martedì 3 marzo 2020

Socialismo e rivoluzione nella concezione di Rosa Luxemburg - Lelio Basso

Da: http://www.rifondazione.it/formazione - Estratto dalla Introduzione al volume: ROSA LUXEMBURG, La rivoluzione tedesca 1918 -1919 -
Lelio Basso è stato un avvocato, giornalista, antifascista, politico e politologo italiano. [Tutti gli scritti di Lelio Basso li trovate su http://www.leliobasso.it/]
Vedi anche:  ROSA L. - Margarethe Von Trotta (1986) (Film completo)
                     "Rosa Luxeburg e Karl Liebknecht"



"Rosa sta dalla parte delle masse perché sono oppresse, e la funzione educatrice delle élite è per lei finalizzata alla loro rivolta, alla rivoluzione - non al potere delle stesse élites per conto delle masse, vicario del potere borghese e a esso speculare. E' una visione fino a oggi priva di sbocco politico, ma la sola dove la rivoluzione non sia destinata a divorare se stessa"      
(Edoarda Masi,"La persona Rosa, perché", p. 95)


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[…] 

Va osservato in primo luogo che Rosa non è stata mai una spontaneista nel senso di considerare che solo conti l’azione spontanea delle masse, senza bisogno di direzione politica.

Al contrario essa ha sempre rimproverato alla socialdemocrazia di non sapere svolgere proprio la funzione dirigente cui è chiamata (“Il periodo nuovo, quello dell’imperialismo, ci pone dinanzi dei problemi nuovi, che non possono essere risolti con i soli mezzi parlamentari, con il vecchio apparato e la vecchia routine. Il nostro partito deve imparare a scatenare, quando la situazione lo consente, delle azioni di massa e a dirigerle [corsivo nostro, L. B.]: non sa ancora farlo”), perché delle masse svuotate d’iniziativa politica e di capacità di lotta non saranno mai delle masse che potranno condurre a fondo un’azione rivoluzionaria (anche senza bisogno di attribuire a questa parola il significato insurrezionale). 

Non si tratta quindi di negare il ruolo dirigente del partito, ma di contestare il modo come viene svolto e che sottovaluta totalmente il ruolo e la capacità combattiva delle masse, facendo del partito il solo protagonista. “Storicamente, il partito socialdemocratico è chiamato a costituire l’avanguardia del proletariato; partito della classe operaia, deve aprire la marcia e assumere la direzione. Ma se la socialdemocrazia s’immagina che è essa chiamata a scrivere la storia, che la classe non è niente, e che deve esser trasformata in partito prima di poter agire, potrebbe darsi che la socialdemocrazia svolgesse il ruolo di freno nella lotta di classe”, come infatti l’ha svolto. 

E d’altra parte, se così fosse, se solo il partito fosse il titolare della azione politica della lotta di classe, come si spiegherebbe che la lotta di classe ha preceduto la nascita del partito, e anzi vi ha dato essa stessa vita, come si spiegherebbe che rivoluzioni socialiste, come a Parigi nel ‘48 e nel ‘71 e in Russia nel ‘905, sono scoppiate senza che un partito le avesse preparate e dirette? Come si spiegherebbe la partecipazione di vastissime masse non organizzate in tanti movimenti e il peso decisivo che vi hanno esercitato? “In occasione di grandi lotte, l’impeto delle masse non organizzate rappresenta, ai nostri occhi, un pericolo assai minore della debolezza dei capi”. Sarebbe quindi “un errore fatale immaginarsi che ormai l’organizzazione socialdemocratica è diventata la depositaria unica di tutta la capacità di azione storica del popolo, e che la massa non organizzata del proletariato è ridotta a un magma amorfo costituente per la storia un’inerte zavorra”. No, “la materia vivente della storia mondiale resta sempre, a dispetto della socialdemocrazia, la massa del popolo; e solo se si mantiene una viva circolazione sanguigna fra il nucleo dell’organizzazione e la massa popolare, solo quando il polso dell’una e dell’altro battono all’unisono la socialdemocrazia può dimostrarsi atta a grandi imprese storiche”. 

Questo dunque è il punto essenziale: la funzione dirigente del partito deve esplicarsi non attraverso ordini e direttive, non con i metodi burocratici dell’apparato, non mediante le famose “cinghie di trasmissione”, ma attraverso un’interazione continua che faccia appunto scorrere permanentemente il sangue fra vertici e base, fra partito e classe, fra organizzazione e movimento, essendo chiaro che una grande azione politica, un importante compito storico non potranno essere svolti da una massa abituata soltanto a obbedire. 

Rosa Luxemburg non dimentica questi insegnamenti nel corso della rivoluzione, e lungi dal disprezzare il ruolo organizzativo e di direzione politica del partito, lo invoca: invoca dai leader “chiare parole d’ordine” per le masse, ma avverte che non bastano le parole d’ordine, che bisogna fare di tutto per assicurare la più energica esecuzione delle parole d’ordine: “la situazione che si è avuta finora, caratterizzata da una direzione manchevole, dalla mancanza di un centro organizzativo degli operai berlinesi, è diventata insostenibile. Se la causa della rivoluzione deve andare avanti, se la vittoria del proletariato, se il socialismo devono essere qualcosa più d’un sogno, allora gli operai rivoluzionari devono crearsi organi dirigenti che siano all’altezza del momento, che sappiano dirigere ed utilizzare l’energia di lotta delle masse”. Come si vede, il discorso è lo stesso, nella vecchia socialdemocrazia come nei giorni della rivoluzione: la funzione di direzione spetta al partito, ma dev’essere una direzione che si esprime in armonia con le masse. 

Purtroppo il partito capace di assolvere questa funzione direttiva era ancora da fare: un partito che, secondo l’espressione di Rosa Luxemburg, sapesse “essere la bussola orientatrice, la vela di punta, il lievito proletario-socialista della rivoluzione: ecco il compito specifico dello Spartakusbund nell’attuale conflitto fra due mondi”. Pochi giorni dopo avere così delineato la funzione del partito, essa precisava dalla tribuna del congresso di fondazione del Partito comunista che quel che occorreva “era una struttura completamente nuova, che non ha nulla in comune con le vecchie tradizioni tramandateci”. Ma la controrivoluzione non lasciò a Rosa Luxemburg il tempo di preparare questa struttura completamente nuova; preferì farla assassinare prima. Non aveva Rosa stessa scritto poche settimane prima di morire, citando dei versi di Dehmel, che a noi non manca nulla per essere liberi: soltanto il tempo? 

È proprio questa mancanza di tempo che è stata spesso rimproverata alla Luxemburg come la sua specifica responsabilità nella sconfitta della rivoluzione socialista in Germania: il suo “spontaneismo”, la sua sottovalutazione del momento direttivo e organizzativo, del partito in altre parole, sarebbe stata determinante nella mancata tempestiva scissione della sinistra marxista dal partito socialdemocratico, nella mancata tempestiva fondazione di un partito rivoluzionario, che Lenin invece fondò e preparò fin dagli anni dell’esilio, creando così per tempo lo strumento indispensabile alla vittoria della rivoluzione socialista in Russia. Fu lo stesso Stalin che nella nota lettera alla redazione della rivista “Proletarskaja Revolutsija” del 1931 avanzò questa critica, che divenne la posizione ufficiale dei vari partiti e scrittori comunisti in argomento, e che è ancor oggi ripetuta. In Italia invece Ernesto Ragionieri l’ha combattuta nella sua Introduzione a K. Liebknecht e R.Luxemburg - Lettere 1915-1918 (Roma 1967), osservando giustamente che “il movimento socialdemocratico tedesco, negli anni della II Internazionale, era troppo diverso da quello che si era potuto sviluppare in Russia, perché si possa ritenere che nell’uno e nell’altro paese le cose dovessero svilupparsi allo stesso modo”, e inoltre che lo stesso “Lenin, prima del 4 agosto 1914, né formulò una condanna globale socialdemocratica tedesca, né ne criticò l’ala sinistra perché questa non si separava organizzativamente dal resto del partito. Lenin conosceva troppo bene il movimento operaio del proprio tempo e le caratteristiche con le quali esso si era sviluppato in ciascun paese, era troppo consapevole di che cosa significasse la tradizione di partito in Germania, dove un movimento di massa si era formato attraverso una serie di prove successive che ne avevano fortemente cementato il legame unitario, per non avvertire che la lotta imposta ovunque dai comuni problemi dell’età dell’imperialismo non poteva non essere combattuta in forme diverse. Tutto il suo appoggio andava a quanti si opponevano alla degenerazione della socialdemocrazia tedesca e cercavano di conservare le masse lavoratrici legate alle sue grandi tradizioni internazionaliste e rivoluzionarie. Non c’è dubbio però che, proprio per questo, Lenin pensò sempre, ripetiamo, prima del 4 agosto 1914, ad una lotta che dovesse essere condotta all’interno del partito e non al di fuori di questo”. Potremmo addirittura aggiungere, come abbiamo già dimostrato altrove, che Lenin, tutto assorbito dai problemi della socialdemocrazia russa, avvertì molto più tardi della Luxemburg le degenerazioni opportunistiche della socialdemocrazia tedesca e continuò per parecchio tempo ad attribuire una immeritata fiducia al “marxismo” di Bebel e di Kautsky. Ma gli eventuali errori di Lenin non giustificherebbero gli errori della Luxemburg, se la mancata scissione dovesse esser sul serio considerata un errore. Ma chiunque abbia una anche sommaria conoscenza della storia e della natura della socialdemocrazia tedesca sa che una scissione, prima della guerra, non sarebbe stata neppure pensabile, e chi l’avesse tentata, qualunque fossero le sue capacità e il buon fondamento delle sue posizioni, sarebbe rimasto assolutamente isolato dalle masse. Altro era il caso della socialdemocrazia russa, partito che aveva i suoi leader nell’emigrazione, e che svolgeva le sue battaglie e i suoi congressi principalmente nella ristretta cerchia degli esuli, senza che nessuna delle diverse frazioni potesse vantare, a causa delle condizioni di vita in Russia, stretti legami organizzativi con vaste masse popolari. I socialdemocratici russi potevano permettersi di alternare scissioni e unificazioni senza pregiudicare i loro rapporti con la classe operaia, e un uomo come Trotsky, che era poco più che un isolato, poteva nel 1905 diventare presidente del Soviet di Pietroburgo e poteva nel 1917, appena entrato nel partito bolscevico, giocare un ruolo di primissimo piano accanto a Lenin nella rivoluzione bolscevica. Nulla di simile sarebbe stato pensabile in Germania. 

Qui la socialdemocrazia, quando Rosa Luxemburg cominciò a militarvi nel 1898, aveva già 35 anni di vita e aveva già superato brillantemente il dodicennio di legge eccezionale, creandosi, grazie anche al dominio assoluto dei sindacati, una larga base di massa, che la qualificava, tanto agli occhi dei tedeschi quanto agli occhi del socialismo internazionale, come “il” partito, il solo, della classe operaia tedesca. Si aggiunga che esso aveva il crisma ufficiale del marxismo, perché Engels, fino alla sua morte nel 1895, lo aveva considerato tale e anzi persino come il suo proprio partito, e Kautsky, considerato dopo la morte di Engels come il “papa del marxismo” era il teorico ufficiale della socialdemocrazia tedesca. Il suo principale leader, Bebel, era stato amico di Engels e nessuno avrebbe osato in pubblico contestare la sua fedeltà al marxismo. D’altra parte la mistica dell’unità e addirittura la mistica dell’appartenenza al partito erano fortemente sentite: nulla sarebbe stato più controproducente, agli occhi della classe operaia tedesca, che ribellarsi al partito o infrangere l’unità. Si aggiunga che la Luxemburg, in parte proprio per le posizioni polemiche assunte contro la destra, e in parte per il suo carattere che non le consentiva di tacere il proprio pensiero, aveva molti nemici, i quali, per denigrarla, arrivarono persino ad attaccarla come ebrea e come straniera, e purtroppo l’antisemitismo e la xenofobia trovavano spesso eco nell’animo del “filisteo” tedesco, del piccolo borghese che occupava posizioni di potere ai livelli intermedi del partito. 

Neppure costituire una frazione organizzata sarebbe stato possibile, in primo luogo perché proprio la sinistra aveva invocato l’unità e la disciplina per molti anni contro i revisionisti che si permettevano atti d’indisciplina contro le decisioni dei congressi (p. es. approvando il bilancio in qualche parlamento statale o stipulando alleanze con partiti borghesi, vietate dai congressi), ma i revisionisti avevano dietro di sé l’immensa potenza dei sindacati che la prassi tradeunionistica aveva facilmente spinto su posizioni riformistiche e che, a partire dal 1906, grazie agli accordi stipulati con Bebel, avevano raggiunto un grande potere anche sul partito. La sinistra poteva invece contare solo sulle proprie forze che, apparentemente maggioritarie fino a che Bebel e Kautsky si manifestavano, sia pure prudentemente, di sinistra, diventarono rapidamente minoritarie appena Bebel cominciò a pencolare apertamente dall’altra parte e Kautsky diede vita al cosiddetto “centro marxista”. Inoltre l’apparato del partito, pur sottomesso all’indiscussa autorità del presidente Bebel, si spostava sempre più a destra prima con la segreteria Auer e poi con la segreteria Ebert. 

Ciononostante la sinistra non cessò mai di manifestare la sua attiva presenza nel partito, soprattutto nella stampa con Rosa Luxemburg e Franz Mehring che erano fra i pubblicisti più ricercati, nel movimento giovanile con Karl Liebknecht che ne era l’anima, nelle frequenti riunioni locali e nei congressi dove sistematicamente davano battaglia. Dopo la clamorosa rottura della Luxemburg con Kautsky nel 1910, cominciò anche da parte della sinistra il tentativo di dare una certa organizzazione alla corrente, prendendo soprattutto lo spunto dal fatto che il gruppo parlamentare nel Landtag del Baden il 14 luglio 1910 aveva dato voto favorevole al bilancio, ribellandosi così apertamente alle decisioni del congresso di Norimberga del 1903. In occasione del congresso dell’Internazionale a Copenaghen (28 agosto - 3 settembre 1910), Wilhelm Dittmann (che allora apparteneva alla sinistra, ma aderì poi al Partito socialdemocratico indipendente e fu uno dei tre commissari del popolo di questo partito, prendendo posizioni sempre più a destra) propose in una riunione di “opporre un blocco radicale al blocco revisionista” a cominciare dal prossimo congresso del partito a Magdeburgo, dove infatti fu sferrata una forte offensiva contro i revisionisti badesi, ma dove appunto cominciò a manifestarsi apertamente la posizione centrista Bebel-Kautsky. L’anno appresso, alla morte del co-presidente Paul Singer, fu svolta con successo un’azione per eleggere al suo posto il centrista di sinistra Hugo Haase (anch’egli futuro leader del partito indipendente e commissario del popolo) in luogo di Ebert, ma fallì il tentativo successivo di allargare il comitato direttivo includendovi altri nomi appoggiati dalla sinistra, nonostante che risulti dalle carte Dittmann che vi fu un tentativo organizzato in questo senso, sul quale peraltro, in una lettera del 9 dicembre 1911 la Luxemburg mostrava di non farsi illusioni. La battaglia si riaccese più vivace l’anno venturo al congresso di Chemnitz sull’imperialismo e le sue conseguenze, e nel 1913 sul voto dato al Reichstag sulle spese militari, ma furono le ultime battaglie della vecchia sinistra che la ventata della guerra mondiale doveva disperdere. D’altra parte la burocrazia dominante del partito aveva già provveduto negli ultimi anni a isolare sempre più i dirigenti della sinistra, togliendo ad essi la possibilità di collaborare alla stampa di partito, talché i più tenaci e più coerenti oppositori, Rosa Luxemburg, Franz Mehring e Julian Karski-Marchlewski, fondarono nel 1912 un bollettino “Sozialdemokratische Korrespondenz” in cui pubblicavano articoli, inviando poi il bollettino alla stampa socialdemocratica con diritto di riproduzione. 

È impossibile dire con precisione, allo stato delle nostre conoscenze (molti archivi sono stati distrutti e parecchi, anche conservati, non sono ancora stati pubblicati) se la sinistra avrebbe potuto fare qualche cosa di più, ma comunque assai poco, data la situazione del partito, dei sindacati, e in genere della classe operaia, tedesca che, anche là dove ammetteva addirittura il dissenso, non avrebbe tollerato un’aperta opera frazionistica che fosse stata sconfessata e condannata dalle sfere dirigenti.

La riprova si ebbe del resto con lo scoppio della guerra e il voto favorevole, dato dal gruppo socialdemocratico al Reichstag, ai crediti di guerra. Gli avvenimenti sono noti, e noi stessi ne abbiamo già parlato nella nostra citata Introduzione: anche su questo punto non vogliamo ripeterci. È certo che la classe operaia tedesca era contro la guerra e manifestò in questo senso vivacemente e compattamente fino alla vigilia, cioè fino a che i giornali del partito, ignari di quello che si stava tramando dietro le quinte, e la stessa direzione del partito, per non scoprire troppo presto le sue carte, si pronunciarono contro la guerra. Il voto del 4 agosto venne come un fulmine a ciel sereno perché sembrava contraddire tutta la tradizione del partito, anche se oggi, con una più approfondita conoscenza dei fatti, possiamo invece ritenere che quel voto segnasse il logico coronamento di una politica di integrazione. Fu quella l’occasione per misurare quale fosse la forza reale, o piuttosto la debolezza, della sinistra e quanto grande invece fosse lo spirito di disciplina non solo delle masse ma anche di molti dirigenti. Uomini come Lensch, che erano stati sempre su posizioni radicali (passarono improvvisamente dall’altra parte. Lo stesso Liebknecht, che era stato e che fu anche in seguito uno dei più coraggiosi leader della sinistra, votò in favore dei crediti per disciplina di gruppo, perché temette che un voto contrario avrebbe potuto isolarlo dalle masse. E ancora una volta fu Rosa Luxemburg che ripartì quasi da sola a ritessere la tela del movimento che venne poi sviluppandosi, come vedremo, nel corso della guerra. 

Senza pertanto pretendere che la sinistra tedesca in generale, e Rosa Luxemburg in particolare, abbia fatto tutto quello che era possibile, e non abbia commesso - ciò che sarebbe impossibile - errori nel suo operare, crediamo di poter tuttavia fondatamente respingere la critica sommaria e superficiale mossale da Stalin di avere sbagliato per non aver provveduto in tempo a una scissione, che non avrebbe avuto nessun seguito. E del pari crediamo infondata l’altra critica che fa risalire la sconfitta spartachista agli errori teorici della Luxemburg, traendone la prova dal fatto che i bolscevichi arrivarono invece alla vittoria, grazie alla superiorità della teoria leninista. Anche questa critica ignora le circostanze storiche così profondamente diverse in cui si sono svolte le due rivoluzioni e non si rende conto che la rivoluzione bolscevica ha trionfato grazie, certo, anche alle doti strategiche e tattiche di Lenin, ma soprattutto grazie alle circostanze essenziali in cui Lenin si è trovato ad operare, che non trovano in nessun modo riscontro nelle circostanze in cui operarono Rosa Luxemburg e gli spartachisti. 

I due punti d’appoggio fondamentali su cui fece leva la rivoluzione bolscevica furono i problemi della pace e della terra. Il primo fu uno strumento efficacissimo adoperato per molti mesi, dalla rivoluzione di marzo a quella di novembre, contro un governo che si ostinava a voler mantenere in guerra - e in una guerra che non aveva più i mezzi per sostenere - un paese che non ne voleva assolutamente sapere. La rivoluzione tedesca del 9 novembre fu seguita invece a soli due giorni di distanza dall’armistizio con le potenze vincitrici; il governo Ebert-Scheidemann, a differenza di quello Kerenski, aveva il merito d’aver posto fine alla guerra e di voler arrivare il più rapidamente possibile alla pace. Esso anzi aveva buon gioco a predicare la calma, la concordia, la disciplina come fattori che avrebbero favorito delle migliori condizioni di pace: poteva cioè al tempo stesso giocare sulla corda nazionalista per tutti coloro che avevano creduto nella guerra e desideravano evitare una pace umiliante, e sulla corda pacifista per tutti coloro che erano ormai stanchi della guerra e volevano tornare a un regime di vita normale.

Anche il problema della terra non aveva in Germania l’importanza che aveva in Russia: certo c’erano, soprattutto al di là dell’Elba, delle condizioni di vita agricole che esigevano una riforma agraria e avrebbero potuto giustificare un’insurrezione, ma non avevano neppure lontanamente l’importanza numerica e sociale che avevano in Russia, la Germania essendo un paese prevalentemente industriale anziché agricolo come la Russia. Certo, è vero, la sinistra socialdemocratica tedesca e Rosa Luxemburg in specie si sono sempre occupati poco dei problemi agrari, in quanto fondavano le loro speranze rivoluzionarie sulla classe operaia, e questa è indubbiamente una carenza che ha un peso. Ma non bisogna dimenticare che il problema agrario tedesco s’inseriva in un contesto generale ben diverso da quello russo: la società tedesca era già allora una società fortemente strutturata, dove gli junker prussiani, che erano stati lungamente la classe dominante e conservavano ancora numerosi privilegi, erano ora gli alleati della borghesia industriale, con la quale avevano spesso rapporti anche familiari, per cui un’azione fra i contadini avrebbe incontrato ben altre difficoltà in Germania che in Russia. E d’altra parte lo stesso Lenin poté far leva sui contadini, solo modificando improvvisamente il programma bolscevico per accettare le parole d’ordine dei socialrivoluzionari che aveva sempre combattuto, e anche Rosa Luxemburg, appena poté parlare dalla tribuna del nuovo partito rivoluzionario, pose subito anch’essa il problema dei contadini come uno dei problemi che dovevano essere più urgentemente affrontati per sottrarre alla reazione l’appoggio delle masse rurali e acquisirle invece alla rivoluzione. 

Si aggiunga inoltre che mentre il governo russo rovesciato da Lenin era diretto da Kerenski, un giovane avvocato più ricco di parole che di capacità politica, che dopo il tentato colpo di stato di Kornilov non aveva più neppure l’appoggio delle forze armate, il governo Ebert-Scheidemann era retto da leader politici abili e sperimentati, che avevano dietro di sé - lo ripetiamo - la grande maggioranza dei lavoratori tedeschi (come fu confermato alle elezioni per l’Assemblea nazionale del 19 gennaio), e avevano stipulato un’alleanza con le forze armate rimaste agli ordini di Hindenburg. L’avversario contro cui combattevano gli spartachisti era quindi di ben altra taglia: era il risultato di due duplici alleanze fra le forze organizzate ch’eran rimaste in Germania, e cioè quella fra socialdemocrazia ed esercito, e quella fra industriali e sindacati socialdemocratici. Tanto Ebert, capo del governo, quanto Hindenburg, capo delle forze armate, avevano una duplice legittimità: quanto a Ebert, quella del vecchio regime perché egli era stato designato successore dell’ultimo cancelliere del Kaiser, il principe Max von Baden e il passaggio era avvenuto senza scosse, con tutta la burocrazia rimasta al suo posto, e quella del nuovo regime, perché il passaggio di poteri era avvenuto dopo l’insurrezione berlinese del 9 novembre, perché la repubblica era stata proclamata da Scheidemann, il secondo di Ebert, e perché il consiglio degli operai e dei soldati di Berlino aveva ratificato questa nomina; quanto a Hindenburg, perché aveva avuto la carica del Kaiser, che, abdicando, l’aveva pregato di rimanere al suo posto, e   perché il nuovo governo l’aveva in quel posto confermato. L’avversario che gli spartachisti avrebbero dovuto abbattere rappresentava quindi tutto quello che c’era in Germania di solido ed organizzato e che si presentava, quasi senza soluzione di continuità, nonostante la “rivoluzione”, compatto e garante sia della pace futura che della ripresa economica dopo le privazioni imposte dalla guerra. 

Anche senza gli errori che certamente furono commessi dagli spartachisti, sarebbe stato impossibile, nei due mesi in cui Rosa Luxemburg sopravvisse, abbattere il regime: in condizioni estremamente più favorevoli furono necessari a Lenin sette mesi, dopo il suo ritorno in patria. Perciò ogni ragionamento che voglia trarre, dalla mancata vittoria rivoluzionaria degli spartachisti, una conferma dell’errata posizione ideologica della Luxemburg, ci sembra sfornito di qualsiasi serietà. Senza contare che Lenin era veramente il capo dei bolscevichi e riusciva, pur con qualche difficoltà, ad imporre le sue vedute nei momenti eccezionali, mentre presso gli spartachisti il capo più prestigioso era certamente Liebknecht e la responsabilità delle parole d’ordine errate del gennaio, alle quali la Luxemburg e la maggioranza della direzione erano contrari, grava in gran parte su di lui. 

E infine, se si volesse spingere fino in fondo questi paragoni assurdi che non tengono conto delle differenze di situazione e credono che le strategie rivoluzionarie siano dei modelli trasportabili ovunque, si potrebbe aggiungere un altro argomento: è vero che Lenin, con una strategia basata soprattutto sul partito d’avanguardia che si trascina dietro la classe, è riuscito a conquistare il potere, mentre la Luxemburg, con la sua strategia dei tempi lunghi che vuol portare al potere non un partito, non un’avanguardia ma la maggioranza della classe, è stata battuta prima di avere avuto il tempo di portare avanti la sua strategia, ma se badiamo agli sviluppi dobbiamo pur ammettere che la vittoria di Lenin non ha portato in URSS, neppure dopo oltre mezzo secolo, quella società socialista per la quale la Luxemburg combatteva, il che potrebbe anche significare che la strategia leninista, la strategia dell’avanguardia, non è la strategia che corrisponde ad una rivoluzione socialista quale noi l’abbiamo descritta nelle pagine precedenti con le parole della Luxemburg, che corrispondono in larga misura al socialismo per il quale anche noi abbiamo modestamente combattuto. 

Perché il nocciolo del problema è appunto qui: se al potere va soltanto un’avanguardia e non la classe, la burocratizzazione del potere diventa una necessità di fronte a una classe impreparata, e non a caso la burocratizzazione in URSS è cominciata già vivente Lenin; come si passerà allora dal governo della burocrazia alla dittatura della classe, cioè alla democrazia socialista che è appunto il problema non ancora risolto nei paesi comunisti? L’insistenza con cui la Luxemburg voleva le masse titolari e protagoniste dell’azione politica, naturalmente sotto la guida di un partito, ha trovato, ci sembra, negli sviluppi successivi della storia, una giustificazione e non una condanna. 

                                                                                                                                            [...] 





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