria alle nazioni dove la maggioranza sarà ad esso favorevole, soprattutto se l’intervento sarà provocato da insurrezioni socialiste. La Polonia, ad esempio, ricadrebbe molto probabilmente sotto il dominio russo come ai tempi dello zarismo. Il nazionalismo e la religione faranno i polacchi ostili al socialismo, sia ch’esso si presenti come internazionale o che assuma la forma di una rinascita dell’imperialismo russo. Occorrerà sopprimere con la forza le velleità polacche di indipendenza e di persecuzioni degli ebrei e occorrerà senza dubbio, mediante un severo controllo sull’istruzione, formare alla generazione nascente una mentalità più marxistica. Torbidi dello stesso genere sorgeranno nei Balcani. Il regime del socialismo internazionale in molti paesi sarà almeno per una generazione un regime di forza armata sorretto da un rigido controllo della stampa e delle scuole. Non vi è motivo di supporre che, sorta l’occasione, i bolscevichi sfuggiranno a simili eventualità, nonostante la scarsa dose di imperialismo che può essere nelle loro intenzioni attuali. La loro concezione del mondo, come quella degli antichi Maomettani, è ad un tempo realista e fanatica. Credendo, come essi fanno, nella tesi marxistica dell’inevitabile sviluppo economico, essi sentono fatalmente assicurata la loro vittoria finale. Ciò ch’essi considerano come la cosa di maggiore importanza, è che i cannoni siano nelle mani del proletariato cosciente. Assicurato questo punto, essi sono convinti che la propaganda può attirare dalla parte loro la parte del proletariato che ancora è tratta in inganno dalla “rèclame borghese”, dalla religione ad esempio e dal patriottismo. E’ molto probabile che le opinioni loro siano giustificate e che se essi potessero governare l’Europa per una generazione, dopo questo periodo di tempo l’opposizione non verrebbe dalle morenti forze del passato, ma da qualche nuovo movimento che potrà sorgere con lo scopo di realizzare gli ideali socialisti che i bolscevichi potranno nel frattempo aver dimenticato.
Se noi riteniamo possibile questa evoluzione nel caso di permanenza dei successi bolscevichi, dovremo cercare di provocare questi successi, o rinunciare a provocarli per paura dello spargimento di sangue, del terrore ch’essi possono provocare, della perdita di civiltà almeno temporanea che il conflitto porterà con se?
Per parte mia sono convinto che ogni progresso vitale nel mondo dipende dalla vittoria del socialismo internazionale e che vale la pena, se necessario, di pagar cara questa vittoria. Sono pure convinto che non vi sarà pace fino a che il socialismo internazionale non avrà trionfato e che la via più rapida per metter fine al conflitto stia nell’accrescere le sue forze e nell’indebolire quelle che gli si oppongono. Credo, in una parola, che “ogni recluta vuol dire una pace più rapida”. E quando parlo di socialismo, non penso a un sistema all’acqua di rose, ma ad una trasformazione completa, da cima a fondo, quale Lenin ha tentato. Se la sua vittoria è necessaria alla pace, dobbiamo consentire ai mali provocati dalla lotta, nella misura in cui la lotta ci è imposta dal capitalismo.
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Per spiegare questa conclusione bisogna però far capire alcune cose. Un punto di importanza assolutamente vitale è che il socialismo non deve perdere il suo carattere internazionale. E’ perfettamente possibile immaginare che grandi potenze organizzate ogni una in sistema comunista su basi nazionali vengano a conflitto per il possesso di materie prime. Il petrolio del Caucaso potrebbe esser l’origine di un conflitto simile. Così pure nel socialismo, fino a che esso è nazionale non vi è nulla che sia incompatibile con una nuova specie di sciovinismo. Il disprezzo per il regno della maggioranza durante il periodo rivoluzionario che i bolscevichi inculcano e il loro proposito di conquistare la maggioranza mediante la dittatura temporanea di una minoranza cosciente giustificano evidentemente le guerre per l’espansione dell’idea socialista e simili guerre diventeranno facilmente nazionaliste se avranno luogo tra uno Stato socialista e uno Stato capitalistico. L’abolizione dello sfruttamento, che è lo scopo del socialismo, e che è una garanzia contro la guerra, non sarà certamente completa fino a che continuerà lo sfruttamento di una nazione ai danni dell’altra. Essa non sarà assicurata se non quando le materie prime del mondo saranno ripartite da una autorità internazionale. Si può nutrire dei dubbi se il socialismo sarà così forte da vincere gli interessi e i sentimenti nazionalistici in modo così completo da poter introdurre questo metodo di ripartizione delle materie prime; fino a che esso non abbia raggiunto questo scopo, poca cosa avrà fatto per creare una garanzia contro le guerre.
Insieme a quella delle materie prime, vi è un’altra questione che può condurre alla guerra tra Stati comunistici nazionali: quella del diritto di immigrazione. Nell’Australia e in tutta l’America del Nord e del Sud, questo problema può essere per molti anni avvenire di un’importanza capitale.
Al socialismo internazionale, se noi eccettuiamo l’America, non vi è che una sola forza reale popolare che si opponga: ed è la forza del nazionalismo. Per nazionalismo io intendo la volontà di garantire gli interessi di una sola nazione, qualunque sia il prezzo che ciò possa costare alle altre nazioni, intendo l’idea che gli interessi delle diverse nazioni sono antagonistici o meglio, l’odio contro altri paesi, di cui questa idea è l’espressione razionale. In tutti i nuovi Stati creati dal trattato di pace il nazionalismo, inteso in questo senso, appare in predominio assoluto.
Molti di questi Stati preferirebbero uccidere il loro vicino e morire di fame piuttosto che vivere nell’abbondanza per aver mantenuto relazioni cordiali con le razze che essi odiano. Questa tendenza dello spirito è in parte istintiva, ma in parte è pure il risultato di una educazione e di una propaganda che probabilmente non potranno essere cancellate rapidamente se non usando la forza per prevenire le ostilità, per creare la libertà di commercio e diffondere un nuovo tipo di educazione. La Lega delle Nazioni con la sua eredità di odi guerreschi è assolutamente incapace di compiere quest’opera. Soltanto il socialismo internazionale, tra tutte le forze che esistono oggi nel mondo, può trasformare realmente la mentalità delle popolazioni bellicose. Non dico che il socialismo internazionale possa far ciò rapidamente, ma dico che se esso avesse il potere, potrebbe farlo nello spazio di una generazione, poiché esso deve combattere l’istinto e la tradizione, evidentemente contrari all’interesse, e deve sostituire loro un generoso ideale da cui l’enorme maggioranza della popolazione trarrà dei benefici materiali.
Malgrado le serie difficoltà che esso dovrà superare e i problemi che dovrà risolvere, io sono convinto che il socialismo è il prossimo stadio necessario del progresso mondiale, se in qualche modo debbono sopravvivere i beni e i valori per cui la civiltà occidentale ha combattuto. Io credo pure che la quantità di bene che esso potrà realizzare dipenda dalla quantità di generose speranze che esistono in coloro che stanno attuandolo. Se i mali derivanti dallo sfruttamento economico sono completamente svelati e se ardentemente viene desiderato il nuovo mondo che può uscire dalla loro abolizione totale, si creerà una forza nuova, tanto forte da poter cacciare il nazionalismo dal cuore degli uomini, ed è il nazionalismo solo, sia in Europa che in Asia, che rende il capitalismo capace di salvare il suo potere dalla distruzione. Soppresso il nazionalismo, idealismo e interessi uniti spingerebbero la enorme maggioranza del mondo civile a instaurare il socialismo internazionale, e, una volta instaurato questo regime sarebbe reso stabile dai suoi vantaggi e dal fatto che nessuna classe avrebbe un interesse diretto ad abbatterlo.
Libertà, democrazia, pace, sufficiente produzione e giustizia economica si possono ottenere dal socialismo internazionale e in nessun altro modo, credo io. Ma benchè il socialismo possa realizzare queste cose, non è certo ch’esso lo faccia. La realizzazione di esse dipenderà per gran parte dal modo come il socialismo verrà instaurato, dalla violenza della lotta e dal carattere del vincitore. Penso che specialmente il nostro paese, per l’idea corporativa, che in esso ha tanto seguito, ha un compito ben definito da assolvere durante il periodo transitorio. Penso che noi potremo effettuare la trasformazione senza violenza e che possiamo fare più di ogni altro paese per conservare, durante la lotta, quegli ideali di libertà individuale senza i quali una società sarebbe uno stereotipo senza progresso e senza vita. La libertà e la guerra non erano compatibili, e un aumento di libertà è uno dei fini confessati dei socialisti: libertà collettiva da raggiungersi mediante l’autogoverno industriale, libertà individuale dopo il lavoro, da ottenersi con la diminuzione d’orario. I meriti relativi delle diverse forme di socialismo e delle diverse tattiche per realizzarlo possono essere giudicati alla stregua della capacità di realizzare questi scopi.
Il socialismo, senza dubbio, come il capitalismo, sarà una fase del progresso umano cui succederà qualche cosa di cui non possiamo prevedere ancora la natura, forse l’anarchia. Sarebbe fatale al progresso futuro che il socialismo si instaurasse come la Chiesa dopo Costantino nella forma di una ortodossia persecutrice, la quale incatenasse lo spirito umano e arrestasse il progresso per un migliaio d’anni. A tale conseguenza non è però impossibile che si giunga se la vittoria del socialismo è ottenuta con mezzi militari, dopo guerre lunghe e disastrose. Per questo motivo, se non per altri, è infinitamente da desiderare la vittoria del socialismo con mezzi pacifici.
Ogni concezione della vita umana tende a passare per tre fasi. Nella prima essa è pacifica, umanitaria, persuasiva, tende a convincere con il discorso più che con la forza. Nella seconda fase, avendo acquistato una certa forza e avendo suscitato una opposizione di una certa violenza, essa cessa di essere pacifica, e si fa militante, giustificando la sua combattività con l’idea ereditata dalla prima fase che la sua vittoria apporterà il millennio. Nella terza fase, acquistato il potere, si fa oppressiva e crudele. Il cristianesimo è vissuto nella prima di queste fasi fino al tempo di Costantino, con le Crociate passa alla seconda fase, con l’Inquisizione alla terza. Anche il capitalismo ha attraversato fasi simili. In Adamo Smith, Cobden e Bright vediamo la fase pacifica, nell’abbattimento delle istituzioni feudali esso ci si mostra nella fase militare; con lo sfruttamento delle razze inferiori e con il regno dei terrori antisocialisti si passa alla fase tirannica. Lo stesso fenomeno appare per ciò che riguarda il nazionalismo, benchè qui il grado di sviluppo sia differente nelle diverse nazioni, a seconda delle loro forze. Mazzini ci mostra la fase pacifica, Bismarck quella militante, l’imperialismo moderno la fase tirannica.
Il socialismo è passato dalla fase pacifica a quella militante con l’avvento di Lenin e in questo passaggio ha, per certi tipi di mentalità, perduto molte delle attrattive che aveva. Coloro che sentono vivamente i mali del mondo presente e che desiderano con ardore l’esistenza di un mondo liberato da questi mali, indietreggiano oggi davanti al duro conflitto che è necessario per liberarsene. Confesso di nutrire una grandissima simpatia per questi uomini. So che nel corso di un conflitto ogni ideale viene degradato e che la vittoria violenta di un partito è inevitabilmente accompagnata dalla perdita della maggior parte delle cose che rendevano desiderabile la vittoria stessa. Lo stesso conflitto violento, soprattutto se è prolungato e se è molto esteso tende ad abbassare la società che si abbandona ad esso. Non posso credere che un socialismo uscito vittorioso da una guerra civile lunga e mondiale conserverebbe il carattere necessario a una società felice e progressiva. I progressi, dopo la sua vittoria, dipenderebbero probabilmente da coloro che farebbero opposizione alla sua forma vittoriosa nell’interesse di istituzioni più libere e meno coercitive, abbraccianti almeno qualcosa dei vecchi ideali del liberalismo, non, è vero, gli ideali economici, come quello della libera concorrenza, ma gli ideali sociali e la libertà intellettuale che nessun partito impegnato in una lotta a morte può lasciar sussistere.
Il socialismo ha molte forme e non è improbabile che la sua vittoria nei diversi paesi rivestirà pure diverse forme, ma, subordinatamente alle necessità essenziali di ordine e di sufficiente produzione, la cosa più importante che ogni sistema socialista deve avere come suo scopo è la libertà. I membri delle corporazioni nazionali hanno sempre ricordata l’importanza della libertà, forse più dei loro predecessori collettivisti. Il loro sistema di equilibrio tra i poteri rivali del Parlamento e delle rappresentanze corporative è destinato ad assicurare la libertà politica. Il loro sistema di autogoverno industriale, opposto alla organizzazione burocratica dei socialisti di Stato è destinato a garantire la libertà alla collettività lavoratrice in ogni industria, e libertà locale in tutte le questioni che debbono essere risolte localmente.
Il sistema di decentramento non solo geografico. Ma industriale è di grande importanza per creare il senso della libertà, la possibilità di iniziative personali e di utili esperienze.
L’autogoverno del lavoro è la più importante delle forme di libertà che devono essere conquistate, perché ciò che tocca l’uomo più intimamente è il suo lavoro e perché grazie ad essa egli è posto sulla via migliore per risvegliare la sua coscienza politica. La libertà del lavoro era lo scopo principale del sindacalismo ed è lo scopo del socialismo corporativo, ed io penso ch’essa sarà meglio garantita da corporazioni nazionali che da qualsiasi altra forma di organizzazione economica della produzione. Penso che il senso dell’autodirezione e dell’indipendenza che in tal modo si creerà servirà a trasformare radicalmente le idee dei lavoratori comuni sul lavoro e, in ogni caso, come cosa nuova esso stimolerà la produzione molto più che il vecchio stimolo del terrore capitalistico.
Ma oltre la libertà del lavoro esiste certamente una libertà fuori del lavoro, nelle ore di divertimento, che sarà data dalla diminuzione di orario resa possibile dai sistemi maggiormente produttivi. Oggi questi sistemi sono guardati con sospetto come fattori di utile solo per il capitalista. Nel nuovo regime, tutto l’utile che da essi deriva manifestamente andrà ai lavoratori e da questo spostamento sarà senza dubbio considerevolmente accelerato il progresso tecnico. Ciò è confermato dalla adozione da parte dei bolscevichi del sistema Taylor di organizzazione scientifica del lavoro.
Vi è certamente un’altra specie di libertà applicabile soltanto ad alcuni individui eppure di grande importanza per il progresso umano ed è la libertà di rifiutarsi di occupare un posto qualunque nel sistema organizzato della comunità. L’uomo che vuole insegnare una nuova religione, inventare una nuova scienza, o produrre un’arte nuova può non trovare nessuna corporazione che sia disposta a riceverlo. Egli sarà ufficialmente classificato come un poltrone o come un vagabondo, perché tutte le innovazioni fondamentali devono necessariamente prodursi contro la volontà della comunità, qualunque possa essere il sistema economico.
Per il bene di questi uomini è grandemente desiderabile che l’emancipazione completa dal sistema sia possibile a chiunque è disposto a sopportare una sufficiente dose di miserie. Procedimenti eccezionali che possono sembrare pericolosi ma che possono essere molto utili (al pari di quadri che gli intenditori giudican privi di valore) possono giustamente essere sconsigliati, ma non devono essere resi fisicamente impossibili a coloro che hanno tanta fiducia in se stessi da affrontare dei sacrifici piuttosto che prendere altre vie. Le scappatoie e le eccezioni sono fatti assolutamente vitali, se la società vuole conservare la capacità di progredire.
Noi, nel nostro paese, se adottiamo il socialismo, siamo certi che lo adotteremo in modo frammentario e non sistematico, il che farà si che noi avremo molto maggiori possibilità di scappatoie e di eccezioni quante non abbia il bolscevismo sistematico. Noi possiamo inoltre sperare che il socialismo continentale, se un giorno riuscirà a garantirci la vittoria, sarà così forte da ammettere i vantaggi derivanti da tale mancanza di sistematizzazione. In questo senso credo che noi porteremo un contributo ragguardevole al risultato finale.
Il capitalismo non può renderci più oltre tollerabile il mondo, non può conservarci l’eredità della civiltà. Il socialismo internazionale può farlo, se riesce a conquistare il potere senza una lotta troppo lunga e troppo spietata. Coloro che si oppongono all’avvento del socialismo si addossano quindi una grave responsabilità. Non si può credere che il vecchio sistema sarà conservato e tutto ciò che l’opposizione può fare è di togliere al sistema nuovo molto del suo merito. Noi che lottiamo per il socialismo dobbiamo ricordarci che non basta vincere gli avversari nostri se vincendoli noi vinciamo noi stessi e che noi vinceremo noi stessi se la nuova società che uscirà dai nostri sforzi non garantirà maggiore libertà allo spirito umano creatore e alle vite degli uomini e delle donne di quanta ne è esistita finora. Non credo che si potrà dispensare del tutto dall’impiego della forza, quantunque pensi che nel nostro paese la forza necessaria può ottenersi senza rivoluzione violenta. La forza, se riesce nel suo obbiettivo finale, deve sempre essere subordinata alla propaganda. Essa deve essere impiegata in modo che abbia a persuadere, non in modo di allontanare la gente comune. E in ogni modo, si deve fare tutto ciò che è possibile per far comprendere che l’uso della forza non è che temporaneo e che la mèta è una società in cui la forza non sia più necessaria. Non è che mediante la inspirazione di una grande speranza, mediante la realizzazione ardente del mondo migliore cui noi aspiriamo che possiamo impedire alle nostre aspirazioni di degenerare nel conflitto e che potremo assicurare la vittoria non solo del nostro partito, ma del nostro ideale: l’ideale di libertà, di giustizia economica e di cooperazione internazionale che il mondo vuole e che soltanto il socialismo può realizzare.
BERTRAND RUSSEL

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