lunedì 25 dicembre 2017

“RAZZISMO E CULTURA” - Frantz Fanon


Da: Frantz Fanon, Scritti politici. Per la rivoluzione africana. 2006 - https://www.facebook.com/jose.p.rojas.14/notes?
Frantz_Fanon è stato uno psichiatra, scrittore e filosofo francese, nativo di Martinica e rappresentante del movimento terzomondista per la decolonizzazione.


TESTO DELL’INTERVENTO DI FANON AL PRIMO CONGRESSO DEGLI SCRITTORI E DEGLI ARTISTI NERI DI PARIGI, SETTEMBRE 1956, PUBBLICATO NEL NUMERO SPECIALE DI “PRÉSENCE AFRICAINE”, GIUGNO-NOVEMBRE 1956.
Audio originale dell’intervento: http://www.ina.fr/audio/PH909013001


“La riflessione sul valore normativo di certe culture, decretato unilateralmente, merita attenzione. Uno dei paradossi in cui ci si imbatte più facilmente è il contraccolpo suscitato dalle definizioni egocentriche e sociocentriche.

Viene innanzitutto affermata l’esistenza di gruppi umani privi di cultura, poi quella di culture gerarchizzate e infine la nozione di relatività culturale.

Dalla negazione globale al riconoscimento singolo e specifico. Ed è proprio questa storia sanguinosa e frammentaria che bisogna cercare di tracciare a livello dell’antropologia culturale.

Esistono, possiamo dire, certi insiemi di istituzioni, vissute da determinati uomini, nel quadro di aree geografiche precise, che a un certo punto hanno subito l’attacco diretto e brutale di schemi culturali diversi. Lo sviluppo tecnico del gruppo sociale così emerso, generalmente elevato, lo autorizza a instaurare un dominio organizzato. L’impresa di deculturazione è soltanto il negativo di un più gigantesco lavoro di asservimento economico e persino biologico.

La dottrina della gerarchia culturale è quindi solo un modulo della gerarchizzazione sistematica perseguita in modo implacabile.

La teoria moderna dell’assenza d’integrazione corticale dei popoli coloniali ne è il versante anatomico-fisiologico. La comparsa del razzismo non è determinante. Il razzismo non è un tutto, ma l’elemento più visibile, più quotidiano, talvolta il più rozzo di una data struttura.

Studiare i rapporti tra razzismo e cultura significa porsi il problema della loro azione reciproca. Se la cultura è il complesso dei comportamenti motori e mentali, sorto dall’incontro dell’uomo con la natura e con i suoi simili, va detto che il razzismo è un vero e proprio elemento culturale. Ci sono quindi culture con razzismo e culture senza razzismo.

Questo elemento culturale non si è pero incistato. Il razzismo non ha potuto sclerotizzarsi, è stato costretto a rinnovarsi, a differenziarsi, a mutare fisionomia. Ha dovuto subire la sorte dell’insieme culturale che gli dava vita.

Il razzismo volgare, primitivo, semplicistico, pretendeva di trovare nella biologia, visto che la Bibbia si era rivelata inadeguata, la base materiale della propria dottrina. Sarebbe noioso riepilogare tutti gli sforzi allora compiuti: forma comparata del cranio, numero e configurazione dei solchi dell’encefalo, caratteristiche degli strati cellulari della corteccia, dimensione delle vertebre, aspetto microscopico dell’epidermide ecc.

Il primitivismo intellettuale ed emozionale appariva come una  conseguenza banale, il riconoscimento di un dato di fatto.

A delle affermazioni così brutali e grossolane subentra uri argomentazione più sottile. Qua e là, tuttavia, affiorano dei rigurgiti. Infatti, negli scritti di qualche contemporaneo, ricompare la «labilità emozionale del nero», l’«integrazione subcorticale dell’arabo», «il senso di colpa quasi generico dell’ebreo». Ad esempio la monografia di J. Carothers patrocinata dall’Oms vuole dimostrare, avvalendosi di «argomenti scientifici», una lobotomia fisiologica del nero africano.

Queste posizioni marginali tendono in ogni caso a scomparire. Questo razzismo che si vuole razionale, individuale, determinato da un punto di vista genotipico e fenotipico si trasforma in razzismo culturale. Oggetto di razzismo non è più l’individuo, ma una data forma di esistenza. Al limite si parla di messaggio, di stile culturale. I «valori occidentali» si ricollegano, stranamente, al famoso appello alla lotta della «croce contro la mezzaluna».

Certo l’equazione morfologica non è completamente scomparsa, ma gli avvenimenti degli ultimi trent'anni hanno scosso le convinzioni più radicate e l’ordine dello scacchiere, ristrutturando molti rapporti.

Il ricordo del nazismo, la comune miseria di uomini diversi, il comune asservimento di gruppi sociali importanti, la comparsa di «colonie europee», cioè l’istituzione, in piena Europa, di un regime coloniale, la presa di coscienza dei lavoratori dei paesi colonizzatori e razzisti, l’evoluzione della tecnica, tutto ciò ha modificato profondamente l’aspetto del problema.

Bisogna cercare le conseguenze di questo razzismo sul piano culturale.

Il razzismo, abbiamo visto, non è che un elemento di un contesto più ampio: quello dell’oppressione sistematica di un popolo. Come si comporta un popolo che opprime? Qui troviamo delle costanti.

Si assiste alla distruzione di valori culturali, di modi di vita. Si svalutano la lingua, l’abbigliamento, le tecniche. Come giustificare questa costante? Gli psicologi che tendono a spiegare tutto con i moti dell’anima, pretendono di reperire questo comportamento al livello dei contatti tra individui: critica di un cappello bizzarro, di un modo di parlare, di camminare...

Simili tentativi ignorano volutamente il carattere unico della situazione coloniale. In realtà le nazioni che intraprendono una guerra coloniale non si propongono un confronto tra culture. La guerra è un gigantesco affare commerciale e ogni prospettiva va ricondotta a questo dato. L’asservimento della popolazione autoctona, nel significato più rigoroso del termine, è l'esigenza prima.

Per far questo è necessario infrangere le sue coordinate mentali. L'espropriazione, il furto, la razzia, l'assassinio oggettivo si accompagnano al saccheggio di schemi culturali o quanto meno lo condizionano. L'ambiente sociale viene sconvolto, i valori dileggiati, calpestati, svuotati.

Le linee di forza, una volta crollate, non adempiono più alla loro funzione. Di fronte sta un nuovo sistema, non proposto ma imposto, reso apodittico dalla forza delle armi.

L'imposizione del regime coloniale non comporta di per sé la morte della cultura autoctona. Anzi, da un esame storico emerge che l'obiettivo voluto non è tanto la sparizione totale della cultura preesistente, quanto la sua agonia prolungata. Questa cultura che una volta era viva e passibile di sviluppi, si chiude, atrofizzata nello statuto coloniale, stretta nella morsa dell'oppressione. Il suo persistere in forma mummificata costituisce una testimonianza contro i colonizzati, li qualifica irrevocabilmente. La mummificazione della cultura produce quella del pensiero individuale. L'apatia, che tutti notano nei popoli coloniali, è solo la conseguenza logica di tale operazione. Rimproverare costantemente all'«indigeno» la sua inerzia è il colmo della malafede. Come se un uomo potesse evolversi in un contesto diverso da quello di una cultura che lo accetta e che egli ha deciso di far sua.

Si assiste così alla creazione di organismi arcaici, inerti, che funzionano sotto la sorveglianza dell'oppressore e ricalcano caricaturalmente delle istituzioni un tempo feconde.

Questi organismi esprimono apparentemente il rispetto della tradizione, delle peculiarità culturali, della personalità del popolo asservito. Questo pseudorispetto si identifica, in realtà, col più assoluto disprezzo e il più raffinato sadismo. La caratteristica di una cultura è di essere aperta, attraversata da linee di forza spontanee, generose, feconde. L'insediamento di «uomini di fiducia», incaricati di eseguire certi gesti, è una mistificazione che non inganna nessuno. Ecco perché le djemàa della Kabilia, istituite dalle autorità francesi, non vengono riconosciute dagli autoctoni. Al loro fianco c'è un'altra djemàa democraticamente eletta. Ed è naturalmente quest'ultima a dettare quasi sempre la linea di condotta della prima.

Ribadire costantemente il «rispetto della cultura delle popolazioni autoctone» non significa quindi riconoscere i valori insiti nella cultura e personificati dagli uomini. C'è invece in questo procedimento una volontà di oggettivare, di incapsulare, d'imprigionare, d'incistare. Frasi come «li conosco bene» oppure «sono fatti così», esprimono questa oggettivazione perfettamente riuscita. Conosco così i gesti e i pensieri che servono a definire questi uomini.

L'esotismo è una delle forme di questa semplificazione. Ne consegue l'impossibilità di qualsiasi confronto tra culture. Da un lato c'e una cultura alla quale si riconoscono qualità dinamiche, di sviluppo e di approfondimento. Una cultura in movimento che perennemente si rinnova. Dall'altro delle caratteristiche, delle curiosità, delle cose, mai una struttura.

In una prima fase, l'occupante instaura così il suo dominio e afferma brutalmente la sua superiorità. Il gruppo sociale militarmente ed economicamente asservito viene disumanizzato secondo un metodo pluridimensionale.

Sfruttamento, torture, razzie, razzismo, esecuzioni in massa, oppressione razionale si alternano a livelli diversi per trasformare letteralmente l'autoctono in un oggetto tra le mani della nazione occupante.

Questo uomo oggetto, senza mezzi per vivere, senza ragione d'essere, è spezzato nel più profondo del suo essere. Il desiderio di vivere, di continuare, diventa sempre più incerto, sempre più fantomatico. Compare a questo stadio il famoso complesso di colpa. Wright, nei suoi primi romanzi, ne fa una descrizione molto particolareggiata.

Gradualmente però l'evoluzione delle tecniche di produzione, l'industrializzazione dei paesi colonizzati, peraltro limitata, la necessità di allargare sempre più la cerchia dei collaboratori, impongono all'occupante un nuovo atteggiamento. La complessità dei mezzi di produzione, l'evoluzione dei rapporti economici che, si voglia o no, ha delle ripercussioni nel campo ideologico, creano uno squilibrio del sistema. Il razzismo volgare nella sua forma biologica corrisponde a un periodo di sfruttamento brutale dei muscoli del colonizzato. Il perfezionamento dei mezzi di produzione provoca fatalmente la mimetizzazione delle tecniche di sfruttamento dell'uomo e quindi delle forme di razzismo.

Se il razzismo perde la sua virulenza non lo si deve dunque a un'evoluzione mentale. Non c'è rivoluzione interiore che possa spiegare questa necessità per il razzismo di adottare sfumature ed evolversi. Dappertutto gli uomini hanno iniziato un processo di liberazione, scuotendosi dal letargo a cui l'oppressione e il razzismo li avevano condannati.

Nel cuore delle «nazioni civilizzatrici», i lavoratori hanno finalmente scoperto che lo sfruttamento dell'uomo, fondamento di un sistema, assume aspetti diversi. A questo punto il razzismo non osa più mostrarsi senza la propria maschera. Contesta se stesso. Aumentano sempre più le circostanze in cui il razzista si nasconde. Lui che pretendeva di «sentirli», di «indovinarli», si scopre preso di mira, osservato, giudicato. L'intenzione del razzista diventa allora un'intenzione ossessionata dalla cattiva coscienza. L'unica salvezza può venirgli da un impegno passionale quale si riscontra in certe psicosi. Uno dei maggiori meriti del professor Baruk (1) è di aver accuratamente analizzato la semiologia di questi deliri passionali.

Il razzismo non è mai un elemento accessorio, che salta fuori per caso nel corso di una ricerca sui dati culturali di un gruppo. La costellazione sociale e il contesto culturale sono profondamente modificati dalla sua presenza.

Si dice comunemente che il razzismo sia una piaga dell'umanità. Ma è una frase che non ci può soddisfare. Bisogna non stancarsi di cercare le ripercussioni del razzismo a tutti i livelli della socialità. L'importanza che il problema razziale ha nella letteratura americana è significativa. Il negro al cinema, il negro e il folklore, l'ebreo e le storielle per bambini, l'ebreo al bar, sono temi inesauribili.
Il razzismo, sempre per quel che riguarda l'America, ossessiona e vizia la cultura americana. Questa cancrena dialettica è esacerbata dalla presa di coscienza e dalla volontà di lotta di milioni di neri e di ebrei presi di mira da questo razzismo.

Tale fase passionale, irrazionale, senza giustificazione, mostra, quando la si esamini, un volto spaventoso. La mobilità dei gruppi, la liberazione di uomini precedentemente inferiorizzati, in certe zone del mondo, rendono l'equilibrio via via più precario. In modo abbastanza inaspettato il gruppo razzista denuncia la comparsa di un razzismo degli uomini oppressi. Al «primitivismo intellettuale» del periodo di sfruttamento si sostituisce il «fanatismo medievale per non dire preistorico» del periodo della liberazione.

A un certo punto si era potuto credere alla scomparsa del razzismo. Questa impressione euforica e artificiosa non era che la conseguenza dell'evoluzione delle forme di sfruttamento. Gli psicologi parlano allora di pregiudizio divenuto inconscio. La verità è che il rigore del sistema rende superflua la quotidiana affermazione di una superiorità razziale. La necessità di appellarsi, a diversi livelli, all'adesione, alla collaborazione dell'autoctono modifica i rapporti in forme meno brutali, più sfumate, più «colte». Non di rado si vede apparire, a questo stadio, un'ideologia «democratica e umana». L'impresa commerciale di asservimento, di distruzione culturale, a poco a poco cede il passo a una mistificazione verbale.

È un'evoluzione interessante, perché il razzismo viene assunto come tema di meditazione e a volte persino come tecnica pubblicitaria.

Così, il blues «lamento degli schiavi neri» è offerto all'ammirazione degli oppressori. Ritorna allo sfruttatore e al razzista un po' di oppressione stilizzata. Senza oppressione e senza razzismo, niente blues. La scomparsa del razzismo segnerebbe la fine della grande musica nera...

Come direbbe il troppo famoso Toynbee, il blues è una risposta dello schiavo alla sfida dell'oppressore.

Ancor oggi per molti uomini, anche di colore, la musica di Armstrong acquista vero significato solo in questa prospettiva.

Il razzismo altera e sfigura il volto della cultura che lo pratica. La letteratura, le arti figurative. le canzonette, i proverbi, le abitudini, gli schemi, sia che intendano processarlo oppure banalizzarlo, tendono comunque a riproporlo. Il che significa che un gruppo sociale, un paese, una civiltà non possono essere razzisti inconsciamente.

Ancora una volta affermiamo che il razzismo non è una scoperta casuale. Non è un elemento nascosto e dissimulato. Non occorrono sforzi sovrumani per evidenziarlo.

Il razzismo salta agli occhi proprio perché rientra in un unico contesto: quello dello sfruttamento spudorato di un gruppo di uomini da parte di un altro gruppo che ha raggiunto uno stadio di sviluppo tecnico più avanzato. Ecco perché l'oppressione militare ed economica quasi sempre precede, prepara e legittima il razzismo. Bisogna smetterla di considerare il razzismo come un atteggiamento mentale, come una tara psicologica.

Ma l'uomo che è vittima del razzismo, il gruppo sociale asservito, sfruttato e dissanguato come si comporta? Quali i suoi meccanismi di difesa?

Quali atteggiamenti vi scopriamo?

Abbiamo visto in una prima fase l'occupante legittimare il suo dominio con argomentazioni scientifiche e la «razza inferiore» negarsi in quanto razza. Preclusa ogni altra soluzione, il gruppo sociale asservito razzialmente tenta di imitare l'oppressore per derazializzarsi. La «razza inferiore» nega se stessa come razza diversa. Condivide, della razza superiore, le convinzioni, le dottrine e altri aspetti che la riguardano.

All'autoctono che ha assistito alla liquidazione dei suoi sistemi di riferimento, al crollo dei suoi schemi culturali, non resta che ammettere con l'occupante che «Dio non sta dalla sua parte». L'autorità dell'oppressore che assume un carattere globale e terrificante riesce a imporre all'autoctono un nuovo modo di vedere le cose, innanzitutto un giudici denigratorio delle sue forme originali d'esistenza.

Questo processo, comunemente chiamato alienazione, è naturalmente importantissimo. Nei testi ufficiali è designato col termine di assimilazione.

Ora, l'alienazione non è mai totalmente riuscita. Forse anche perché l'oppressore limita quantitativamente e qualitativamente l'evoluzione, compaiono fenomeni imprevisti ed eterocliti.

Il gruppo degradato era giunto ad ammettere, per l'implacabile evidenza del ragionamento, che le sue sventure fossero direttamente imputabili alle sue caratteristiche razziali e culturali.

Le solite conseguenze di questa dialettica sono il senso di colpa e d'inferiorità. L'oppresso tenta allora di sottrarvisi, da un lato proclamando la sua adesione totale e incondizionata ai nuovi modelli culturali, dall'altro condannando senza appello il proprio stile culturale. (Nota 1)  

Tuttavia, se a un certo punto l'oppressore avverte la necessità di mimetizzare le forme di sfruttamento, ciò non significa la sua scomparsa. I rapporti economici più elaborati, meno grossolani, esigono un continuo travestimento, ma l'alienazione a questo livello è spaventosa.

Dopo aver giudicato, condannato, abbandonato le proprie forme culturali, il linguaggio, l'alimentazione, i comportamenti sessuali, il modo di sedersi, di riposarsi, di ridere, di divertirsi, l'oppresso si avventa, con l'energia e la tenacia del naufrago, sulla cultura impostagli.

Sviluppando le sue conoscenze tecniche a contatto con macchine sempre più perfezionate, entrando nel circuito dinamico della produzione industriale, incontrando, nel quadro della concentrazione dei capitali e quindi dei luoghi di lavoro, uomini di altre terre, scoprendo la catena di montaggio, il reparto, i «tempi» di produzione e cioè il rendimento orario, l’oppresso constata con scandalo che nei suoi confronti il razzismo e il disprezzo persistono.

Ed è a questo livello che si fa del razzismo una questione di persone.

«C’è qualche razzista irriducibile, ma ammettete che nel complesso la popolazione nutre simpatia...».

Col tempo tutto sparirà.

Questo paese è meno razzista...

All’Onu c’è una commissione incaricata della lotta contro il razzismo.

Film sul razzismo, poesie sul razzismo, appelli contro il razzismo...

Condanne spettacolari e inutili del razzismo. La verità è che un paese coloniale è un paese razzista. Se in Inghilterra, in Belgio, in Francia, a dispetto dei principi democratici che queste nazioni professano, esistono ancora dei razzisti, sono proprio questi ad aver ragione contro l’intero paese.

Non è possibile asservire degli uomini senza conseguentemente ridurli allo stato di assoluta inferiorità. Il razzismo non è altro che la spiegazione emotiva, affettiva, a volte intellettuale di questo processo.

Il razzista in una cultura con razzismo è quindi un fatto normale. In lui l’adeguamento tra rapporti economici e ideologia è perfetto. Certo l’idea che ci si fa dell’uomo non dipende mai esclusivamente dai rapporti economici e cioè, non dimentichiamolo, dai rapporti storici e geografici esistenti tra gli individui e i gruppi. Aumenta via via il numero di persone appartenenti a società razziste che prendono posizione. Mettono la propria vita al servizio di un mondo in cui il razzismo sarebbe impossibile. Ma questo rifiuto, questa astrazione, questo impegno solenne non sono alla portata di tutti. Non si può pretendere impunemente che un uomo si schieri contro i «pregiudizi del suo gruppo».

Ora, lo ripetiamo, non c’e gruppo colonialista che non sia razzista.

Privato della sua cultura e costretto ad assimilare quella dell’occupante, l’oppresso continua a cozzare contro il razzismo. Questo processo gli appare illogico. Ciò che egli ha superato gli appare inspiegabile, immotivato, inesatto. Le sue cognizioni, l’acquisizione di tecniche specializzate e complicate, spesso la sua superiorità intellettuale nei confronti di molti razzisti lo inducono a definire passionale il mondo razzista. Si accorge che l’atmosfera razzista impregna qualsiasi elemento della vita sociale. Allora nasce vivissimo in lui il senso di una pesante ingiustizia. Dimenticando il razzismo-conseguenza ci si accanisce contro il razzismo-causa. Vengono lanciate delle campagne di disintossicazione. Si fa appello al senso umanitario, all'amore, al rispetto dei valori supremi.

ln realtà, il razzismo obbedisce a una logica implacabile. Un paese che vive e si mantiene sfruttando altri popoli deve porli in stato di inferiorità. Il razzismo applicato a questi popoli è cosa normale.

Il razzismo non è quindi una costante della mente umana.

È, come abbiamo visto, una tendenza insita in un determinato sistema. Il razzismo ebraico non è diverso dal razzismo nero. Una società o è razzista o non lo è. Non esistono gradi diversi di razzismo. Non ha senso dire che un certo paese è razzista, ma che non vi sono linciaggi o campi di sterminio. La verità è che in prospettiva può esserci questo e altro. Sono virtualità che circolano dinamicamente allo stato latente nelle relazioni psico-affettive ed economiche.

Scoprendo l'inutilità della sua alienazione, il suo progressivo depauperamento, l'oppresso, estraniato e privato della sua cultura, ritrova le sue posizioni di partenza.

Si immerge di nuovo appassionatamente nella cultura abbandonata, dimenticata, respinta, disprezzata. Vi è in lui un chiaro eccesso di entusiasmo che si ricollega psicologicamente al desiderio di farsi perdonare.

Ma dietro questa analisi schematica c'è l'intuizione di una verità che il colonizzato ha colto spontaneamente. Questa storia psicologica sfocia nella Storia e nella Verità.

E proprio perché l'oppresso ritrova uno stile che era stato svalutato, si assiste all'uso privilegiato della cultura. Una simile caricatura del fenomeno culturale significherebbe, se fosse necessario, che la cultura va vissuta nella sua integrità. Rifiuta i sezionamenti e le analisi di laboratorio.

Eppure l'oppresso va in estasi a ogni riscoperta, egli è in preda a uno stupore continuo. Costretto in passato a emigrare dalla sua cultura, si mette ora a esplorarla appassionatamente. Va continuamente a nozze. L'inferiorizzato di una volta è ora in stato di grazia.

Ma non si subisce impunemente una dominazione. La cultura del popolo asservito è sclerotizzata, agonizzante. La vita, quella poca esistente, è bloccata, o meglio dissimulata. La popolazione, che vive una vita a brandelli, che è ancora dinamica nei confronti delle istituzioni, è una popolazione anonima. Sono i tradizionalisti del regime coloniale.

L'ex emigrato suscita scandalo con l'improvvisa ambiguità del suo comportamento. Oppone all'anonimato del tradizionalista un esibizionismo violento e aggressivo.

Stato di grazia e aggressività sono costanti tipiche di tale stadio. L'aggressività è infatti il meccanismo passionale che consente di sfuggire al morso del paradosso.

Siccome l'ex emigrato conosce delle tecniche precise, siccome il suo livello di azione si situa nel quadro di rapporti già complessi, questi incontri assumono un aspetto irrazionale. Esiste un fossato, un divario tra lo sviluppo intellettuale, il bagaglio tecnico, le modalità del pensiero e della logica profondamente differenziate e una base emozionale «semplice», «pura» ecc.

Riscoprendo la tradizione, vivendola come meccanismo di difesa, come simbolo di purezza, come salvezza, il colonizzato dà l'impressione che la mediazione si vendichi sostanzializzandosi. Questo riflusso su posizioni arcaiche, senza rapporto con lo sviluppo tecnico, è paradossale. Le istituzioni così valorizzate non corrispondono più ai metodi d'azione elaborati e già acquisiti.

La cultura incapsulata, vegetativa dal momento della dominazione straniera in poi, è rivalutata. Ma non viene ripensata, ripresa, dinamicizzata dall'interno. La si grida ai quattro venti. E questa rivalutazione improvvisa, non strutturata, verbale, riveste aspetti paradossali. È a questo punto che si parla di carattere incorreggibile dei colonizzati. I medici arabi dormono per terra, sputano dappertutto ecc.

Gli intellettuali neri consultano lo stregone prima di prendere una decisione ecc.

Gli intellettuali «collaboratori» cercano di giustificare il loro nuovo atteggiamento. Costumi, tradizioni, credenze per il passato rinnegati o taciuti vengono valorizzati e sostenuti appassionatamente.

La tradizione non è più ironizzata dal gruppo. Il gruppo non sfugge più a se stesso. Si riscopre il senso del passato, il culto degli antenati...

Il passato, ormai costellazione di valori, s'identifica con la Verità.

Questa riscoperta, questa valorizzazione globale che ha un andamento quasi folle, insostenibile sul piano oggettivo, riveste una straordinaria importanza soggettiva. Uscendo da questo amplesso appassionato, l'autoctono avrà deciso con cognizione di causa di lottare contro ogni forma di sfruttamento e di alienazione dell'uomo. A questo punto l'occupante, da parte sua, intensifica gli appelli all'assimilazione, poi all'integrazione, alla comunità.

Il corpo a corpo dell'indigeno con la propria cultura è un'operazione troppo solenne, troppo brusca perché possa tollerare una qualsiasi incrinatura. Nessun neologismo può mascherare la nuova evidenza: il tuffo nell'abisso del passato è condizione e fonte di libertà.

La conclusione logica di questa volontà di lotta è la liberazione totale del territorio nazionale. Per realizzarla, il colonizzato adopera tutte le sue risorse, le sue conoscenze, vecchie e nuove, sue e dell'occupante.

La lotta diventa di colpo totale, assoluta. Ma allora non si vede affatto comparire il razzismo.

Al momento di imporre il suo dominio, per giustificare la schiavitù, l'oppressore era ricorso ad argomentazioni scientifiche. Qui niente di simile.

Un popolo che intraprende una lotta di liberazione raramente legittima il razzismo. Anche durante le fasi acute della lotta armata insurrezionale non si assiste mai all'accettazione a livello di massa di giustificazioni biologiche.

La lotta del colonizzato si situa a un livello decisamente più umano. Le prospettive sono radicalmente nuove. E la contrapposizione ormai classica tra lotte di conquista e di liberazione.

Nel corso della lotta, la nazione occupante tenta di riproporre argomentazioni razziste, ma l'elaborazione del razzismo si rivela sempre più inefficace. Si parla di fanatismo, di atteggiamenti primitivi di fronte alla morte, ma ancora una volta il meccanismo, ormai inceppato, non funziona più. I passivi di una volta, i vigliacchi per natura, i paurosi, i sottomessi di sempre si sollevano e insorgono.

L'occupante non capisce più.

La fine del razzismo comincia con un'incomprensione improvvisa.

La cultura contratta e rigida dell'occupante, liberata, s'apre finalmente alla cultura del popolo divenuto davvero fratello. Le due culture possono confrontarsi, arricchirsi.

Per concludere, l'universalità risiede in questa decisione di accettare la reciproca relatività di culture diverse, una volta abolito irreversibilmente lo statuto coloniale.”


(Nota 1) 
A volte compare a questo stadio un fenomeno poco studiato. Degli intellettuali, degli studiosi del gruppo dominante, studiano «scientificamente» la società dominata, la sua estetica, il suo universo etico. Nelle università quei pochi colonizzati intellettuali si vedono rivelare il loro sistema culturale. Può persino accadere che gli scienziati di paesi colonizzatori si entusiasmino per una determinata caratteristica. Compaiono allora i concetti di purezza, ingenuità, innocenza. A maggior ragione l'intellettuale indigeno deve stare in guardia.


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