lunedì 7 settembre 2015

Nichilismo e insorgenza nell’analisi hegeliana del divenire - Rosario Gianino


 Nel divenire abbiamo il nulla. Questa è la prima negazione. Ma abbiamo anche l’annullamento del nulla. Questa è la seconda negazione.

 il qualcosa che diviene, insorgendo e sparendo, non si annichila ma si altera. Provenienza e destinazione del divenire non sono più il nulla del moto insorgente e dissolvente, ma il qualcosa ed il qualcos’altro della mutazione.

 per Hegel la stessa impossibilità contraddittoria di una relazione tra essere e niente, se pensata in rapporto a se stessa, cancella l’astratta fissazione dell’essere e del nulla come opposti e diversi. Quindi la contraddizione tra essere e nulla, nel suo risultato nullificante, come appare solo ad un divenire capace di autorelazione, in Hegel, non ostacola e rende impossibile il divenire, quanto piuttosto consente che accada qualcosa come un “transito/passaggio/oltrepassamento” (Übergang), un “movimento”(Bewegung).

 Proprio agendo negativamente non solo sull’essere ma anche e soprattutto sul nulla dell’essere, il soggetto si edificherebbe come centro di riferimento di ulteriori relazioni e dinamiche possibili.

 Ogni ordinamento formale logico astratto, sia esso finito, empirico o speculativamente assoluto, avrebbe a che fare con l’esercizio di un agire  negativo autoreferenziale, di un agire negante che nega l’immediata nullità del proprio essere. Dunque questo lavoro di soggettivizzazione si caratterizzerebbe nel suo fondamento come capacità riflessiva di rapportarsi negativamente alla negazione immediata che si è, in modo che grazie a questo agire riflessivo ci si possa insediare in quel punto d’indifferenza in cui il nulla si rovescia in positiva affermazione di qualcos’altro.

 Essere soggetti è poter astrarre, ossia agire il negativo, rapportarsi alla propria cancellazione, negandola. Esser soggetto di sé stessi: negare il proprio nulla. 

 L’immediato è ciò che ancora non funge da medio, che quindi non media, ed in cui non si media, che non elabora e non lavora, ed in cui non si elabora e non si lavora, che non documenta in alcun modo una capacità ed un potere soggettivanti. L’Immediato, lasciato in tale abbandono o anche pensato e oltrepassato in tale bando, è la pura indifferenza dell’essere dal nulla, il radicale annichilimento dell’essere nel nulla, l’equivalenza dell’insorgere e dello sparire nell’essere senza provenienza e senza destino.

 L’astratto è appunto il risultato di un processo e di una dinamica autoaffermativa e autorelazionale, di un lavoro, che presuppone il nulla radicale del proprio essere come qualcosa da negare proprio riconoscendovisi.

 apertura di un processo di avanzamento, e progresso. Il poter lasciare il nulla al suo nulla per qualcos’altro.

 Il transito è tale in quanto in esso accade qualcosa che erompe (bricht hervor) l’immediato ovvero l’immediato è tale in quanto sbarramento sempre rotto, spezzato, frantumato, spaccato, per una “fuoriuscita”.

 Nella via del nulla, senza provenienza e senza destinazione, sono disposti quel qualcosa che c’era, quel qualcosa da cui si proviene insieme a quell’altro qualcosa che è appena arrivato ed a cui si è destinati come al risultato del processo.

 Hegel ha sempre e ripetutamente considerato la negazione determinata superiore alla negazione immediata. Hegel dice che fuori dal divenire del qualcosa in qualcos’altro, essere e nulla sono significati astratti .

 Proprio per la sua capacità di contenere nell’astrazione l’immediatezza ricontestualizzandola e rielaborandola nel suo senso d’essere relativo all’essente, il divenire eracliteo è considerato da Hegel un concetto superiore rispetto all’astrazione indeterminata dell’essere parmenideo e del nulla orientale. E tuttavia quella stessa capacità superiore di mediazione concettuale che la categoria del divenire secondo Hegel esibisce non sarebbe possibile se non fosse stata fissata astrattamente quella nullificazione del senso dell’essere differente dal niente che costituisce la determinazione dell’immediatezza. Il divenire stesso nel seguito delle deduzioni categoriali viene come messo al lavoro nel processo che assoggetta l’immediatezza al dominio evolutivo o progressivo dell’essente. Ecco così che nel divenire viene pensata la produzione stessa dell’altro, la generazione, la nascita. 
Questa concettualizzazione del divenire come produzione-generazione prelude alla possibile istituzione di un rapporto di fondazione, di causazione, comunque di ragione.

 Ma questo divenire come progresso ed avanzamento, processo e discorso, è reso possibile solo perché presuppone un divenire che è passaggio immemorabile, sparizione e distruzione, dissoluzione della differenza, indifferenziazione contraddittoria tra essere e non essere. Il mutamento, (Veränderung ) presuppone il moto (Bewegung). Il divenire stesso è presupposto come evento appropriabile, nell’agire unilaterale del nulla, che negandolo lascia spazio a qualcos’altro. Lo stesso qualcosa apre all’altro, solo sparendo nel nulla, passando via e lasciandosi passare oltre, lasciando aperto un transito.

 Questo annientamento autocontraddittorio di essere e nulla nel divenire è indicato da Hegel come “la prima verità fondamentale” . Solo in rapporto all’autonegazione contraddittoria nel divenire dell’essere e del nulla si guadagna “l’Elemento in cui sono pensabili tutte le conseguenti determinazioni della logica”. Questo autoannullarsi della contraddizione è la verità immediata che si trova sempre innanzi a noi, e che ha persino una dimensione di manifestazione ed evidenza empiriche, quella del <<passare>> empirico che s’intende di per sé. Nel “movimento” si vede, appare, si rivela come la contraddizione si risolva. Il risolversi della contraddizione è lo stesso venire a manifestazione del qualcos’altro.

 La categoria del divenire è la prima delle forme categoriali e intellettuali in cui questo annientamento viene pensato, e nell’essere pensato viene catturato e afferrato come risorsa per il cambiamento possibile. Quindi il divenire non è il terzo tra essere e nulla, la medesimezza di essere e nulla, come se fosse la loro sintesi coordinante. E il terzo come la loro contraddizione distruttiva.

 Nell’annullarsi del nulla, l’essere si apre all’avvento dell’essente, alla sua irruzione  e insorgenza “nuova”, alla sua rivelazione piena, alla sua manifestazione compiuta.

 Il lavoro umano, il dominio e il potere di qualsiasi soggetto che ci sia come Esserci, Dasein (questo è termine hegeliano prima di essere heideggeriano), che faccia i conti col proprio mutamento possibile, con la mutabilità del proprio esistere, sta in rapporto memoriale e immemoriale, e quindi storico, ontologico ed esistenziale, con la struttura duplice del proprio divenire, così come la definisce Hegel. Ossia con il duplice volto del divenire come annientamento del senso dell’essere, fluidificazione impotente a cancellare quell’essente qui e ora che ricorda ma anche incapace nella trasformazione del ricordo a restituire al senso dell’essere immediato ciò che degli essenti è morto e finito, definitivamente sparito.

L’analisi hegeliana sonda la difficile e avvitata determinazione di tale rapporto memoriale e immemoriale col divenire, pensando insieme con l’annientamento dell’essere la sua insorgenza. Così nella macchina metafisica di Hegel l’annichilimento radicale del senso dell’essere, la cesura iniziale dal suo evento, l’irrevocabilità della cancellazione dell’essere, rimane complementare, logicamente vincolata e presupponente, rispetto ad una altrettanto radicale e decisa insorgenza storico-esistenziale. Il “nuovo” è tale proprio perché non potendo riscattare dalla radicale latenza ciò che è sparito, e dovendo confermare quel destino di fine e di morte che spetta ad ogni immediatezza, si appropria di una provenienza e di una destinazione storiche. (R. Gianino)

<<Una persona mancante di carattere non esiste propriamente; ma noi possiamo dire di una persona che non ha carattere, e si tratta di un giudizio che generalmente si riferisce a persone, le quali in un altro senso - ovvero empiricamente - tuttavia esistono, son presenti, stanno lì, possono essere indicate a dito; ovvero, persone di cui potremmo scattare una foto, che potremmo sentir parlare, ecc. Persone, insomma, di cui potremmo avere, come si dice, esperienza.
Linguaggio e senso comune sembrano, dunque, distinguere due sensi del termine esistere: l’uno, che potremmo definire debole, l’altro forte.
In senso debole, essere, esistere stanno ad indicare una mera presenza, la cui fondamentale caratteristica è l’indeterminatezza, l’opacità, la vischiosità.
In senso forte, al contrario, essere, esistere implicano più che la semplice presenza, perché comportano la capacità, da parte di ciò che esiste, di orientarsi, di organizzarsi, di perseverare nella prospettiva di un risultato da raggiungere.
L’essere in senso forte, dunque, non è gratuito, ovvero, la sua presenza ha un senso, una prospettiva, rispetto alle quali si organizza, si muove, s’impegna, ordina se stesso, dunque, dà a se stesso una razionalità.
In una parola possiamo dire che ciò che esiste in senso forte, ciò che non è semplice presenza, ma è effettivamente reale, quello, nello stesso tempo e proprio perciò, è razionale.
In fin dei conti, usando questa formula (ciò che è reale è razionale) non diciamo altro, se non che ciò che è reale è, appunto, reale e che razionale è quell’esistente, che non si esaurisce nel semplice ‘star là’, nel mero ‘esserci’, perché invece è qualcosa di strutturato o, meglio, qualcosa che va strutturandosi diacronicamente, per porsi in condizione di giungere al risultato, a cui tende a pervenire.
Come si vede, la duplice formula hegeliana (ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale) dice qualcosa, che è ricavabile dallo stesso linguaggio comune; qualcosa che, in nessun caso, implicita il sacrificio del mondo effettuale in nome di una ragione onnivora.
Al contrario, quella duplice formula se da un lato recupera e chiarisce (rispetto al pensiero comune) la distinzione tra esistenza in senso debole ed esistenza in senso forte, dall’altro mostra, fuori di ogni possibile dubbio, che lo spazio della razionalità coincide con quello di ciò che realmente è, di ciò che esiste in senso forte, insomma della realtà stessa. Il senso della duplice formula hegeliana, dunque, non ha nulla della trascendenza idealistica, perché piuttosto è la ferma, orgogliosa affermazione che non esiste spazio della razionalità che non sia quello della realtà, e che non ha senso una razionalità che non coincida con la realtà, appunto>>. (S. Garroni) 

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