Carla
Filosa insegna
dialettica hegeliana e marxismo. Collabora
con l’Università Popolare Antonio Gramsci
(https://www.unigramsci.it - https://www.facebook.com/unigramsci - https://rivistacontraddizione.wordpress.com).
Il sacrificio individuale della quarantena da Coronavirus, sebbene coinvolga popolazioni del mondo intero, non può definirsi collettivo in quanto gestito in modo differente dai vari governi e analogamente subìto dalle masse, non già comunità, ma somma di individui.
Il tema del sacrificio è senz’altro accattivante e, in un momento come questo di “sacrificio” più o meno volontario della propria libertà personale da scambiare col contenimento di un virus altamente nocivo, può attirare ancor più l’interesse a saperne di più.
L’argomento a cui però si fa qui riferimento è trattato in un articolo a firma di Luigino Bruni su Avvenire (14 marzo), dal titolo “Ambiguo è il sacrificio” (https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/luigino-bruni-oikonomia-10). In questa sede il tema sviluppato non avrebbe suscitato alcuna particolare attenzione se non fosse stato per la citazione di Marx, all’interno di una visione teorica del tutto arbitraria, tanto più in quanto alla fine sembra strizzare l’occhio nel denunciare l’ipocrisia capitalistica che usa parole sostitutive della realtà: “la bella parola sacrificio copre la brutta parola sfruttamento”.
Qui non si intende entrare nel merito dell’uso religioso del sacrificio, così come la storia umana ce l’ha consegnato, sparso in vari continenti ed epoche differenti, bensì ribadire che, non solo la matrice religiosa, ma anche quella ideologica e politica della storia umana, vede il suo inizio promosso dalla creazione di mezzi atti a soddisfare i bisogni immediati dell’esistenza, quali cibo, acqua, riparo abitativo, vestiario, ecc., cui sono seguiti poi sempre nuovi bisogni. L’articolo di Avvenire sembra peraltro riecheggiare le ricerche che sulla fine dell’800 furono effettuate sui popoli primitivi per dare alla vita religiosa una preminenza sulla vita pratica, profana ed economica, per caldeggiare il procedere di un progresso economico da presupposti sacrali quale base e origine di ogni altra manifestazione. Non quindi i bisogni materiali avrebbero determinato la caccia, l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, come pure tutti gli strumenti atti a questi scopi, ma intuizioni mistiche e strumenti magici sarebbero stati la causa primaria dell’organizzazione umana agli albori della vita associata.
La religione dunque, con le sue pratiche ai nostri occhi crudeli o insensate, sembra rispondere al bisogno di oggettivazione umana delle proprie mancanze, dell’impotenza di fronte alle minacce della natura, alla morte, all’iniziale mistero della riproduzione della vita, ecc., e contemporaneamente alla legittimazione di un potere esercitato da alcuni individui, o gruppi sociali, su altri assoggettati. I sacrifici religiosi allora qui non interessano nei loro fini mistici apparenti, per impetrarne vantaggi presenti o futuri, o come ringraziamento a divinità supposte, mentre invece è importante l’indagine sulle loro cause, e soprattutto su chi ne gestiva e gestisce ancora la pratica esclusiva in forma dominante. La correlazione delle istituzioni religiose, familiari e politiche delle popolazioni arcaiche alle forme di vita economica, quale fattore questo sì determinante nello sviluppo storico umano, non può più essere messa in discussione, anche se ora ci si occuperà in modo prioritario del nostro presente.
Innanzitutto religione, economia e crisi non hanno – come l’articolo equipara – lo stesso rango racchiuso nella parola “sacrificio”. Che i poteri di sempre in qualunque forma si siano sempre ammantati di sacralità per legittimare il proprio arbitrio o dominio, determinando quindi sacrifici ad altri usati anche nelle guerre come animali al macello, non significa che fossero paritetici nella rispettiva origine o accadimento. Se si omette lo spessore storico in cui questi sono emersi da modi di produzione del tutto differenti, si offre un illecito terreno di confrontabilità su ciò che sembra comune, tacendo invece sulla specificità differente necessaria all’esplicazione, all’identificazione analitica. Un sacrificio umano azteco non ha nulla a che fare con il sacrificio dei cosiddetti “omicidi bianchi” – necessari (!) a questo sistema attuale – men che mai le “crisi collettive” di altre epoche sono paragonabili alla crisi da sovrapproduzione capitalistica!
Il sacrificio individuale della quarantena da coronavirus, poi, sebbene coinvolga popolazioni del mondo intero, non può proprio definirsi “collettivo” in quanto gestito in modo differente dai vari governi e analogamente subìto dalle masse, non già comunità, ma somma di individui ricacciati da un identico pericolo in un isolamento forzato, in cui ogni altro può costituire una minaccia mortale suffragata dal numero crescente dei decessi.
Venendo alla suddetta citazione di Marx, si usa il termine “valore” per introdurne la manipolazione, nell’accezione di un senso comune utilizzabile nei contesti più vari, che però niente ha a che vedere con la stessa parola contenente il significato scientifico della determinazione economica, usato da Il Capitale. Siccome l’analisi marxiana non è più conosciuta dopo tutte le esecrazioni e falsificazioni effettuate per impedirne la diffusione negli strati sociali da assoggettare, si pensa che il passe-partout dell’equivoco del significato sia agevole nell’uso improprio del significante.
Il valore è, per Marx, tempo di lavoro socialmente necessario erogato dalla forza-lavoro umana, creato da questa nel processo lavorativo di trasformazione delle materie prime in merci, nelle quali contemporaneamente si racchiude anche il plusvalore, cioè lo stesso identico lavoro però non pagato. Non è quindi – come viene imbastito nell’articolo – ciò che “le imprese prendono… e creano valore aggiunto facendole “morire” trasformandole in merci”. Le merci sono infatti un prius, il fine precipuo della produzione del sistema di capitale, in quanto in esse soltanto si può nascondere il lavoro coagulato pagato e, relativamente sempre in misura crescente, non pagato. La duplicità delle merci offre quindi al capitale (al singolare come astrazione logica, ma al plurale nella concretezza storica) un veicolo visibile nel valore d’uso, nell’oggetto utile, considerato come un bene sociale, in cui segregare il vero scopo della brama, fenomenicamente invisibile, cioè il valore e plusvalore indistinguibili nella loro concrezione produttiva, considerati poi come valore di scambio. Solo la scienza può rivelare questa invisibilità concreta che, sola, è bene ribadire, spiega la natura dei profitti altrimenti originati nell’arcano o nella propagandata superiore bravura imprenditoriale, che li mostra anche come benefattori dispensatori di posti di lavoro!
Se quindi tutti i profitti sono incrementati dalla quantità di plusvalore estorta, la produzione di merci, che nelle rotazioni annue li precede e ne consegue, è frenata solo dall’intaso dovuto al loro eccesso sui mercati paganti, dove il plusvalore deve necessariamente trasformarsi in denaro e questo di nuovo in capitale (sempre lo stesso denaro che però acquista forza-lavoro per esigerne il plusvalore necessario ), non più quindi aumentato dal valore gratuito impossibilitato a realizzarsi. Questo freno dunque è la fase di crisi di capitale – dovuta proprio al suo massimo funzionamento ed espansione, alla sovrapproduzione in tutti i settori delle merci, che non possono più essere vendute per trasformare in denaro il plusvalore creato in sede produttiva – saturazione combattuta prima possibile nella conversione immediata della crisi di capitale in crisi di lavoro.
È per questo che risulta difficile capire che non le persone in quanto esseri umani creano valore, ma solo la loro forza-lavoro, materialmente separabile nella imposta mercificazione! Le migliaia di licenziamenti attuati, in atto e attuabili anche in un futuro già in parte programmato, stanno a dimostrare che la forza-lavoro si compra – come qualsiasi altra merce – e si dismette quando non serve, quando non è più profittevole produrre perché non si riesce più a vendere. Il suo portatore, la persona, anche idealmente dimidiata da parte degli acquirenti delle sue capacità, azzerato nella condizione di esubero il suo unico sostentamento, può anche morire, come un qualsiasi oggetto inutile e alla bisogna largamente sostituibile. La crisi di capitale quindi non ha niente in comune con le crisi di altri modi di produzione, e nemmeno la richiesta di sacrifici inequivocabilmente laicizzati che il capitale effettua nei confronti della classe lavoratrice, in quanto finalizzati esclusivamente all’aumento di lavoro gratuito, le cui conseguenze di degrado umano non hanno alcun interesse per chi mira all’accumulazione privata di plusvalore.
Ancora, proprio per diminuire continuamente i costi di produzione sono state introdotte le macchine, la cui ultima versione è costituita dalla robotica attuale, utilizzate in ambito sia economico sia militare. Va rilevato che le macchine sollevano oggettivamente da fatica, nocività, pericoli ma nella soggettivazione dominante del loro uso ciò diventa solo funzionale al perseguimento dei propri interessi di comando sul lavoro ed egemonici sul piano dei conflitti internazionali. Nelle macchine, poi, il sistema fa sedimentare il moto e l’intelligenza umana sociale appropriati, e nel continuo rinnovo e sviluppo delle molteplici applicazioni le rende produttive (di plusvalore) solo perché nel loro interno si cela l’inventiva e la genialità della forza-lavoro intellettuale precedentemente acquistata e sfruttata, necessaria alla loro costruzione. Ancora una volta la produttività è solo della forza-lavoro che genera plusvalore, ma nel sistema di macchine che sempre più soppianta il lavoro e lo espelle al cospetto della sua efficienza, appare la produttività sostitutiva artificiale, mentre invece è il risultato di uno sfruttamento a monte sparito, ma vantaggiosamente operante nel processo produttivo complessivo.
La forza-lavoro viva residua infatti, espropriata della sua professionalità dal meccanismo, ne diventa dipendente e subordinata nei tempi, mansioni, direzione, ecc. L’ultima modifica del rapporto lavorativo, infine, è stata l’accentuazione della precarizzazione del lavoratore – peraltro sempre esistita – nella esasperata necessità di sostenere un’accumulazione in crisi, inducendo la scomparsa del rapporto di dipendenza in fittizie autonomie lavorative. L’ultimo film di Ken Loach, “Sorry, we missed you”, gestisce in modo magistrale questo problema: il protagonista espulso dal mercato del lavoro è ridotto a cercarne uno qualsiasi e nel colloquio con un boss, o datore di lavoro, si sente rifiutare l’assunzione che gli viene contrabbandata con un “benvenuto a bordo”. Gli si offre solo di stare sulla stessa barca nel senso che i costi, le difficoltà, i problemi sono a suo carico fortunato per giunta ad avere chi gli affida, deresponsabilizzato di tutto tranne che nell’incasso dovuto, il lavoro a cottimo modernizzato, ovvero costantemente sorvegliato e comandato da remoto.
Nell’articolo di Bruni, Marx viene citato come sempre per stravolgerne l’analisi. Si adocchiano le parole sparse senza inserirle mai nei concetti di cui sono espressione, isolate, per fare effetto, per mostrare di sostenere moralisticamente la parte dei deboli. I lavoratori sono ormai orfani dei “loro” (?) intellettuali, sindacalisti, politici; si affidano a chi sembra appoggiarli senza sapere il perché. L’operazione però è datata, cominciata sin dai tempi dell’enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII (15 maggio 1891), in cui si affermava di affrontare la questione operaia “secondo i principi di giustizia e equità” per non “volgere la questione a perturbamento dei popoli”, e si asseriva inoltre subito nel primo titolo: “Socialismo falso rimedio” per gli operai. La cosiddetta “giusta mercede” impetrata sempre dai pulpiti si appoggiava sull’equiparazione formale tra compratore e venditore della forza-lavoro, omettendo sapientemente l’iniquità reale del rapporto di dipendenza di chi è costretto a lavorare per vivere. Il diritto introdotto dalla borghesia a sostegno del capitale, della sperequazione cioè necessaria a mantenere il comando sul lavoro e il controllo sulle masse, è per definizione antitetico alla giustizia sociale.
In conclusione si ritiene quindi inutile sparare a salve su una chiesa cattolica che non può strutturalmente accettare la realtà delle classi sociali, nel suo ecumenismo corporativo in appoggio ai poteri costituiti da più di duemila anni, men che mai rinunciare all’ambiguità di soccorrere la povertà lasciandola proliferare - sebbene a parole sembri spesso il contrario - tuonando contro l’avidità capitalistica senza intaccare mai i gangli reali della sua genesi o permanenza nel tempo. Cerchiamo invece noi, comunisti che lavorano per affiancare e potenziare le rivoluzioni materiali della storia, di saper entrare nel merito dei problemi sollevati. Solo in tal modo, senza invocare frange sociali più illuminate rese sempre innocue nell’emarginazione da parte dell’autorità centralizzata, si possono far accedere ai piani razionali almeno le masse più consapevoli perché meno ricattate. Altrimenti le popolazioni, opportunamente private degli strumenti adeguati per difendersi dall’unico indirizzo spianato nell’affidamento fideistico, vengono spinte nell’inazione imbelle e indifferenza fatalistica oggi definita anche scoraggiamento, mentre invece possono conquistare un protagonismo finalmente cosciente e combattivo nella continuità e specificità del mutamento storico.
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