venerdì 17 agosto 2018

Samir Amin: “La crisi” - Alessandro Visalli

Da: http://tempofertile.blogspot.com - AlessandroVisalli è architetto e dottore di ricerca in pianificazione urbanistica; si occupa di ambiente ed energie rinnovabili.


Il libro di Samir Amin, “La crisi”, del 2009, il cui sottotitolo è “Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?” conclude per ora la lettura di alcuni testi dell’economista egiziano che ha visto prima il suo testo del 1973 “Lo sviluppo ineguale”, poi il libro del 1999 “Oltre la mondializzazione”, e quello del 2006 “Per un mondo multipolare”. Dieci anni dopo abbiamo letto l’intervento “La sovranità popolare unico antidoto all’offensiva del capitale”, nel quale la pluridecennale riflessione dell’alfiere della liberazione terzomondista e instancabile denunciatore della polarizzazione generata dallo sviluppo capitalista perviene alla determinazione, apparentemente di chiave tattica, di dover far leva sulle lotte nazionali e popolari, punto per punto, dai luoghi più deboli. Il riscatto deve, cioè, pervenire dai luoghi in cui la contraddizione tra la promessa di prosperità e la realtà di assoggettamento e alienazione è più ampia. Ciò che bisogna combattere è una tendenza intrinseca al capitalismo, al quale non è riconosciuta alcuna capacità emancipatoria o di sviluppo delle forze produttive: quella di schiacciare le periferie, creandole come tali. Creandole in quanto periferie, rispetto ai centri dominanti nei quali il capitale si concentra e dalle quali domina, accade che la logica intrinseca della macchina produttiva (di valore) tende quindi continuamente a fare della natura (e degli uomini) risorse e per questo ad estrarle, ad alienarle.
Per contrastare questa tendenza, dice Amin, non bisogna aspettare che una qualche contromeccanica automatica intervenga a salvarci: bisogna prendere il potere. Occorre, cioè, lottare per il potere. Costringerlo a fare i conti con le forze popolari, schiacciate, ma che vogliono rivendicare il proprio. 

       Dunque:
-          Rivendicare la propria capacità di essere autonomi, di non essere dipendenti e subalterni;
-          Decostruire sempre, in noi e nelle cose, le relazioni di potere e dominazione;
-          Disconnettersi dai vincoli del capitale, specificatamente dalla logica della competizione selvaggia della mondializzazione, ponendo anche la questione             della sovranità.

Essere ciò che si vuole, e volere quel che si è.

C’è una radice in questa posizione, che si ritrova nella lettura del marxismo che Amin cristallizza già nel suo testo del 1973. Il modo di produzione capitalista, forma storica creatasi in occidente in un contesto particolarmente predatorio, e di qui dispiegatasi nel resto del mondo travolgendo altre forme di organizzazione sociale (tra le quali le promettenti forme di protocapitalismo orientali, più lente e molto meno individualiste), esprime una forma di razionalità connaturata ai suoi propri rapporti sociali, ma anche limitata da questi. Le caratteristiche essenziali del modo di produzione capitalista (la generalizzazione della “forma-merce”, l’assunzione di tale forma da parte della “forza-lavoro”, quindi la reificazione e la proletarizzazione dell’uomo fatto produttore di merci, la finalizzazione ad essa delle attrezzature produttive tutte), si ritrovano peraltro intatte anche in molte forme di esperienza socialista reale, che è quindi un “capitalismo senza capitalisti”.

In altre parole, se entro il modo di produzione capitalista, fino a che si resta entro la sua logica, appare alla fine razionale, e quindi invincibile, il calcolo economico e la competizione, con essa diventano inevitabili i rapporti sociali che esso determina (o meglio, che lo fondano); con la logica viene anche una specifica forma di gerarchia sociale. Comprendendo il capitalismo, invece, come figura storica (e non sopra-storica) diventa possibile accedere ad un piano di critica. Il calcolo economico, indiscutibile sul piano della valorizzazione del valore (e quindi della sua accumulazione nel contesto dei rapporti sociali dati), è irrazionale se si tiene al centro il principio di una altra socialità: se la ricerca dell’autonomia porta a porre al centro la natura e la società tutta.
Il calcolo economico, come scrive nel 1973, diventa allora riconoscibile come “irrazionale dal punto di vista sociale”.

Questa irrazionalità è riconosciuta sin dal 1973, quando l’autore osserva al suo avvio la tendenza del capitale a superare le difficoltà di valorizzazione nei paesi ‘sviluppati’ tramite l’estensione a scala mondiale dei monopoli e la finanziarizzazione. Ma la contraddizione tra capacità di produzione e di consumo può essere risolta solo per poco con l’indefinita “espansione dei crediti o l’emissione di potere di acquisto” (Amin qui scrive a ridosso della rottura di Nixon della convertibilità del dollaro in oro), cioè attraverso l’inflazione del debito. Almeno se “la contraddizione tra il carattere ancora nazionale delle istituzioni e delle strutture” e quello globale di capitale e credito non viene superata (ivi, p.102).

Una sorta di compromesso keynesiano mondiale è dunque l’orizzonte nel quale potrebbe risolversi, almeno per un poco, la crisi. Ma questa prospettiva è illusoria, ed anche ingenua. Gradualmente Amin se ne rende conto, la materia dei rapporti internazionali è fatta di altra pasta. Impiegherà dunque gli anni successivi a indagare i rapporti ineguali e polarizzanti (con l’industrializzazione subalterna, alla quale solo in parte per un misto di ragioni storiche, politiche e di semplice massa, forse può sfuggire la sola Cina) ed a cercare di organizzare una risposta delle periferie. 

Nel 2009 la situazione è mutata, le periferie sono state industrializzate, e si sono create delle catene produttive molto integrate (per circa la metà interne ai flussi di una decina di migliaia di imprese multinazionali giganti, per lo più occidentali ed anglosassoni) che fanno sembrare molte di loro nuovi centri. Sembrerebbe quindi che la polarizzazione sia diminuita e che l’ineguaglianza, tra nazioni, sia diminuita, e quindi il mondo sembra sulla strada per divenire multipolare (cosa che è anche l’ipotesi del suo libro del 2006).
Ma per Amin essa non è tanto diminuita, quanto si è “spostata su altri terreni” (OM, 1999, p. 21), e viene ora organizzata da nuovi monopoli (di capitale, tecnologia, potere militare) che vedono operare sinergicamente movimenti di capitale, migrazioni selettive e orientate all’estrazione di profitto (dai migranti e dai lavoratori autoctoni ridisciplinati), controllo delle risorse naturali, polarizzazione tecnologica (in pochi “hub dell’innovazione”, come si chiamano normalmente). Le periferie sono quindi diventate industriali senza cessare di esserlo. Al contempo emergono, e in modo diffuso anche vicino ai “centri” ed alle “periferie”, dei luoghi letteralmente vuoti. Nei quali si allarga il “quarto mondo”.

L’accumulazione, intrinseca alla forma capitalista, si manifesta allora, come sempre, in questa estrazione di rendita necessariamente polarizzante. Un’estrazione che è organizzata da generalizzati oligopoli e da una sorta di “imperialismo collettivo” dei grandi centri di potere (quel che chiama “la triade”, ovvero USA, UE e Giappone). Ed è organizzata sia nei vecchi centri geografici come nei nuovi; ovvero è parte di un movimento che prescinde in parte dalla territorializzazione, creando con la stessa mossa necessaria (fatta di estrazione di valore e marginalizzazione) la debole crescita in occidente e l’accellerazione delle periferie “emergenti”. Insomma, il dominio degli oligopoli finanziarizzati rinchiude necessariamente, per applicazione di un’identica regola di funzionamento, l’intera economia mondiale in una crisi di accumulazione del capitale che è carenza di domanda e crisi di redditività al contempo (p.32).
Ne fa parte anche una sorta di “apartheid mondiale” che si manifesta spesso anche come carenza di democrazia e di capacità dei popoli di esprimersi.

L’obiettivo politico deve dunque essere di rovesciare la logica, e dare la corretta priorità all’accesso alle risorse del pianeta ed alla loro ripartizione equa. Ovvero al rovesciamento del potere esclusivo degli oligopoli, arrivando a “nuove configurazioni dei rapporti di forze sociali capaci di imporre al capitale di piegarsi alle rivendicazioni delle classi popolari e dei popoli” (p.38).

Per ottenerlo, oltre a mettere in questione la logica della competizione e della valorizzazione del valore, bisogna attuare una sorta di “sganciamento”. Ovvero una forma di regionalizzazione in grado di appoggiare lo sviluppo nazionale e popolare. Appoggiare anche la liceità della ricerca di altre forme di razionalità e organizzazione sociale, ovvero il diritto di perseguirle, se del caso proteggendole.
Come si diceva, il diritto di essere ciò che si vuole, e volere quel che si è.

Nel testo Amin ricostruisce brevemente (si veda anche questo interessante intervento di Pierluigi Fagan) lo sviluppo della Cina moderna che in molti campi è arrivata prima dell’Europa. Prima certamente nell’organizzare un modello di razionalità amministrativa che è stato a lungo preso ad esempio anche in occidente come caso di successo di centralizzazione del surplus tributario. Una innovazione, forse favorita dalla scrittura, in anticipo di cinque secoli sull’occidente. Ovvero l’invenzione della burocrazia e della laicità (noi dovremo aspettare il 1800).
Per Amin ciò apre all’ipotesi che la struttura centralizzata e ben amministrata cinese avrebbe potuto “inventare” il capitalismo per prima, ma “con caratteristiche cinesi” (come dicono usualmente).
Invece il capitalismo occidentale procede per una via diversa, una sorta di “accumulazione per esproprio” intrinsecamente imperialista. Ovvero un modello di accumulazione predatorio, fondato sulla sopraffazione (anche se domesticata dal diritto, dopo il trauma delle guerre di religione). È questa forma che conquista il mondo (con commerci e cannoni, ovvero “vele e cannoni”, come scrive Cipolla).

Il capitalismo è dunque una “struttura polarizzante”, che nella migliore delle ipotesi determina delle reazioni, come fu quando a Bandung si creò il movimento dei paesi “non allineati”.

La condizione per uscire dalle condizioni di “sottosviluppo” (ovvero da forme di organizzazione sociale, prima che economiche, rese subalterne e funzionalizzate da una logica esterna nella quale possono solo perdere sempre), è dunque per Amin di uscire anche dalla “mondializzazione capitalistica”. Dove è il secondo termine ad essere qualificante: “sganciarsi”, dunque.

Una parte dello “sganciamento” è concettuale: riconoscere che l’illuminismo è il progetto di instaurare il capitalismo. Precisamente al posto delle forme sociali precedenti, ormai disfunzionali (diagnosi che, come ovvio, autori come Burke, De Maistre ed altri contestano). Una nuova società, fondata sulla ragione, anziché sulle consuetudini sociali e le forme di vita consolidate e immersive, che determina in sé l’emancipazione dell’individuo. Individuo che deve essere libero di operare, nella cornice di leggi, nel “modo economico” (ovvero entro l’ambiente competitivo dei “mercati”) e di scegliere attraverso la forma politica della democrazia (anche essa individuale).
Ma come “i due versanti del progetto sono entrambi legittimati ricorrendo alla Ragione”, così questo si autodefinisce come “instaurazione di una Ragione trans-storica e definitiva – la fine della storia, dopo una preistoria priva di ragione” (p.77). Questa è la radice ideologica della rivoluzione borghese dalla quale anche i padri del marxismo (in particolare quelli che camminano nelle orme di Engels) hanno fatto fatica a vedere, e quindi a liberarsene (nell’unico modo in cui ci si libera di una idea: capirla).

Il socialismo è sembrato dunque solo un altro disvelamento: una nuova Ragione che relativizza quella “borghese”, a sua volta cacciandola nella preistoria. Alla fine, insomma, la storia avrà termine, ma nel socialismo.

Capire una idea non significa necessariamente cessare di abitarci. Ma capire quella che Amin chiama “l’esigenza di lucidità” (magari al plurale), ovvero di progetto, e di una forma di universalismo, come casa plurale e ospitale.
Insomma, come diceva Mao: “gli Stati vogliono l’indipendenza, le nazioni la liberazione, i popoli la rivoluzione”, per ottenerlo è necessario ancora cercare di costruire un progetto attraverso le lotte: dall’Afghanistan, lo Yemen del Sud, l’Iraq, il Sudan, e poi dal Nepal all’India (sono i suoi esempi).

Parte della rivoluzione deve interessare il mondo agricolo, nel quale è impegnato ancora la gran parte dell’umanità (e la cui distruzione provoca le ondate migratorie). Qui il libro raggiunge alcune delle sue pagine più interessanti: l’agricoltura industrializzata del nord vede di fatto all’opera un meccanismo di drenaggio strutturale, per il quale i profitti del capitale impiegato dagli agricoltori vengono intercettati dai segmenti dominanti del capitalismo industriale (la rete distributiva e di trasformazione) e finanziario (tramite il meccanismo del debito), situati necessariamente a monte (p.106). Invece l’agricoltura povera del sud resta intrappolata in ancora più aspre condizioni di dominazione (dal capitale internazionale), e tanto più si modernizza tanto più espelle individui ormai inutili.
Alla fine la modernizzazione dell’agricoltura del sud creerebbe quindi nel medio termine eserciti immani di “inutili” come effetto della semplice logica propria della valorizzazione.

Dunque se bisogna che lo sviluppo (in quanto ‘sociale’ ed ‘umano’, e non ‘economico’) sia inclusivo e non escludente, bisogna che a lungo sopravviva un’economia contadina effettiva, cosiddetta “di sussistenza”, i cui rapporti con “i mercati” restino protetti e regolati.
La prima forma di rivoluzione in molte parti del mondo è dunque il diritto all’accesso alla terra (anche superando le forme gerarchiche tradizionali, rivolte alla creazione di élite estrattive più che tributarie). Qui diventa per Amin pertinente il dibattito tra Marx e i populisti russi di cui abbiamo dato conto nel bel libro di Marcello Musto sul quale torna questo intervento di Pier Paolo Poggio.

Si tratta di una sfida complessa e multidimensionale, per la quale bisogna fare bene attenzione a non confondere “cosmopolitismo” (borghese) con “internazionalismo” (delle lotte nelle condizioni locali). Cioè di non perdere di vista la logica dell’uniformazione gerarchica, sotto un’unica Ragione (quella della legge del valore), propria di una oligarchia “plutocratica” che esercita una sorta di “imperialismo collettivo”, la cui meccanica si nutre di una spontanea solidarietà tra frammenti “nazionali” che gestiscono un sistema mondiale di fatto.

Internazionalismo significa invece solidarietà tra le lotte per la liberazione, gli uni dagli altri, in una sperabile “seconda ondata” di queste. 

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