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Pubblichiamo questo breve testo inedito di Stefano Garroni, scritto durante la prima guerra del Golfo, dove deve essere contestualizzato.
Ci sembra contenga nelle sue riflessioni indicazioni validissime anche ai nostri giorni e non solo nei riguardi della guerra nella specificità di "quella" guerra, ma in astratto, di tutte le guerre.
E, a maggior ragione, diventa un'indicazione particolarmente cogente nei confronti degli accadimenti odierni riguardo l'utilizzazione dell'informazione "mine stream" per costruire l'opinione pubblica intorno al problema della epidemia/pandemia. (il collettivo)
Spesso
è stato osservato quale ruolo nefando stia giocando l’informazione
rispetto alla guerra del golfo. I critici, non tanto ne sottolineano
l’unilateralità e la non attendibilità, quanto la densità
ideologica: che le notizie dai fronti di battaglia siano sottoposte a
censure preventive ed a deformazioni interessate può addirittura
essere comprensibile e opportuno (ad esempio, rispetto ad esigenze
diplomatiche e militari). Ciò che indigna è, invece, la pertinace,
totalitaria utilizzazione dell’informazione per costruire
l’opinione pubblica (cioè, delle larghe masse) intorno ad alcuni
concetti non semplici ma rozzi, non precisi ma netti, non plausibili
ma indiscussi.
In
realtà, tale indignazione , in un certo senso, è ingiustificata: è
assai probabile (ad esser cauti) che un analogo imbarbarimento
culturale caratterizzi ogni guerra (anche non guerreggiata), in
particolare nell’epoca moderna, se non altro a partire dalla prima
guerra mondiale – intendo da quando il conflitto ha assunto
carattere totale, da quando l’assassinio di massa coinvolge
indifferentemente soldati e civili, e da quando il reale teatro dello
scontro militare non è che l’aspetto più evidente e drammatico di
un coinvolgimento in verità universale (e questo è, appunto, anche
oggi il caso).
Il
denunciato ruolo dell’informazione sembra piuttosto dover orientare
verso altre inferenze e deduzioni. Una in particolare: non è serio
chiedersi – come oggi torna a farsi sentire – se questa o quella
guerra sia o non sia giusta.
Se
giusto/ingiusto
è polarità morale, allora, implica una radicalità, universalità e
libertà, assolutamente non riconoscibili né alla guerra, né a
qualunque rilevante vicenda politica. Infatti, ogni volta che
l’azione politica assume carattere rilevante (quindi, non solo
nelle guerre) il potere statuale getta, a dir così, la maschera,
rivelando appieno la sua funzione manipolatrice, la sua destinazione
di strumento per imporre credenze, la cui forza non dipende dalla
plausibilità razionale, sì piuttosto da valori estrinsechi , come
l’insistenza, la valenza emozionale, la rozza semplicità.
Se
così stanno le cose, ecco che allora una condizione della vita
morale – intendo il mio trovarmi libero di fronte alla
responsabilità della scelta – è oggettivamente tolta: la società
intera è cacciata in una condizione priva di alternative, in cui la
retorica propagandistica si fa del tutto invasiva. Dotata dei potenti
strumenti manipolatori di cui lo Stato e le classi dirigenti
dispongono, la propaganda entra in ogni modo nel profondo, nei
livelli meno controllati della mente individuale e di massa, per
cementare il “fronte interno”, per distruggere il desiderio
stesso di un punto di vista autonomo e razionale.
La
prospettiva morale, inoltre, non tollera certe separazioni (tra noi
e gli
altri,
tra amici
e nemici),
da cui l’azione politica non solo non può prescindere, ma di cui è
addirittura costituita. Si pensi – per prender la cosa in un suo
vertice estremo e, dunque, più chiaro – a quel principio, che già
la riflessione greco-classica elaborò, per cui è moralmente
preferibile patire un torto che non rendersene responsabile.
Si
tratta di un principio che, come è chiaro, taglia alle radici ogni
ottica utilitaristica, da cui, invece, la politica non può certo
prescindere. Dunque, non vale indignarsi per un certo uso
dell’informazione, né è serio discutere il valore morale anche di
questa guerra.
La
realtà è che la vicenda politica, in quanto tale, si svolge secondo
grammatiche particolari, presuppone agenti e finalità che non sono
quelli operanti in sede morale. È di questa determinatezza,
specificità del politico, che dobbiamo realisticamente prendere atto
– come d’altronde una lunga tradizione di pensiero ci insegna.
Cosa
deriva da questa necessità? Dobbiamo forse accettare la guerra ed in
particolare questa guerra?
No.
Ne deriva, invece, che proprio immergendoci dentro la dimensione
politica, prendendo atto delle sue regole, dei suoi attori e delle
sue finalità, dunque, radicandosi nell’effettivo terreno politico,
è così collocandoci che dobbiamo definire le nostre ragioni contro
la guerra, contro questa guerra.
Appunto,
diversi sono gli attori dell’agire politico: ed alcuni – per i
loro progetti, interessi e credenze – debbono portar guerra (anche
non guerreggiata); in caso contrario, dovrebbero rinunciare a ciò
che rappresentano, dovrebbero dismettere il ruolo che storicamente
loro appartiene.
Ma
vi sono anche altri soggetti, i cui interessi e finalità si
coniugano con forme crescenti di autogoverno democratico, con lo
sviluppo della razionale, consapevole gestione della vita sociale.
Essi si coniugano con la pratica presa d’atto che “il mondo è
interconnesso”, che ognuno di noi non tanto appartiene a questa o
quella patria, quanto piuttosto è cittadino di un’unica patria, è
membro di un’unica umanità, la quale non conosce né differenze di
razza, né di fedi religiose. Conosce, invece, solo ostilità
profonda per quegli interessi particolari e costituiti, che
producono divisione, sfruttamento e guerra.
Questi,
al fondo, i termini attuali dello schieramento politico possibile. E
noi ci schieriamo, appunto, contro la guerra!
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