alan-freeman is a cultural economist, formerly a principal economists with the Greater London Authority. He is a visiting Professor at London Metropolitan University, and a Research Fellow of Queensland University of Technology, Australia.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2016/05/la-teoria-marxiana-del-valore-le.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/03/la-caduta-tendenziale-del-saggio-del.html
Alcune affermazioni sulla crisi che trovano riscontro nella realtà ma possono rendere infelici gli economisti borghesi, ma anche molti marxisti
- Niente è più difficile e niente richiede più carattere che essere in aperta opposizione al proprio tempo e dire ad alta voce: NO (Tucholsky)
- Dire come stanno le cose, rimane l'atto più rivoluzionario (Luxemburg)
Inizierò
parafrasando George Bernard Shaw: sono state dette molte cose
apprezzate sull’economia, e molte cose vere. Però ciò che è
apprezzato è sempre falso e ciò che è vero è sempre impopolare.
Detto
in altri termini ogni verità in economia infastidisce qualcuno e
talvolta infastidisce quasi tutti. Eppure, come disse Rosa Luxemburg,
l'azione più rivoluzionaria è dire come stanno le cose. Quindi
l'affronto è inevitabile se si persegue la verità.
Perciò
intendo dire alcune cose impopolari che, credo, si siano dimostrate
vere. Potete decidere se siete d'accordo dopo aver letto i materiali
in cui si presentano l’evidenza e le argomentazioni. Li cito alla
fine. Alcuni non sono ancora stati pubblicati, ma scrivetemi e
invierò un testo preliminare alla pubblicazione.
Potere
scegliere di ignorare queste affermazioni se non concordano col
vostro modo di pensare. Per aiutarvi sono disponibili molte strategie
di diniego: potete liquidarle come assurde o irrilevanti; potete
usare la tecnica adhominem per ridicolizzare gli autori; potete incitare gli altri a schierarsi contro di esse, o semplicemente far finta che non esistano.
Oppure,
come Marx, potete riconoscere che la conoscenza procede attraverso la
contraddizione e il contrasto. Quindi che è preferibile spendere il
tempo per disputare con gli avversari piuttosto che per concordare
con gli amici.
In
breve, il compito del marxismo, nello spirito di Marx, è
di ri-imparare l'arte dell’opposizione.
Con questo spirito, comincio con alcune dichiarazioni aggressive che
spero vi disturbino. Altrimenti, avrò fallito.
Perché
tali parole abbiano un significato dovremmo dire “sotto, o sopra
cosa” si consuma o si produce. Ma questa grandezza sopra o sotto la
quale ci attesteremmo non esiste, perché diversamente sarebbe valida
la legge
di Say:
questa “cosa” può essere concepita solo come uno stato
“naturale” autoreplicantesi dell'economia. Non possiamo usare
tali termini senza presupporre che esista uno stato di equilibrio
dell'economia.
Che
non esiste, né in teoria né nella realtà. La storia del
capitalismo è scandita da periodi alternati di ascesa e caduta che
si verificano ogni 7-10 anni dal 1805. È anche contrassegnata da
boom febbrili, o età dell'oro, lunghi 15-20 anni, come l'espansione
postbellica, che si alternano a ristagni prolungati, come
l'attuale, lunga
depressione,
che risale al 1974 ed è la più duratura nella storia del
capitalismo.
Questi
lunghi alti e bassi possono essere chiamati “cicli” o “onde”
non più del moto di un ubriaco errante che cade e si rialza. Come
Trotsky insisteva, Kondratieff negava, e Schumpeter
ignorava,
ogni lungo boom viene arrestato da un'azione umana consapevole, quale
la riduzione degli investimenti al di sotto del livello necessario
per la stabilità sociale, con si interrompe l’operato “normale”
del mercato.
In
alcuni di questi momenti predominarono l'imperialismo, il fascismo e
la guerra; in altri, la rivoluzione. Il compito che ora ha di fronte
l'umanità è la scelta tra queste uscite alternative dalla crisi
attuale.
La
crisi non può quindi essere analizzata facendo astrazione dalle
classi, dalle nazioni e dalle rispettive azioni. In breve, non serve
l’economia “pura” ma l’economia politica e,
propriamente, l’economia
geopolitica, come
la definisce Radhika Desai.
La “legge di movimento” del capitalismo di Marx non espone le
fluttuazioni alienate e reificate degli indici azionari e dei prezzi,
ma il movimento reale di grandi masse di persone, le cui attività
sono nascoste e feticizzate
dalla relazione fra le merci eccetto,
appunto, nella crisi, quando il la mano invisibile diventa visibile.
La
domanda, apparentemente economica, “qual
è la causa della crisi”,
si riduce quindi sempre alla appropriata domanda politica “che
cosa si può fare per porvi fine?”
E alla domanda altrettanto saliente “quale
classe può farlo, e con quali mezzi?”
Da
qui l'obiezione
principale al concetto di sottoconsumo:
le sole azioni politiche che possono porre il consumo a un livello
socialmente sostenibile sono quelle che lo sottraggono al dominio
dell'organizzazione capitalista degli investimenti e lo pongono
all'interno del dominio delle libere decisioni umane. Ciò a sua
volta richiede la
rettifica del meccanismo di investimento stesso - il perseguimento
del più alto rendimento degli investimenti - che è al centro della
crisi.
Vale a dire, la domanda può essere resa “sufficiente” per la
sostenibilità sociale solo trascendendo l'organizzazione
capitalistica della domanda.
Molti
potrebbero concordare con quest'ultima affermazione. Ma si deve dire
loro in aggiunta: non potete tenere fede a questa affermazione
mentre, allo stesso tempo, parlate come se esistesse un livello di
domanda “sufficiente” a sorreggere il capitalismo. Eppure è
esattamente questo che siete costretti a supporre dicendo che la
causa della recessione, o addirittura di qualsiasi crisi capitalista,
è la “insufficienza” della domanda.
Insufficiente
per cosa? Questo è sempre il quesito. Se confondete la sufficienza
per l'umanità con la sufficienza per il sistema economico
capitalista, non fate fronte alla vera domanda a cui dare risposta.
Per favorire una visione teorica, commettete un errore teorico; per
meglio comunicare con il vostro uditorio, inducete tale uditorio a
credere a cose che sono letali per l’ottenimento degli obiettivi
teorici che con esso condividete.
Questa
affermazione concettuale è confermata da due fatti empirici: il
fallimento dei tentativi dei governi radicali latinoamericani di
ricostruire le loro economie semplicemente elevando il tenore di vita
dei poveri e il successo
del socialismo cinese.
La
mia prossima affermazione impopolare: la
disuguaglianza non è la causa della crisi e quest’ultima non verrà
superata ponendo fine alla prima.
L'ineguaglianza non può essere irragionevole perché non esiste una
ragione da ristabilire. Pertanto, non
si supera la crisi riducendo la disuguaglianza.
Se
ciò vi sembra insensato, rimarco che è socialmente, moralmente e
politicamente essenziale combattere contro la povertà e la
disuguaglianza e lottare per un uso giusto, equo ed ecologicamente
sostenibile di ciò che la società produce. Il punto è che questa
lotta non solleverà l'economia, neppure avendo successo. È
necessario creare la base materiale per il necessario, effettivo
cambiamento: l’organizzazione unita di tutte le classi non
sfruttatrici che consenta loro di compiere il prossimo, veramente
difficile passo: superare il meccanismo degli investimenti,
provocando la resistenza ostinata e cruenta delle classi possidenti.
Un'altra
verità impopolare: se
facciamo finta che si possa raggiungere in un altro modo un buon
risultato economico, diciamo una grande bugia.
Se le persone ci ascolteranno, causeremo loro enormi inutili
sofferenze. Il perseguimento di una buona teoria è quindi un dovere
morale, non un fatto di autocompiacimento. In breve, la
teoria è troppo importante per lasciarla ai teorici.
A
questo proposito, dobbiamo essere precisi. La responsabilità morale
di perpetuare l'illusione di un'insufficienza della domanda non è in
quanto “induce” le persone a combattere per un uso corretto del
prodotto sociale. Il problema è che sottovaluta il livello di
sacrificio necessario per ottenere questo uso corretto. Non
si può assicurare una giusta distribuzione del prodotto se non si
affronta e non si supera la resistenza dei proprietari a quelle che
il Manifesto comunista definisce "incursioni dispotiche nella
proprietà". Si deve calpestare il loro diritto di decidere come
investire il surplus e porre queste decisioni sotto il controllo
pubblico. Non è sufficiente controllare ciò che viene fatto con il
resto del prodotto.
I
popoli del Brasile e dell’Argentina stanno scoprendo questo a loro
spese. Speriamo che quello del Venezuela possa
impartire al mondo una lezione, se sarà abbastanza fortunato da
mettere al potere un governo disposto a compiere il
prossimo passo nello sviluppo della società,
andare oltre la semplice redistribuzione del reddito dei rentier,
politicamente lodevole, socialmente magnifica, ma obiettivo
economicamente inadeguato.
Ecco
quindi la mia prossima affermazione, particolarmente impopolare tra i
marxisti: la
conclusione di Marx, secondo cui la causa ultima della crisi è la
caduta del saggio del profitto, è tanto corretta quanto scomoda.
In effetti è così scomoda, almeno per i marxisti accademici, che i
più farebbero qualsiasi cosa piuttosto che ammetterlo e, in effetti,
pare passino la loro vita a cercare di smentirla.
Ciò
mi porta alla settima affermazione, che ho trovato particolarmente
impopolare tra i marxisti, compresi quelli che riconoscono
l'importanza della teoria di Marx della caduta del saggio del
profitto: non
possiamo dare un senso a questa teoria, per non parlare della teoria
della crisi, astraendo dal suo concetto di finanza.
Nello
specifico, dobbiamo renderci conto che il denaro è capitale. Detto
così può sembrare ovvio, ma non appare in quasi tutti gli scritti
marxisti sul saggio del profitto.
La
crisi consiste proprio nell'accumulazione di capitale monetario al
posto di quello produttivo. Certamente, se si nega che il denaro -
compreso il debito monetario - funzioni come capitale, allora si
resterà sconcertati dall’andamento del saggio del profitto e dal
suo effetto sugli investimenti.
Per
Marx, il denaro ha ciò che egli definisce un “secondo valore
d'uso” come capitale; in questa veste, funziona da un punto di
vista proprio come il capitale produttivo, ma da un altro punto di
vista come il suo opposto. Questa contraddizione è al centro della
crisi.
Pertanto
dobbiamo riconoscere polemicamente che sia il denaro, sia gli
strumenti monetari, entrano nella formazione del saggio del profitto.
Essi includono tutto ciò che Marx chiamava “capitale fittizio” -
obbligazioni, azioni, proprietà immobiliari, tutti i debiti
monetari, squadre di calcio e la maggior parte delle proprietà da
collezione: opere d'arte, francobolli, tappeti, vini pregiati e moda,
per citarne solo alcuni.
Emerge
quindi che il tasso di profitto nei paesi avanzati - in particolare
negli Stati Uniti e nel Regno Unito - è diminuito più o meno
continuamente, in realtà in modo esponenziale, con un R2 [1] di 0,95
o più, dalla metà degli anni 50 (figura 1).
Questo
non è un dogma: è un fatto. Il compito della teoria è spiegarlo.
Il dogma è continuare a venerare teoremi, come quello di Okishio che
intende dimostrare che questo fatto non può esistere, o
l’affermazione di scrittori come Harvey o Heinrich che
Marx abbia sostenuto che non può succedere. Succede, e Marx lo
spiega. Non per mancare loro di rispetto, ma solo per evidenziare che
la loro teoria non spiega la realtà e che la loro interpretazione
non spiega Marx.
Come
tutte le pratiche teoriche, ciò ha una portata morale. Viene detto,
giustamente, che nessuna forza è più potente di un'idea di cui è
giunto il momento. Potremmo aggiungere che non c’è forza più
pericolosa di un'idea il cui momento è trapassato.
La
causa del ciclo breve è in effetti semplice. Questa affermazione è
impopolare anche per molti marxisti che amano complicare le cose, in
quanto ostacola la possibilità che essi possono dedicare la loro
carriera allo studio delle complicazioni, a scapito dell’insita
semplicità che genera queste complicazioni.
Per
giungere al fondo della questione, dobbiamo riconoscere un altro
fatto ugualmente impopolare per i marxisti accademici, ma centrale
nell'interpretazione di Marx, offerto dalla scuola a cui sono
orgoglioso di appartenere, denominata “Temporal
Single System Interpretation”
o TSSI. Cioè che il
tasso di profitto non è uniforme.
Il rendimento del capitale, come Marx non smette mai di sottolineare,
è in base a una distribuzione dei tassi intorno a quello medio -
alcuni più alti, altri più bassi. Il vero motore del capitalismo è
la ricerca di un surplus di profitto, un profitto superiore alla
media. Trascurando questo fatto non si descrive più nulla di ciò
che esiste realmente o potenzialmente.
C'è
pure una distribuzione dei tassi di rendimento nei mercati finanziari
e monetari. La questione è ora estremamente chiara: più il saggio
medio del profitto è basso, più i capitali cercheranno un
rendimento più elevato accumulando beni inattivi anziché spostarsi
nella produzione. Il capitale quindi si accumula come denaro; La
"finanziarizzazione"
è un prodotto della caduta del saggio del profitto, non una
spiegazione alternativa della crisi.
In
base a una qualsiasi teoria dell’equilibrio o alla legge e di Say
nemmeno questo è possibile, perché in tali sistemi teorici il
denaro non esiste: è un “velo”. In realtà, il capitale si
accumula in due forme: la forma produttiva e quella monetaria. Tutti
quegli strumenti monetari che cercano un rendimento del capitale –
cioè quelli scambiati sui mercati monetari – comprimono il saggio
generale aumentando il denominatore, senza aggiungere nulla al
numeratore [2].
Gli
strumenti monetari si accumulano a tal punto che in Gran Bretagna,
dal 1987, il capitale ha acquisito più attività finanziarie che
risorse produttive. Allo stesso tempo e di conseguenza, come tendenza
secolare i volumi improduttivi aumentano: una evidente manifestazione
della prolungata stagnazione (figura 2).
Non
si tratta di una sovraaccumulazione, né di una sovrapproduzione. Il
capitale si è effettivamente accumulato; soltanto non si è
accumulato nella produzione. Questa è l'essenza dell'attuale,
prolungata crisi.
Un
altro argomento più difficile che impopolare. Il flusso di entrate
cui queste attività danno diritto include il semplice aumento del
loro prezzo, causato dalla bramosia di acquisirle. Possiamo vederla
in funzione nel mercato dei bitcoin. Ho scritto in merito un saggio
matematico piuttosto lungo ma completo e sto realizzando un
videogioco. Il lettore erudito può consultare la matematica e quello
pragmatico può giocare. L’ideale sarebbe che almeno alcune persone
facessero entrambe le cose. A quei pochi disposti a provarci, faccio
un appello: contattatemi e lavoriamoci insieme.
Si
giunge così alla classica super-inflazione delle attività
finanziarie che precede ogni crollo. Il rendimento aggiuntivo,
divenuto indipendente e non avvalorato dai fondamenti reali, gonfia
il prezzo delle attività finanziarie ben al di sopra del livello
corrispondente al flusso di entrate a cui danno legalmente diritto o,
concretamente, all’insieme di entrate che possono procurare. Ciò è
occultato dal fatto che il valore è mascherato dalla sua espressione
monetaria, il che spiega l'apparente ‘irrazionalità’ dei mercati
finanziari.
La
cosa si risolve tipicamente in un crollo finanziario. Esso non è il
prodotto dell'accumulazione finanziaria ma dell'assenza di sbocchi
per gli investimenti produttivi.
Non può quindi essere sanato da una cosiddetta “distruzione dei
valori” che riguardi solo le attività finanziarie e non le merci
sottostanti e, soprattutto, non riguardi il capitale produttivo.
Il
crollo finanziario non risolve il problema; che dire delle
contromisure, lo
stimolo e così via?
Certamente, queste rendono le cose ‘meno cattive’ e quindi
dovrebbero essere supportate, ma non curano la malattia. La crisi non
liquida il capitale reale - quello legato agli acquisti passati di
mezzi di produzione, e la cui accumulazione è responsabile della
riduzione del saggio generale del profitto.
Solo
una cosa può impedire la crisi, cioè farsi carico della funzione di
investimento, rimuoverla dalla sfera delle decisioni private su
questo "secondo uso" del capitale: vale a dire calpestare
uno dei più fondamentali diritti della proprietà capitalistica.
Possiamo
ora concludere su un punto che illustra il vero dilemma pratico
dell'umanità. Non si verifica ovviamente il caso che il saggio del
profitto cada indefinitamente e necessariamente. Questo errore
positivista è infantile, come probabilmente avrebbe detto Marx,
quanto l'affermazione che non può assolutamente cadere.
Sappiamo
che il saggio del profitto diminuisce, perché possiamo osservarlo.
Ma sappiamo anche che può essere ripristinato, perché in
determinate situazioni storiche, così è avvenuto: in particolare
nel 1893 con l'inizio dell'imperialismo, e nel 1942 sotto l'impatto
del fascismo e della guerra.
Il
problema è quindi in quali circostanze viene ripristinato. In merito
ci sono tre grandi punti di vista. Quello di Schumpeter è
che non è necessaria alcuna azione e l'economia si ristabilirà da
sola. Basti replicare che abbiamo atteso dal 1974 e, con buona pace
di Duménil, della teoria Social Structures of Accumulation (SSA) e
della World Systems [3] non si è mostrato il minimo segno di
ripristino. Il secondo è quello dei Keynesiani,
anche se non di Keynes, secondo cui è sufficiente uno stimolo della
domanda; la lunga depressione tuttavia è iniziata proprio al culmine
delle politiche di gestione della domanda. Quindi abbiamo la
conclusione di Marx,
Trotsky e incidentalmente di Keynes stesso che il problema può
essere superato solo attraverso la “socializzazione
degli investimenti e l'eutanasia del rentier”.
La
domanda quindi è: Come può essere assicurato ciò. La storia
suggerisce che occorrono grandi eventi rivoluzionari o
controrivoluzionari - una conclusione schivata da Keynes, ma mostrata
da Marx. La scelta è quindi, come ci ricorda la Luxemburg, se questi
“grandi eventi” conducono nella direzione del socialismo o nella
barbarie.
Note:
[1]
Si tratta di un indicatore statistico che misura il grado di aderenza
di una curva a dei dati reali. Nel nostro caso significa che il 95
per cento o più dell’andamento reale del saggio del profitto è
“spiegato” da una funzione esponenziale [n.d.t.].
[2]
Si ricorda che la formula del saggio medio del profitto è PV/(C+V)
cioè plusvalore prodotto dalla società diviso il capitale
complessivo impiegato (capitale costante+capitale variabile)
[n.d.t.].
[3]
Sia Gérard Duménil che la SSA hanno sostenuto che nel 1980 vi è
stata una ripresa del capitalismo realizzata attraverso le politiche
neoliberiste. Successivamente hanno dovuto parlare di una nuova
"crisi del neoliberismo" per spiegare il crollo finanziario
del 2008 [n.d.t.].
Riferimenti:
A.
Freeman, The Whole of the Storm: Money, debt and crisis in the
current long depression, Marxism 21, Volume 13 N. 2, pp190-224,
Luglio 2016.
A.
Freeman, Introduction to Chris Freeman’s “Schumpeter’s
‘business cycles’ revisited”, European Journal of the Social
Sciences, vol 27 N. 1-2. luglio
2015.https://ideas.repec.org/a/ris/ejessy/0003.html
A.
Freeman, Axiomatic foundations of the value theory of finance.
Manoscritto inedito, 2017.
A.
Kliman, A. Freeman, A. Gusev e N. Potts. The Unmaking of Marx’s
Capital: Heinrich’s Attempt to Eliminate Marx’s Crisis
Theory,https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2294134,
2014.
A.
Kliman, The Failure of Capitalist Production: Underlying Causes of
the Great Recession: Amazon.de: Andrew Kliman. Lexington., 2018.
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