giovedì 9 agosto 2018

Hyman Minsky: “Combattere la povertà. Lavoro non assistenza” - Alessandro Visalli

Da: http://tempofertile.blogspot.com - AlessandroVisalli è architetto e dottore di ricerca in pianificazione urbanistica.



In questo libro sono raccolti interventi di Hyman Misky, eretico economista keynesiano famoso per la sua tesi sulla instabilità intrinseca del capitalismo, che vanno dal 1965 al 1994 (l’autore muore nel 1996, prima che i crolli del 2001 e 2007 gli dessero clamorosamente ragione). Si tratta, come recita il titolo di interventi sul piano del lavoro, in polemica molto forte con la “guerra alla povertà” delle amministrazioni democratiche americane soprattutto perché imperniata sull’assistenza e non sull’offerta diretta di lavoro. Queste politiche (anche nelle varianti ben viste da destra che includono salari minimi e/o tasse negative) per Minsky sono conservatrici del sistema disfunzionale esistente ed incontrano peraltro il limite strutturale, in un capitalismo intrinsecamente fondato sulla speculazione, di poter provocare eccesso di investimenti (speculativi) e per questa via instabilità esplosiva.

Se questa strada è chiusa, quella invece da esplorare passa per il cambiamento del sistema; cioè per l’occupazione di ultima istanza diretta da parte dello stato, per il controllo degli investimenti e della natura delle produzioni per finalità utili. Sembra socialismo, ma Minsky amava il capitalismo e cercava invece di salvarlo da se stesso, attraverso la proposta di un “’nuovo’ nuovo modello di capitalismo” fondato sull’impegno per il pieno impiego e lo sviluppo delle risorse affidato ad una partnership tra agenzie pubbliche e private. Che unisca alla fallace visione a breve termine del mercato una visione lunga posseduta dal governo. Che prenda atto che “in quel complesso sistema di prodotti, lavoro e mercati finanziari che è l’economia capitalistica, il meccanismo di mercato non può raggiungere e mantenere il pieno impiego. Affinché il capitalismo possa avere successo sono necessarie istituzioni che integrino l’occupazione privata attraverso un’offerta illimitata di lavoro” (p. 258).

La critica di Minsky al capitalismo (ed anche alle versioni caritatevoli della “lotta alla povertà”, come vedremo) non si limita, come di solito viene rimarcato, a denunciarne l’intrinseca instabilità, o il sistema dei “due prezzi” generatore di bolle, ma si allarga allo stesso modo di funzionare in relazione al lavoro offerto ed alla distribuzione. Anche la risposta “conservatrice” (del modo di funzionare del sistema) di Johnson che intendeva sostenere insieme le famiglie, tramite assistenza e  trasferimenti, ed i profitti, per favorire investimenti, termina in un circolo vizioso (determinato dalla tendenza ad esplodere tra sovra investimenti speculativi ed inflazione) come si vedrà. L’alternativa proposta dall’economista è spingere insieme sulla socializzazione degli investimenti e lo stato come datore di lavoro di ultima istanza, al fine di costringere il mercato del lavoro a distribuire la ricchezza prodotta.
Un capitalismo interventista e pianificato dunque; in cui l’impiego diretto “di ultima istanza” in progetti utili dei lavoratori eccedenti, dove il termine “utile” è quello qualificante (come sottolinea Joan Robinson nel 1972 nel suo attacco direttamente a Keynes) ne sia l’elemento d’ordine. Non va infatti bene qualsiasi spesa per garantire la crescita (ad esempio, armamenti, o stadi faraonici, quartieri degli affari da lasciare deserti, file di alberghi sulla spiaggia, e via dicendo) e soprattutto non funziona l’idea, tipica della “sintesi neoclassica”, che stimolando i profitti si potenzino gli investimenti e di qui l’occupazione, a favore direttamente dei ceti più abbienti con un beneficio che poi “gocciolerà” su tutti (eventualmente aiutata da sussidi monetari diretti per i più disagiati). La dinamica speculativa intrinseca del capitalismo (potendo fondare i profitti anche sui prezzi dei titoli finanziari derivati, completamente sganciati dai valori d’uso) gli impedisce di allocare efficientemente le risorse (sul piano cruciale dell’utilità sociale, ed oggi si aggiungerebbe della sostenibilità ambientale) incluso quelle umane.

La scelta è quindi per una “economia dei controlli” e una “amministrazione globale dell’offerta” che trova in Abba P. Lerner il suo più coerente teorico e che in Italia è recepita da economisti come Federico Caffè, o dal Piano del Lavoro della CGIL degli anni cinquanta. O al keynesismo di Augusto Graziani, diretto a criticare la generica ed indifferenziata espansione della domanda in favore del riconoscimento della profondità del fallimento del mercato, da integrare con indirizzo e valutazione di ogni investimento nella sua efficacia a produrre attività di cui sia dimostrata l’utilità sociale. E ovviamente alla fornitura “in natura” da parte dello Stato di beni e servizi essenziali.


Si tratterebbe, in un’agenda contemporanea di fornire una spinta pubblica a privilegiare la domanda interna sulla cattura di quella estera via esportazioni, di intervenire insieme su domanda ed offerta, di premiare i consumi collettivi su quelli individuali, e certo di comprendere quale spesa e quali investimenti non contribuiscono davvero al benessere, ma anche recuperare la sovranità in riferimento al finanziamento monetario (sottraendola alla “sovranità del risparmiatore”, di Carli) e molto altro.

Il primo articolo di Minsky è del 1965, “Il ruolo delle politiche per l’occupazione”, e attacca direttamente la logica “conservatrice” della “guerra alla povertà” di Johnson che sembra diretta a far funzionare il capitalismo come ècostringendo quindi le persone a cambiare (sembra di risentire la dichiarazione di Taddei). C’è invece un solo modo duraturo di sostenere i redditi e combattere la povertà: modificare la distribuzione della ricchezza, ottenendo che ci siano più posti di lavoro rispetto ai lavoratori disponibili. Cioè garantendo e sostenendo nel tempo quel che chiama “stretto pieno impiego” (p.71).
Questa strategia, rivolta a creare le condizioni strutturali per ripartire più reddito ai salari (per accaparrarsi i lavoratori da parte dei datori di lavoro messi in concorrenza tra di loro e con lo stato) è l’esatto contrario geometrico della soluzione che il capitalismo liberale inventerà: mettere in concorrenza i lavoratori eccedenti (assicurandosene l’abbondanza) perché accettino le condizioni di lavoro offerte, garantendo i profitti ai datori di lavoro. Tecnicamente si tratta di avere una disoccupazione pari o inferiore al 2,5%.
Tra i due schemi passa una cruciale differenza: i redditi socialmente disponibili, dopo la riproduzione di materie prime e capitale fisso utilizzato, nello schema liberale sono strutturalmente concentrati in alto e di qui ridiscendono (“gocciolano”) in piccola parte, mentre in ancora più piccola sono distribuiti attraverso mirate politiche assistenziali (che sono sempre anche politiche di controllo) per garantire la stabilità politica, la gran parte si concentrerà quindi nelle dinamiche speculative promosse dalla finanza e andrà ad alimentare progetti inutili o dannosi. Nello schema preferito da Minsky i redditi sono distribuiti all’origine, attraverso rapporti di forza che prediligono il lavoro sul capitale, ai diretti partecipanti il processo produttivo e da questi si diffondono nella società attraverso i processi economici distribuiti nella stessa (un impiegato ben pagato contrarrà più facilmente mutui, farà costruire la sua casa e l’arrederà, acquisterà servizi personali, mezzi di locomozione, servizi di istruzione superiore, etc. in poche parole sosterrà con la sua capacità di spesa un intero mondo intermedio di servizi alle persone; detto con uno slogan, ‘Il lavoro buono produce lavoro’).

Invece di fondare l’azione su un welfare fondato sui trasferimenti, l’assistenza e la generica pulsione della domanda interna (welfare fallace che comunque oggi si cerca di smantellare), Minsky propone di cambiare le regole sociali e partire proprio dalla semplice e diretta creazione di lavoro.
Per il teorico delle crisi finanziarie, reso famoso dalla sua modellazione del “momento Minsky”, invece di immaginare che la crescita economica dipenda dagli investimenti, qualsiasi siano, bisogna comprendere che può avvenire il contrario. “Investimento significa che le risorse correnti sono utilizzate con l’aspettativa di produrre un reddito nel futuro. [ma] un effetto collaterale di questa enfasi sull’investimento è lo sviluppo di una struttura delle passività che contiene un ampio ammontare di debito. L’accelerazione dell’instabilità finanziaria  è [quindi] il risultato di questa esaltazione della crescita attraverso l’investimento” (p.216), intervento del 1975. In altre e più semplici parole, “l’investimento è [sempre] speculativo” (p.203).

Ci troviamo alla fine in questo modo ad avere un sistema che: non è stabile, non è efficiente, non è equo.

Ma se non è stabile, ciò comporta la necessità stessa di una politica economica attivista. Una politica che affronti le ragioni della instabilità (natura degli investimenti e loro volume) e che riduca il “surplus cronico di lavoro” di cui soffre l’economia. Siamo nel 1975, e Minsky scrive: “abbiamo spinto troppo oltre la sostituzione della tecnologia a danno del lavoro, e le proposte che attualmente provengono dall’Amministrazione e da Wall Street portano in realtà ad aggravare questa tendenza” (p.229).

Cosa bisogna fare? Ritornare alle politiche attive del lavoro del New Deal (il WPA, che garantisca un reddito di base a chiunque adempie alla sua responsabilità di lavoro attraverso l’Agenzia; o i CCC per avviare campi di lavoro sociali, limitati nel tempo, in cambio di un salario differito e alloggio con vitto; NYA che offre lavoro tramite le scuole e le università) e promuovere l’efficienza territoriale (trasporti pubblici e compattazione delle città), come sperimentazioni alternative alle imprese gigantesche e capital- intensive. L’autore parla del movimento cooperativo, della promozione di produzioni localizzate e labour-intensive di tipo artigianale o agricolo, di organizzazioni di quartiere per la piccola manutenzione, di negozi cooperativi urbani (p. 231).


La tassa negativa sul reddito (o il reddito di cittadinanza), proposto in quegli anni da Milton Friedman, è criticata da Minsky nel suo intervento del 1969 “La macroeconomia di una tassa negativa sul reddito”. Secondo la sua critica quest’offerta di reddito assistenziale senza lavoro è espansiva o inflazionistica a meno di sacrificare con opportune manovre monetarie il tasso di crescita (riducendo l’offerta di moneta per compensare quella immessa). Il punto è dunque di prendere in considerazione tutti gli effetti di una politica quando si avanza (p.158). In una economia di pieno impiego questa misura è inflazionistica e rappresenta uno strumento complesso dai molteplici effetti di diverso segno.

Nell’intervento del 1972 “Dove hanno sbagliato l’economia americana e gli economisti”, torna sull’argomento, dopo una interessante confutazione della “sintesi neoclassica” e del concetto di equilibrio walrasiano (p. 180), sostenendo che la tassa negativa è sostanzialmente l’ammissione del fallimento da parte del capitalismo di far funzionare il sistema. Lo schema assistenziale, però, fallisce di nuovo perché “l’uomo vuole lavorare” (ed essere indipendente).
La “sintesi neoclassica” invece fallisce perché cerca di mettere insieme due componenti reciprocamente instabili, il concetto di equilibrio walrasiano, ottenuto dal sistema di preferenza degli individui e dalla funzione di produzione delle imprese che spontaneamente trovano sempre il loro equilibrio. La teoria di Pareto-Walras attraverso scambi volontari e il reciproco adattamento determina equilibrio stabile e tasso di piena occupazione. Un simile modello concettuale, semplice ed elegante (e per questo irresistibile) si lascia definire in termini di una matematica rigorosa (anche se davvero elementare, in questo ad esempio le critiche di Francesco Silos Labini, ma anche ben più autorevolmente dal contemporaneo Poincarè) al prezzo di allontanarsi dal mondo reale. Da questa concettualizzazione derivò il rilancio, sotto forma di modello matematico con forte ipotesi di partenza della proposta di Smith (poco evidente, a dire il vero, nella sua opera molto più connessa ad una teoria morale, come tipico della sua epoca): l’efficienza è prodotta dall’avarizia.
Per venire incontro all’obiezione che l’osservazione del mondo urla a questa teoria astratta, la “sintesi” aggiunge alcuni elementi del lavoro di Keynes, un equilibrio non di pieno impiego (come si osserva empiricamente) diventa possibile in quanto non ci sono solo i consumi a fare la domanda aggregata, ma anche gli investimenti. Che sono speculativi e quindi volatili. Ma in linea di principio il sistema convergerà nel tempo verso il pieno impiego, perché la disoccupazione ridurrà prezzi e salari inducendo un incremento del consumo (a parità di reddito nominale quello reale è cresciuto), e questo stimolerà nuovi investimenti. Ecco fatto. Spiegato in che modo, senza allontanarsi da Smith, e senza fare niente in ogni caso si ritorna sempre alla piena occupazione.

Che mondo capriccioso quello in cui viviamo. Tutti questi eleganti sforzi vanificati dalla prosaica realtà.

Minsky vede la cosa in modo radicalmente diverso, l’economia capitalistica non raggiunge mai l’equilibrio e anche quando è vicina al pieno impiego non è stabile. In quelle condizioni tende anzi “ad esplodere” (p.185). Questa fondamentale mancanza è radicata nel sistema finanziario che è essenziale per la definizione di un sistema come capitalistico.

Di qui la necessità di intervenire. Controllando investimenti ed output per garantire la stabilità, di combattere la formazione di bolle e di eccessi speculativi e di porre rimedio al fatto che (1994, in “Pieno impiego e crescita economica come obiettivi di politica economica”) “tutti i beni sono prodotti da una percentuale di lavoro decrescente. [e quindi] c’è maggior bisogno di supportare più lavoratori nella produzione di output socialmente utili, che non sono beni manifatturieri e i cui costi possono non essere recuperati mediante semplici schemi di pagamento mediante tariffa” (p.253).


Il capitalismo prese un’altra strada, a partire dalla svolta del 1971 (la rottura del golden exange standard, che peraltro Minsky auspicava, a causa della sua caratteristica di “tappo” – come oggi l’euro – alla crescita dei redditi disponibili sul mercato interno, cfr., p.87), e poi sull’onda della stagnazione ed inflazione (in parte significativa importata attraverso le materie prime) degli anni settanta, furono promosse politiche deflazionistiche sui salari mentre venivano liberalizzati gli scambi da una parte ed i flussi finanziari dall’altra (due cose strettamente connesse). La contemporanea politica degli alti tassi, condotta dalla FED americana, e le conseguenti obbligate politiche difensive delle banche centrali periferiche, portarono all’esplosione del debito pubblico in quasi tutti paesi OCSE. Contemporaneamente l’accresciuta competizione, per la rapida caduta delle barriere doganali, ha indotto una pressione insostenibile sui lavoratori e sul saggio di profitto. Indirettamente anche sul welfare assistenziale, pure altamente imperfetto, duale e disciplinare, a causa della crisi fiscale nella quale tutti gli stati precipitano a partire da quegli anni.
Abbiamo dunque accumulazione del capitale nella finanza e caduta del profitto industriale, che viene combattuta con più deflazione salariale e meno garanzie (l’occupazione precaria). Il punto di equilibrio è stato ostinatamente ricercato, insomma, dalla stessa fonte dalla quale arrivava il pericolo: la finanza; cui è stato demandato il compito di combattere il tendenziale sottoconsumo (effetto della debolezza delle classi medie e lavoratrici impoverite) e dunque l’ulteriore caduta dei profitti, dal lato delle vendite, con maggiore capacità di indebitarsi. Il crollo dei meccanismi “sani” di sostegno della domanda, e di sua espansione, ha portato in altre parole a dover surrogare con meccanismi da “keynesisimo privatizzato”.

E’ un circolo vizioso (o virtuoso, a seconda di chi lo guardi) che Minsky prefigurava negli anni sessanta ed ha visto negli ottanta e novanta, fino a che è vissuto.

Si tratta di lezioni sulle quali riflettere. 


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