Maria Turchetto definisce così l’ideologia del lavoro:
"Quel modo di
pensare, largamente introiettato nella nostra società, che fa dell'attività
lavorativa continuativa e retribuita il titolo normale e pressoché esclusivo di
partecipazione alla vita associata. […] L'idea che sia il lavoro a conferire
pieno diritto di cittadinanza è in effetti ampiamente trasversale,
interclassista, condivisa da etiche laiche e religiose. É più di un ideologia:
è senso comune, rappresenta cioè una norma di comportamento e di giudizio
completamente assimilata e che dunque funziona, proceduralmente, senza passare
attraverso un attento esame critico, come dispositivo disciplinare." (Il lavoro senza fine. Riflessioni su
“biopotere”e ideologia del lavoro tra XVII e XX secolo)
In assoluto gli autonomi non erano i primi a discutere
tematiche antilavoriste. Possiamo ricordare che già nel 1887, Paul Lafargue
aveva pubblicato il suo Diritto alla pigrizia, recentemente ripubblicato. Ma
queste tematiche non si erano, prima di allora, mai tramutate in programma
politico, in azione collettiva che uscisse al di fuori dal comportamento
individuale avverso alla pratica lavorativa.
In Italia, è soprattutto il mondo dell’operaismo che
comincia ad accorgersi di alcuni cambiamenti che si stavano verificando nelle
grandi concentrazioni industriali. L’attenzione degli operaisti è attratta
dalle pratiche di insubordinazione e sabotaggio che si erano diffuse e
radicalizzate nelle fabbriche fino ad esplodere con l'autunno caldo del 1969.
E’ allora che queste pratiche spontanee e diffuse vengono concepite come
molteplici forme dello stesso rifiuto. E saranno la base su cui si formeranno i
primi nuclei dell’autonomia. L’autonomia come progetto politico nasce in
maniera simbiotica con il rifiuto del lavoro. L’evoluzione del rifiuto del
lavoro come impianto teorico e come applicazione pratica va ricercata nella
vita quotidiana dei militanti e non solo, negli espropri, nelle spese
proletarie, nelle autoriduzioni delle bollette, degli affitti, nell’occupazione
di stabili per motivi abitativi o culturali e/o politici, nel modo di lavorare
di chi aveva un lavoro fisso e nelle modalità di vita di chi non lo aveva.
Risulta chiaro quanto grande sia stata allora la novità, quanto grande
l’impatto di una posizione come quella del rifiuto del lavoro praticata e
propagandata dagli autonomi. La storia del rifiuto del lavoro è la storia della
fabbrica, concentrato di esperienze storiche, di necessità quotidiane, di
insoddisfazione nei riguardi dei sindacati e delle pratiche sindacali, di
impegno politico ed ancora di metodi di lotta radicali: come il gatto
selvaggio, il salto della scocca, i sabotaggi sulla catena di montaggio, lo
sciopero a scacchiera o a singhiozzo, il rifiuto del cottimo. L’operaismo degli
anni ’60 in Italia, al di là della costellazione dei percorsi politici che lo
hanno animato, era declinato sulla centralità politica operaia, per cui la
classe operaia era il soggetto politico e l’attore principale del cambiamento
della società e della rivoluzione. Tuttavia l’operaismo rompe con la tradizione
comunista dell’etica del lavoro e introduce l’idea-forza dell’odio degli operai
per la propria condizione.
"Nessuna
affermazione comunista, più di quella del rifiuto del lavoro, è stata
violentemente e continuamente espulsa, soppressa, mistificata, dalla tradizione
e dall'ideologia socialiste. Se vuoi mandare in bestia un socialista o se vuoi
scoprirlo quando si copre di demagogia, provocalo sul rifiuto del lavoro.
Nessun punto del programma comunista, lungo un secolo, da quando Marx parlava
del lavoro come “essenza disumana” è stato tanto combattuto: fino a quando la
scomunica del rifiuto del lavoro è divenuta taciuta, surrettizia, implicita, ma
non meno potente: l'argomento è stato tolto. Ora, è su questo terreno indiretto
che l'astuzia della ragione proletaria ha cominciato a restaurare la centralità
del rifiuto del lavoro nel programma comunista. […] Nostro compito è la
restaurazione teorica del rifiuto del lavoro nel programma, nella tattica, nella
strategia dei comunisti." (Antonio Negri, Il dominio e il sabotaggio)
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