mercoledì 18 marzo 2020

CHE COS'È IL VALORE? - Giorgio Gattei*

Da: http://www.palermo-grad.com - Giorgio Gattei è docente di Storia del pensiero economico all’Università di Bologna dal 1980, membro della Associazione Italiana per la Storia del Pensiero Economico (AISPE).
Vedi anche: Das Kapital nel XXI secolo* - Giorgio Gattei 
                      Augusto Graziani e la Teoria Monetaria della Produzione*- Giorgio Gattei** 
                      Il Capitale dopo 150 anni. C'è vita su Marx? - Riccardo Bellofiore 
                      Sulla “Nuova lettura di Marx”*- Riccardo Bellofiore 
                      Le principali teorie economiche - Riccardo Bellofiore 
                      Corso sul "Il Capitale" di Karl Marx (1) - Riccardo Bellofiore 
                      Quale attualità di Claudio Napoleoni: il contributo di Politica Economica


Oggi inauguriamo una nuova rubrica, in cui l’ ’ospite’ di turno ci indica 3 – e non più di 3 ! – libri leggendo i quali ci si può fare un’idea precisa dell’argomento di cui l’ospite stesso è un grande competente. Abbiamo l’onore di iniziare con GIORGIO GATTEI

Giorgio Gattei è docente di Storia del pensiero economico all’Università di Bologna dal 1980, membro della Associazione Italiana per la Storia del Pensiero Economico (AISPE). Tra i suoi principali riferimenti teorici: Karl Marx, Nikolaj Dmitrievič Kondrat'ev, Joseph Schumpeter, John Maynard Keynes e Piero Sraffa. I suoi interessi di ricerca spaziano dall'analisi dei cicli economici, alla teoria dal valore, dei prezzi e della distribuzione di derivazione classico-marxiana. (Palermograd) 
 
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La teoria del valore non è un argomento che sia molto frequentato dagli economisti. E’ troppo astratto per i loro gusti più portati alle tematiche del governo dell’economia, con quella sua ancella statistica, che oggi va di moda, che è l’econometria. E dire che una volta non era affatto così e si dibatteva ferocemente se fosse più valida la determinazione del valore-lavoro degli economisti classici oppure quella del valore-utilità marginale dei neoclassici. Esemplare è stato il libretto di Claudio Napoleoni, Valore (Isedi, Milano, 1976) allora religiosamente compulsato ed oggi ormai fuori commercio. 
 
Comunque per quel che mi riguarda, dico subito che la teoria del valore è teoria del valore-lavoro oppure non è! Lo so bene che nell’accademia continua a dominare l’alternativa del valore-utilità, ma con tali difficoltà di costruzione logica da ridursi nei fatti al più comodo ed innocuo apparato di mercato della Domanda e dell’Offerta, che insieme stabiliscono (sono le «lame della forbice» di marshalliana memoria) il prezzo di una merce come quanto ci costa comperarla.

La teoria del valore-lavoro dice invece qualcosa di altro, e cioè quanto ci costa produrre quella merce e per questo, quando essa è sorta in piena stagione dei Lumi, ha preso lo spunto dalla maniera storicamente determinata di produzione del tempo, con il Denaro del capitalista che acquista la Merce Forza-lavoro per impiegarla alle proprie dipendenze. Per questo il valore delle merci prodotte non poteva che determinarsi secondo la quantità del lavoro impiegato, dato che allora «nelle manifatture la natura non agisce affatto ed è l’uomo che fa tutto» (Adam Smith). Nel seguito tuttavia la teoria del valore-lavoro ha vissuto una travagliata esistenza, conclusasi col suo fallimento, che ho ripercorso (mi è giocoforza citarmi, ma  nessun altro di recente l’ha fatto) in:
 
Giorgio Gattei, Storia del valore-lavoro, Giappichelli, Torino, 2011.
 
Infatti, quella determinazione del valore come lavoro si è subito complicata con l’avvento delle “macchine” della Prima Rivoluzione Industriale, essendo evidente che anche il loro utilizzo doveva parteciparvi. E’ stato Karl Marx a provare a salvare la teoria riconducendo le macchine al lavoro che “ieri” le aveva prodotte (il «lavoro morto»), ma il tentativo di fondare il valore come somma di "lavoro vivo+lavoro morto" è miseramente naufragato, dato che  il lavoro “di ieri” avrebbe dovuto essere imputato al valore di oggi “capitalizzato” del saggio del profitto per il tempo nel frattempo trascorso: ma così facendo il saggio del profitto finiva per essere considerato un dato del sistema, e non invece una incognita come nei fatti è. Nel 1960 Piero Sraffa doveva sancirne l’epitaffio: solo nel caso che il saggio del profitto fosse nullo il valore avrebbe potuto rispecchiare la somma di "lavoro vivo+lavoro morto", perché in caso contrario questa somma non si poteva fare. 

Però lo stesso Sraffa ci ha consegnato nel suo libro Produzione di merci a mezzo di merci il segreto di una “resurrezione” del valore-lavoro, ma nella forma del neo-valore (valore aggiunto, sovrappiù o surplus), da intendersi come il valore della produzione complessiva dopo che da essa sono state tolte le “macchine”. Ora, in aggregato questo neovalore può essere determinato dal solo lavoro vivo impiegato, così che l’imputazione impossibile del lavoro morto non era più necessaria. E’ stata così ripristinata (ma al momento solo per pochi, e soprattutto nella ignoranza degli sraffiani di stretta osservanza) che il neo-valore è lavoro vivo, sebbene il lavoro non abbia valore e nemmeno un prezzo, cosa che sarebbe «irrazionale come un logaritmo giallo» (Karl Marx). 

Allora il neovalore di tutte le merci prodotte è dato dalla somma di tutti i lavori vivi eseguiti? Sì, ma senza che tutti partecipino nella stessa maniera alla determinazione di quel plusvalore (che è quanto resta dopo che dal neovalore sono stati detratti i salari della forza-lavoro)  da cui derivano i redditi capitalistici tipici del profitto e dell’interesse. E questa l’idea scandalosa (ma genuinamente marxiana) sollevata da:
 
Mariana Mazzucato, Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, Laterza, Bari, 2018.
 
E’ vero che ogni capitale comunque impiegato rivendica una propria remunerazione, ma non tutti i lavori vivi producono plusvalore. Ecco perché ci sono dei capitali che guadagnano sul plusvalore altrui, così come esiste un «confine della produzione» (che è stato variamente definito nella storia del pensiero economico a seconda delle forze sociali dominanti) che separa i settori produttivi da quelli ce sono invece “estorsivi” e il cui più macroscopico esempio è al giorno d’oggi la finanza. Nella circolazione del denaro con sé stesso (D-D) in Borsa o in Banca gli scambi si realizzano a valori equivalenti (non si aumenta il PIL a giocare in Borsa!), eppure ci si può guadagnare, e anche molto, perché si specula sulla “fatica del produrre” dei settori industriali. Può dispiacere ai brokers ma, «anziché aggiungere valore, la finanza semplicemente prende una parte del plusvalore generato attraverso il processo di produzione - e non c’è nessuna regola ferrea che stabilisca quanto essa possa prendere». E ci riesce (ma quindi siamo fuori da una logica degli scambi ai valori) perché essa si fa pagare «i costi d’intermediazione tra investitori ed aziende; il suo potere monopolistico, specie nel caso delle banche; gli oneri troppi alti rispetto ai rischi, in particolare nella gestione dei fondi». 

Il che però non vuol dire che la finanza non serva («non si tratta di dividere il mondo tra chi prende e chi fa, accusando gli uni e assolvendo gli altri»), ma solo che essa dovrebbe essere presente nella giusta misura. Per usare una similitudine di Vilfredo Pareto (in Redditieri e speculatori del 1911), di cui Mazzucato non è a conoscenza, il sistema economico è come una nave a vela spinta dal vento del profitto e zavorrata nella stiva dall’interesse che le assicura la stabilità: se c’è troppo vento, la nave si ribalta (la crisi), ma se c’è troppa zavorra la nave non si muove (è lo stallo). 

Resta infine da dire che, nonostante quel che ne sa il grande pubblico, la teoria del valore-lavoro continua ad essere frequenta da alcuni studiosi interessati, come dimostra la recente rassegna di:
 
Riccardo Bellofiore e Carla Maria Fabiani (a cura di), Marx inattuale, Edizioni Efesto, Roma, 2019.
 
Il lettore che abbia il coraggio di superare la mole del volume, alcuni interventi rimasti in lingua inglese, i temi anche complicati considerati, può servirsene come una specie di menu à la carte degli argomenti filosofici, economici, sociologici e politici che girano intorno alla categoria del valore-lavoro, tra i quali scegliere quelli che più gli aggradano (come i vegetariani al ristorante che non chiedono piatti di carne...). E poi vale comunque l’ottima introduzione, che meriterebbe una edizione a sé stante, di Bellofiore dal titolo (che gli ho invidiato) C’è vita su Marx? (Sì, c’è vita! Non è ancora un pianeta disabitato, che ci sono diversi “marxzianini” intenzionati a colonizzarlo).

 Bellofiore traccia il bilancio della sua ricerca personale en marxiste allo scopo di ri-categorizzare il valore-lavoro come una grandezza economica macrofondata, monetaria e di classe (i tre aspetti si tengono tutti stretti tra loro, ma la spiegazione è complessa e va letta!), così da dar conto di come la lezione di Marx sia una genuina Critica dell’economia politica che si chiede, a differenza degli economisti, non soltanto di “come produce il capitale”, ma anche di “come lo si produce”. E la risposta è inevitabilmente: col lavoro vivo e basta. Certamente l’enorme “lavoro morto” del passato ci fa commuovere (è l’Angelus novus di Walter Benjamin che, volgendo il viso a ritroso, vede «una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia a suoi piedi»), ma non è che per esso - al di là delle lacrime - si possa fare più niente, mentre sul lavoro di oggi, sul lavoro in corso c’è tutta una lotta che è possibile condurre, affinché il valore prodotto non si spartisca sempre a sfavore di quelli che effettivamente lo creano.

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