i marxisti pentiti degli anni Novanta hanno sepolto i propri
“errori” giovanili seguendo pressappoco tre distinte strategie: la capriola,
intesa come sposalizio repentino con i grandi classici del pensiero liberale e
liberista; la provocazione, perseguita mediante la sostituzione dei padri del
marxismo con autori provenienti dall’area indicata da Lukács come
“irrazionalista” (Nietzsche, Heidegger, Schmitt); la scappatoia, cioè l’adozione
di nuovi modelli concettuali che non evidenziassero una rottura radicale tra un
prima e un dopo, per non rivelare chiaramente la propria diversione (ma anche
perché “non si sa mai”, il marxismo avrebbe potuto tornare a essere utile da un
momento all’altro), e concentrandosi su quei “beni rifugio” in cui consistono
ad esempio gli studi fenomenologici, politicamente innocui, e tali da poter
essere serviti con ogni tipo di condimento.
Coloro che
invece hanno tentato di mantenere un contatto con Marx, ma soprattutto con
l’idea del superamento del sistema capitalistico, come prontamente segnala
Finelli nell’introduzione al suo libro, sono stati disorientati dalle
trasformazioni dell’epoca postfordista, e hanno cercato in vario modo di mettere
a punto un diverso marxismo, capace di cogliere le dinamiche e le possibilità
di superamento dell’esistente. Le difficoltà derivate da uno smarrirsi dei
movimenti di fine anni Sessanta in sterili infantilismi, attraversando poi i
tragici momenti del terrorismo, sollecitò la dismissione forse prematura di
quelle che da tempo erano state considerate dogmaticamente le chiavi
concettuali di una lettura storico-sociale d’impianto marxista, come il
feticismo, il rapporto struttura-sovrastruttura o lo stesso materialismo
storico. L’abbandono di quel carico teorico lasciava spazio a un marxismo più
leggero, meno tedesco e più francese, mediato da autori come Althusser, Lacan,
Deleuze e Foucault, «assai meno controllati e rigorosi».
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