Nel divenire abbiamo il nulla. Questa è la prima negazione.
Ma abbiamo anche l’annullamento del nulla. Questa è la seconda negazione.
il qualcosa che diviene, insorgendo e sparendo, non si
annichila ma si altera. Provenienza e destinazione del divenire non sono più il
nulla del moto insorgente e dissolvente, ma il qualcosa ed il qualcos’altro
della mutazione.
per Hegel la stessa
impossibilità contraddittoria di una relazione tra essere e niente, se pensata
in rapporto a se stessa, cancella l’astratta fissazione dell’essere e del nulla
come opposti e diversi. Quindi la contraddizione tra essere e nulla, nel suo
risultato nullificante, come appare solo ad un divenire capace di
autorelazione, in Hegel, non ostacola e rende impossibile il divenire, quanto
piuttosto consente che accada qualcosa come un
“transito/passaggio/oltrepassamento” (Übergang), un “movimento”(Bewegung).
Proprio agendo negativamente non solo sull’essere ma anche e
soprattutto sul nulla dell’essere, il soggetto si edificherebbe come centro di
riferimento di ulteriori relazioni e dinamiche possibili.
Ogni ordinamento formale logico astratto, sia esso finito,
empirico o speculativamente assoluto, avrebbe a che fare con l’esercizio di un
agire negativo autoreferenziale, di un
agire negante che nega l’immediata nullità del proprio essere. Dunque questo
lavoro di soggettivizzazione si caratterizzerebbe nel suo fondamento come
capacità riflessiva di rapportarsi negativamente alla negazione immediata che
si è, in modo che grazie a questo agire riflessivo ci si possa insediare in
quel punto d’indifferenza in cui il nulla si rovescia in positiva affermazione
di qualcos’altro.
Essere soggetti è poter astrarre, ossia agire il negativo,
rapportarsi alla propria cancellazione, negandola. Esser soggetto di sé stessi:
negare il proprio nulla.
L’immediato è ciò che ancora non funge da medio, che quindi
non media, ed in cui non si media, che non elabora e non lavora, ed in cui non
si elabora e non si lavora, che non documenta in alcun modo una capacità ed un
potere soggettivanti. L’Immediato, lasciato in tale abbandono o anche pensato e
oltrepassato in tale bando, è la pura indifferenza dell’essere dal nulla, il
radicale annichilimento dell’essere nel nulla, l’equivalenza dell’insorgere e
dello sparire nell’essere senza provenienza e senza destino.
L’astratto è appunto il risultato di un processo e di una
dinamica autoaffermativa e autorelazionale, di un lavoro, che presuppone il
nulla radicale del proprio essere come qualcosa da negare proprio
riconoscendovisi.
apertura di un processo di avanzamento, e progresso. Il
poter lasciare il nulla al suo nulla per qualcos’altro.
Il transito è tale in quanto in esso accade qualcosa che
erompe (bricht hervor) l’immediato ovvero l’immediato è tale in quanto
sbarramento sempre rotto, spezzato, frantumato, spaccato, per una “fuoriuscita”.
Nella via del nulla, senza provenienza e senza destinazione,
sono disposti quel qualcosa che c’era, quel qualcosa da cui si proviene insieme
a quell’altro qualcosa che è appena arrivato ed a cui si è destinati come al
risultato del processo.
Hegel ha sempre e
ripetutamente considerato la negazione determinata superiore alla negazione immediata.
Hegel dice che fuori dal divenire del qualcosa in qualcos’altro, essere e nulla
sono significati astratti .
Proprio per la sua
capacità di contenere nell’astrazione l’immediatezza ricontestualizzandola e
rielaborandola nel suo senso d’essere relativo all’essente, il divenire
eracliteo è considerato da Hegel un concetto superiore rispetto all’astrazione
indeterminata dell’essere parmenideo e del nulla orientale. E tuttavia quella
stessa capacità superiore di mediazione concettuale che la categoria del
divenire secondo Hegel esibisce non sarebbe possibile se non fosse stata
fissata astrattamente quella nullificazione del senso dell’essere differente
dal niente che costituisce la determinazione dell’immediatezza. Il divenire
stesso nel seguito delle deduzioni categoriali viene come messo al lavoro nel
processo che assoggetta l’immediatezza al dominio evolutivo o progressivo
dell’essente. Ecco così che nel divenire viene pensata la produzione stessa dell’altro,
la generazione, la nascita.
Questa concettualizzazione del divenire come
produzione-generazione prelude alla possibile istituzione di un rapporto di
fondazione, di causazione, comunque di ragione.
Ma questo divenire come progresso ed avanzamento, processo e
discorso, è reso possibile solo perché presuppone un divenire che è passaggio
immemorabile, sparizione e distruzione, dissoluzione della differenza,
indifferenziazione contraddittoria tra essere e non essere. Il mutamento,
(Veränderung ) presuppone il moto (Bewegung). Il divenire stesso è presupposto
come evento appropriabile, nell’agire unilaterale del nulla, che negandolo
lascia spazio a qualcos’altro. Lo stesso qualcosa apre all’altro, solo sparendo
nel nulla, passando via e lasciandosi passare oltre, lasciando aperto un
transito.
Questo annientamento autocontraddittorio di essere e nulla
nel divenire è indicato da Hegel come “la prima verità fondamentale” . Solo in
rapporto all’autonegazione contraddittoria nel divenire dell’essere e del nulla
si guadagna “l’Elemento in cui sono pensabili tutte le conseguenti
determinazioni della logica”. Questo autoannullarsi della contraddizione è la
verità immediata che si trova sempre innanzi a noi, e che ha persino una
dimensione di manifestazione ed evidenza empiriche, quella del
<<passare>> empirico che s’intende di per sé. Nel “movimento” si
vede, appare, si rivela come la contraddizione si risolva. Il risolversi della
contraddizione è lo stesso venire a manifestazione del qualcos’altro.
La categoria del divenire è la prima delle forme categoriali
e intellettuali in cui questo annientamento viene pensato, e nell’essere
pensato viene catturato e afferrato come risorsa per il cambiamento possibile.
Quindi il divenire non è il terzo tra essere e nulla, la medesimezza di essere
e nulla, come se fosse la loro sintesi coordinante. E il terzo come la loro
contraddizione distruttiva.
Nell’annullarsi del nulla, l’essere si apre all’avvento
dell’essente, alla sua irruzione e
insorgenza “nuova”, alla sua rivelazione piena, alla sua manifestazione
compiuta.
Il lavoro umano, il dominio e il potere di qualsiasi
soggetto che ci sia come Esserci, Dasein (questo è termine hegeliano prima di
essere heideggeriano), che faccia i conti col proprio mutamento possibile, con
la mutabilità del proprio esistere, sta in rapporto memoriale e immemoriale, e
quindi storico, ontologico ed esistenziale, con la struttura duplice del
proprio divenire, così come la definisce Hegel. Ossia con il duplice volto del
divenire come annientamento del senso dell’essere, fluidificazione impotente a
cancellare quell’essente qui e ora che ricorda ma anche incapace nella
trasformazione del ricordo a restituire al senso dell’essere immediato ciò che
degli essenti è morto e finito, definitivamente sparito.
L’analisi hegeliana sonda la difficile e avvitata
determinazione di tale rapporto memoriale e immemoriale col divenire, pensando
insieme con l’annientamento dell’essere la sua insorgenza. Così nella macchina
metafisica di Hegel l’annichilimento radicale del senso dell’essere, la cesura
iniziale dal suo evento, l’irrevocabilità della cancellazione dell’essere,
rimane complementare, logicamente vincolata e presupponente, rispetto ad una
altrettanto radicale e decisa insorgenza storico-esistenziale. Il “nuovo” è
tale proprio perché non potendo riscattare dalla radicale latenza ciò che è
sparito, e dovendo confermare quel destino di fine e di morte che spetta ad
ogni immediatezza, si appropria di una provenienza e di una destinazione
storiche. (R. Gianino)
<<Una persona
mancante di carattere non esiste propriamente; ma noi possiamo dire di una
persona che non ha carattere, e si tratta di un giudizio che generalmente si
riferisce a persone, le quali in un altro senso - ovvero empiricamente -
tuttavia esistono, son presenti, stanno lì, possono essere indicate a dito;
ovvero, persone di cui potremmo scattare una foto, che potremmo sentir parlare,
ecc. Persone, insomma, di cui potremmo avere, come si dice, esperienza.
Linguaggio e senso
comune sembrano, dunque, distinguere due sensi del termine esistere: l’uno, che
potremmo definire debole, l’altro forte.
In senso debole,
essere, esistere stanno ad indicare una mera presenza, la cui fondamentale
caratteristica è l’indeterminatezza, l’opacità, la vischiosità.
In senso forte, al
contrario, essere, esistere implicano più che la semplice presenza, perché
comportano la capacità, da parte di ciò che esiste, di orientarsi, di
organizzarsi, di perseverare nella prospettiva di un risultato da raggiungere.
L’essere in senso
forte, dunque, non è gratuito, ovvero, la sua presenza ha un senso, una
prospettiva, rispetto alle quali si organizza, si muove, s’impegna, ordina se
stesso, dunque, dà a se stesso una razionalità.
In una parola possiamo
dire che ciò che esiste in senso forte, ciò che non è semplice presenza, ma è
effettivamente reale, quello, nello stesso tempo e proprio perciò, è razionale.
In fin dei conti,
usando questa formula (ciò che è reale è razionale) non diciamo altro, se non
che ciò che è reale è, appunto, reale e che razionale è quell’esistente, che
non si esaurisce nel semplice ‘star là’, nel mero ‘esserci’, perché invece è
qualcosa di strutturato o, meglio, qualcosa che va strutturandosi
diacronicamente, per porsi in condizione di giungere al risultato, a cui tende
a pervenire.
Come si vede, la
duplice formula hegeliana (ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è
reale) dice qualcosa, che è ricavabile dallo stesso linguaggio comune; qualcosa
che, in nessun caso, implicita il sacrificio del mondo effettuale in nome di
una ragione onnivora.
Al contrario, quella
duplice formula se da un lato recupera e chiarisce (rispetto al pensiero
comune) la distinzione tra esistenza in senso debole ed esistenza in senso forte,
dall’altro mostra, fuori di ogni possibile dubbio, che lo spazio della
razionalità coincide con quello di ciò che realmente è, di ciò che esiste in
senso forte, insomma della realtà stessa. Il senso della duplice
formula hegeliana, dunque, non ha nulla della trascendenza idealistica, perché
piuttosto è la ferma, orgogliosa affermazione che non esiste spazio della
razionalità che non sia quello della realtà, e che non ha senso una razionalità
che non coincida con la realtà, appunto>>. (S. Garroni)
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