Da: http://www.rivistapaginauno.it/ - Renato
Curcio è un saggista e sociologo italiano, tra i fondatori delle
Brigate Rosse.
Incontro-dibattito sul libro La società artificiale. Miti e derive dell'impero virtuale, di Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2017), presso il Csa Vittoria, Milano, 14 settembre 2017.
Controllo
sociale, lavoro e trasformazione del sistema politico
Il
lavoro di ricerca è sempre un lavoro teso su una corda, nel senso
che stiamo cercando di affrontare dei processi sociali nuovi, che ci
sorprendo perché, come abbiamo tentato di dire soprattutto nel primo
lavoro, L'impero
virtuale (1),
sono processi ad altissima velocità storica e sorpassano la nostra
capacità di adattamento. Il tempo, la storia, dell'Ottocento e del
Novecento, per rimanere negli ultimi due secoli, aveva un passo molto
più lento: il lavoratore del sud Italia che veniva a lavorare alla
Pirelli a Milano o alla Fiat di Torino, poteva arrivare anche digiuno
di quella che era una cultura del mondo del lavoro, sindacale, di
classe ecc., e aveva poi il tempo per entrare progressivamente nei
problemi che stava vivendo insieme ai diversi contesti che
attraversava e che erano abbastanza omogenei: i contesti urbani dei
quartieri, quelli di fabbrica, i contesti sociali più organizzati.
Oggi questo non c'è più. Oggi i tempi sono talmente violenti e
veloci che ci mettono di fronte a delle dinamiche che sono mondiali,
e che solo dieci anni fa non esistevano. Facebook, per esempio, che
nel 2007 entra come processo sociale non più riferito a un piccolo
gruppo di università, e dieci anni dopo raggiunge i due miliardi di
utenti. È quindi comprensibile che le persone che vi si sono
riversate lo vivano più esperenzialmente e intuitivamente che
avendone contezza e gli strumenti per leggere che cos'è, come
funziona, come funzionano loro stessi mentre utilizzano questo tipo
di strumenti.
Ne L'impero
virtuale dunque
abbiamo cercato di affrontare l'insorgere di questo tipo di processi
sociali, legati a una tecnologia particolare, che hanno sorpreso
abitudini, consuetudini, modi di leggere la realtà e di viverla in
tutti i campi: nel lavoro, nel consumo, nello svago, nella vita di
relazione.
Come
secondo passaggio ci siamo concentrati sul terreno del mondo del
lavoro, con L'egemonia
digitale (2),
cercando di capire come e fino a che punto gli sguardi che noi
avevamo - che derivano dalla storia dell'organizzazione del lavoro
che ha caratterizzato il Novecento, una discussione partita già
nell'Ottocento con Marx e la forte elaborazione di quali erano le
dinamiche profonde del modo di produzione capitalistico rispetto al
mondo del lavoro - reggevano nella nuova situazione.
Questi
due lavori ci hanno però messo in evidenza un loro limite, che
possiamo considerare ovvio in qualche modo perché erano approcci
nuovi, e che ritengo anche un valore: entrambi nascevano da
un'esperienza prevalentemente narrativa, all'interno di cantieri
sociali. Ci eravamo appoggiati alle persone che vivevano in modo
diretto nei luoghi più significativi dei processi che volevamo
guardare, e attraverso le loro narrazioni avevamo cercato di
costruire un territorio a partire dal quale fosse poi possibile
passare a un momento di analisi più profondo. Ma questo poneva il
limite della dimensione fenomenologica: le persone raccontavano
storie che erano emblematiche, sistemate attraverso una serie di
verifiche, ed è ovvio che se lavoratrici e lavoratori raccontano,
seppur con parole diverse, sempre la stessa storia, quella storia
diventa oggetto di una riflessione e ci consente di passare dalla sua
narrazione fenomenologica a individuarne le dinamiche più profonde.
È vero però che alcuni momenti della microfisica del potere delle
storie che raccontavano erano, da un punto di vista tecnologico,
talmente complessi e talmente banalizzati dalle parole con cui
venivano narrati, che spesso si aveva la sensazione di aver capito di
cosa si stava parlando e invece, andando poi a fondo, non era così
chiaro. E quindi in quest'ultimo lavoro, La
società artificiale, fatto
insieme a gruppi di persone che a Roma e a Milano hanno voluto
accompagnare questa riflessione e con incontri svolti su territori
specifici che poi vedremo, lo sforzo è stato cercare di andare a
vedere le dinamiche più profonde dei processi che avevamo
raccontato, esplorato e cercato di capire nei due lavori precedenti.
Per
farlo abbiamo utilizzato una metodologia rigorosa, ossia abbiamo
assunto un analizzatore, come si fa nel lavoro socioanalitico più
tecnico, a partire dal quale poter guardare questi processi, e
l'abbiamo selezionato per evidenza. Ora: le evidenze, dal punto di
vista anche della ricerca scientifica, sono molto importanti, si
parte da lì, bisogna poi però cercare di capire cosa sono.
L'evidenza da cui siamo partiti è un'evidenza fenomenologica che
tutti possiamo facilmente verificare: sempre più, in modo invasivo e
pervasivo, la nostra vita di relazione in tutti i campi, quindi
relazioni interpersonali, di lavoro, nel mondo del consumo, nello
svago, nelle dinamiche di gruppo, viene spezzata da una
intermediazione digitale, vale a dire da uno strumento che si
frappone tra una persona e l'altra. Voglio ricordare che la vita di
relazione è il fondamento della sociabilità, di quel tipo di vita
che noi chiamiamo società, che non è, ovviamente, un gruppo di
persone che stanno insieme, ma è un insieme di legami che tengono
insieme delle persone; quindi nella storia della nostra specie il
fondamento vitale dello stare insieme, delle comunità, dei popoli,
dei gruppi, delle dimensioni collettive, non riposa sulle
caratteristiche dei singoli ma sulla qualità dei legami che essi
istituiscono tra loro, senza i quali non ci sarebbe alcuna vita
sociale; saremmo chissà dove ma sicuramente non nel mondo delle
società umane, nel mondo che ha 3/400.000 anni, almeno 70.000 dei
quali rintracciabili, e che ha una profondità storica. La storia
dunque fino a oggi è storia di legami. Ebbene, l'intermediazione
digitale che viviamo ora è il fondamento di un passaggio
da relazioni tra
umani a connessioni tra
umani, vale a dire a un tipo completamente diverso del modo di stare
insieme rispetto alla storia della nostra specie.
Come
prima cosa prendiamo quindi atto che l'intermediazione è un evento
di rottura qualitativa nella
storia della specie, una rottura profonda nel modo di stabilire
rapporti perché li trasforma in connessioni, e quindi modifica il
piano caldo dello
stare insieme. Che non è solo un modo di dire, si riferisce proprio
a una temperatura corporea: se voi amate una persona, in un rapporto
corpo a corpo, la temperatura del vostro corpo aumenta, c'è
un'energia termica; se voi usate delle parole c'è un'energia sonora;
poi c'è un'energia di spazio, di luce, c'è la vicinanza, la
lontananza, la prospettiva... I legami sono materiali e sono basati
su energie, per cui se io li intermedio vado a mettere un 'paletto'
di cambiamento rispetto a un problema evolutivo che ci ha messo
decine di migliaia di anni per portarci qui.
Guardando
allora gli strumenti di intermediazione, lo smartphone è il feticcio
globale per eccellenza di quest'epoca, uno strumento che vedremo come
e perché consente di mettere in relazione persone a distanza ma
anche di consultare motori di ricerca, individuare la nostra
posizione all'interno di una città, pagare un acquisto, ordinare una
pizza ecc. Questo strumento, che è solo uno dei dispositivi di
intermediazione digitale, è diventato oggetto della nostra
riflessione.
Rispetto
ai due lavori precedenti, questo libro quindi comincia a dare un
frutto che ci potrà essere utile per approfondire ulteriormente.
Abbiamo cominciato a vedere che rispetto a tutti gli strumenti
elaborati da 70.000 anni a questa parte - dico 70.000 perché mi
reggo sui lavori dei paleontologici e degli archeologi che hanno
consentito di disotterrare, dalle viscere della storia e della terra,
gli strumenti utilizzati fino a qui in varie parti del mondo - questi
strumenti digitali hanno una caratteristica qualitativamente diversa.
Vi faccio un'analisi darwiniana, non quella elaborata da Marx, dai
materialisti, ma dagli antropologi. La storia degli strumenti è
stata quella di mediare delle abilità umane in modo da rendere
progressivamente possibile una trasformazione del mondo circostante:
abbiamo immaginato una selce, una pietra appuntita per tagliare la
pelle di un orso, la ruota per rendere possibile dei trasporti, la
scrittura per registrare dei conti ma nello stesso tempo per creare
una nave, per trasferire la memoria della cultura orale sulla pietra
di modo da fissare la parola, che è mutante e flessibile. Quindi
abbiamo costruito tanti strumenti che erano sempre strumenti di
mediazione di un immaginario, di una capacità, di una abilità,
rispetto a un ambiente o ad altri umani. Il tipo di relazioni e di
legami di cui accennavo sopra sono stati progressivamente arricchiti,
per cui si è passati dal nulla all'energia, dall'angoscia dell'altro
e del diverso a una mediazione più complessa, che era la parola, a
una più complessa ancora che era la scrittura, a una più complessa
ancora che erano le macchine, che è poi stato anche il macchinismo
industriale del Novecento. Fino a questo punto siamo sempre stati di
fronte allo stesso tipo di problema: lo strumento media un'abilità,
una capacità, e poi sarà di proprietà di qualcuno e allora ci
saranno delle lotte, ma qui non è questo il punto, mi interessa
portare l'attenzione sulla sua qualità. Con gli strumenti digitali
ci troviamo in un contesto completamente mutato: gli strumenti, pur
continuando a svolgere questa funzione, ne svolgono anche un'altra
che prima non esisteva e che li caratterizza: comunicano tra loro e
con delle piattaforme remote. Vale a dire che fanno un lavoro sul
lavoro, e ciò avviene all'insaputa di chi li utilizza.
Vi
racconto una storia, vera, che abbiamo registrato nei nostri
cantieri, per far comprendere cosa intendo. La chiameremo la storia
di Amalia, un'operatrice turistica. Un bel giorno l'agenzia per la
quale Amalia lavora tira fuori i risultati di una ricerca, svolta in
una determinata regione, che si proponeva di capire come si muovevano
i turisti in quella zona. Ebbene la ricerca era stata costruita non
interpellando degli umani ma monitorando gli impulsi e i messaggi
emessi dai dispositivi digitali dei turisti. In questo modo era stato
possibile distinguere i dispositivi che appartenevano alle persone
che vivevano in quella regione, e quindi escluderli, poi verificare
quanto tempo ogni turista restava in quella zona, quali alberghi
aveva scelto, quali luoghi visitato, quali consumi ecc. Un'intera
ricerca, che ha definito le politiche di un grande territorio
sociale, non ha dunque interpellato umani ed è stata fatta
esclusivamente monitorando, all'insaputa dei loro proprietari, il
movimento di smarpho-ne, tablet, palmari. È una storia importante
perché ci mette di fronte alla microfisica della nuove forme
sociali, che può essere sviluppata attraverso alcuni passaggi.
Innanzitutto
questi strumenti possono essere monitorati perché al loro interno
hanno un dispositivo tecnologico che si chiama 'sensore', ed è un
dispositivo particolare che consente di tradurre un suono, una luce,
una pressione, una temperatura, un evento qualunque che avvenga nel
mondo esterno, in una grandezza quantitativa misurabile e
trasmissibile, che noi conosciamo come 'dati'.
I
dati sono grandezze fisiche materiali che nascono da una misurazione
e da una traduzione operata in un linguaggio matematico, che è
l'unico linguaggio che possono capire le strumentazioni digitali,
fondato sul codice 1/0. Dobbiamo riflettere sul concetto di 'dati'.
Perché la retorica ufficiale è quotidiana, non passa giorno che i
giornali non scrivano "i dati ci dicono...". La parola
'dati', però, bisogna essere molto chiari su questo, non significa
nulla. Quando parliamo di dati non sappiamo affatto di cosa stiamo
parlando, per una ragione tecnologica ma soprattutto sociale: i dati
sono privati, brevettati, appropriati da una serie di agenzie o di
aziende che sono proprietarie dei dispositivi che noi utilizziamo.
Quando compriamo un Samsung o un Apple o un dispositivo digitale
qualunque e lo mettiamo in tasca, quello strumento genera dati
interni e trasformazioni continue del mondo esterno in informazioni,
che vengono trasmesse a piattaforme che non sappiamo neanche dove
siano nel mondo. È difficile saperlo anche perché vivono in un non
luogo che viene chiamato molto famigliarmente 'la nuvola', in un
sistema di server sparpagliati in giro per il mondo, forse per il
cielo, in un sistema di satelliti, ma non ha importanza; la cosa
fondamentale è che non sappiamo dove siano e quindi dove vadano a
finire le produzioni che, volenti oppure no, facciamo. Utilizzandolo,
quello strumento trasforma la tua voce, le immagini che inserisci, le
domande che fai su Google, le mail che spedisci, i gruppi WhatsApp a
cui partecipi, le applicazioni varie che utilizzi ecc. in un'infinità
di dati.
Abbiamo
poi gli algoritmi. Questi dati non servirebbero a nulla se non
fossero analizzabili, e a questo servono gli strumenti chiamati
algoritmi. Anche sugli algoritmi c'è una retorica diffusa e sembra
che si sappia esattamente di che cosa si parli, e invece è un
grandissimo mistero perché gli algoritmi di Google, Amazon, Facebook
ecc. sono brevettati, proprietari, non sono leggibili; possiamo
quindi fare un lavoro intuitivo, non di conoscenza.
Riassumendo:
i sensori, che non abbiamo inserito noi nel dispositivo e che non
controlliamo, trasmettono dati di tutti i tipi su ciò che facciamo,
questi dati si situano in non luoghi che sono proprietari, e sono
analizzati da degli algoritmi, sempre proprietari, per restituirci
qualcosa direttamente sui nostri strumenti, che può essere
pubblicità, induzioni, comandi e tante altre cose. Questo percorso,
che qui ho appena accennato, nel libro è raccontato in modo più
tecnico, per chi è interessato a capire bene come funzionano queste
cose.
Qui
però mi interessa sviluppare l'implicazione sociale e politica di
questi processi, e la dimensionerò su tre territori: controllo
sociale, lavoro e trasformazione del sistema politico.
L'aspetto
del controllo sociale è estremamente importante perché ci riguarda
tutti. Lo vediamo anche attraverso alcune parole che si sono
lentamente insinuate nel linguaggio corrente, man mano che il sistema
politico elaborava le tecnologie per realizzarlo. Per esempio la
parola 'radicalizzazione'. Chiunque ci ragioni per cinque minuti
capisce che questa parola non vuol dire assolutamente nulla, a meno
che non la si voglia significare decidendo qual è, di quel processo,
il punto che va bene; dopo di che dirò che il signor Rossi, rispetto
a ciò che a me va bene, si sta radicalizzando, vale a dire sta
assumendo degli atteggiamenti che non mi vanno bene. Radicalizzazione
è quindi una parola che misura un potere unilaterale che viene
dall'alto. Ecco allora che i dati diventano interessanti, quelli che,
seguendo il linguaggio comune dei giornali, chiameremo Big
data -
un'altra espressione che non significa niente, basta ragionarci un
momento: Bigè
una parola inglese che indica una dismisura, enorme, moltissimo,
e data è
una parola latina che sta per 'fatti'. Ora: se volessimo andare ad
analizzare l'espressione da un punto di vista strettamente semantico,
non solo dunque diremmo che non significa nulla ma anche che è un
trucco, perché che si possa analizzare dei fatti utilizzando
dei dati, che sono delle grandezze numeriche,
è un'idiozia assolutamente falsa.
Noi
siamo all'interno di un pensiero storico, dialettico, che ci ha
abituato a pensare i processi sociali come processi,
appunto, non come fatti: ossia come rapporti che si misurano
attraverso una lotta, una difesa, una resistenza, un'aggressione. I
processi sociali sono questo, sono sempre stati il contendersi dei
territori all'interno dei quali i rapporti sociali sono gerarchici.
Quindi è ovvio, per esempio, che qualcuno cerchi di imporre un ritmo
di lavoro e qualcun altro cerchi di resistergli; se raccontassimo il
lavoro eliminando questa contesa, cosa ci capiremmo mai? Ma adesso
abbiamo insigni scienziati, che scrivono libri importanti,
raccomandati in molte università, nei quali si afferma che l'analisi
sociale si può fare grazie ai Big data, cioè alla quantità di dati
che oggi possono essere raccolti, e può essere trasformata in una
fisica sociale, vale a dire in una lettura numerica e quantitativa
dei processi.
Questo
passaggio è importante, perché i computer possono elaborare queste
grandezze fisiche e possono quindi trasformare la lettura dei
processi in una curiosa pretesa,
quella di indovinare il futuro, di leggerlo: attraverso l'analisi dei
Big data posso leggere i processi sulla base delle loro probabilità
di avverarsi. Vale a dire: se monitorizzo attentamente Luigi, grazie
a tutti i dati che produce, posso tirare le somme e dire che,
rispetto ai suoi orientamenti, potrebbe essere tentato di
radicalizzarsi e dunque diventare un militante di una pericolosa
organizzazione politica. L'analisi su cui lavora tutto questo mondo,
da un punto di vista propriamente metodologico, è quella
probabilistica, ed è un'analisi che confina
il possibile nel probabile;
ma il punto è che il possibile ha la caratteristica fondamentale di
non essere probabile. Il processo che genera un'invenzione rompe
tutte le probabilità. È un fatto nuovo, e l'ingresso nella storia
dei processi sociali più radicali avviene a un certo punto, non
prima e non dopo, perché una combinazione di legami, tensioni,
discussioni, pratiche, reazioni e controreazioni genera in un
particolare contesto una rottura delle probabilità di stabilità;
fino al giorno prima tutto veniva mediato, da quel giorno qualcosa è
saltato. Quindi la rottura della probabilità è la logica
dell'invenzione, della rivoluzione, del cambiamento; se fosse tutto
probabile noi saremmo semplicemente dei fantocci che esprimono nel
presente una realtà passata, che ha prodotto come probabilità quel
comportamento, ma noi, per fortuna, possiamo smentire le probabilità.
E questo è un punto molto importante perché proprio qui si gioca
l'idea del cambiamento del mondo o della sua perpetuazione
all'interno del modo di produzione capitalistico. Quindi il controllo
sociale sulla base delle probabilità cerca di ingabbiarci e
convincerci che il mondo funziona sulla base delle probabilità.
Per
quanto riguarda il territorio del lavoro, grazie a questi strumenti
siamo a un passaggio enorme: dal taylorismo - che è un po' la
filosofia di massima generale del capitalismo nella sua fase avanzata
- a una fase post tayloristica, caratterizzata dalla sostituzione
degli strumenti meccanici di mediazione del lavoro fino a qui
utilizzati, con gli strumenti digitali. Analizziamo tre fenomenologie
comuni di questo cambiamento.
La
prima possiamo chiamarla la fenomenologia dei guinzagli elettronici.
L'abbiamo evidenziata prevalentemente ne L'egemonia
digitale,
nel quale raccontavamo la storia del lavoratore della Leroy Merlin
che un giorno si trova davanti un bracciale, e dal momento in cui lo
indossa il dispositivo inizia a trasmettere qualsiasi tipo di dati: i
movimenti del lavoratore nel reparto, i tempi che impiega per
compiere un'operazione ecc. In tempo reale, sempre sul display del
bracciale, il lavoratore riceve le informazioni su come deve
correggere il suo lavoro, se lo deve accelerare, ritardare, quali
parti deve svolgere, qual è il livello di produttività che in quel
momento lo caratterizza e se quel livello corrisponde o meno alla
produttività attesa dall'azienda: se corrisponde l'azienda gli dà
un feedback positivo e dei punti, se è al di sotto gli toglie punti.
Nasce dunque questo gioco terribile del tenere in mano il lavoratore
attraverso una piattaforma remota. Questa è una storia vera, e i
bracciali sono in uso alla Leroy Merlin in tutta Italia ed Europa, ma
sono centinaia di migliaia oggi le persone che lavorano con guinzagli
elettronici di questo tipo, perché con il passare del tempo sono
arrivati anche in altri territori. L'Acea, per esempio, a Roma, la
Publiacqua a Firenze, aziende rispetto alle quali il governo stesso
ha investito miliardi per riconvertire l'organizzazione del lavoro
all'interno di una digitalizzazione spinta, con il risultato di avere
moltissimi lavoratori che non riescono a svolgere i propri compiti
all'interno degli schemi algoritmici costruiti da questi strumenti.
Senza dimenticare l'implicazione sulla salute e quella
sull'esclusione sociale.
La
seconda fenomenologia ce l'hanno mostrata i lavoratori di Foo-dora,
nel territorio che è quello della consegna a domicilio di cibo e che
lavorano in un combinato che è smartphone/piattaforma. È un
combinato importantissimo, intanto perché lo smartphone è il loro,
e quindi lo strumento di lavoro ce lo mette il lavoratore, poi perché
elimina completamente decine e decine di anni di lotte sul tempo di
lavoro. Per questi lavoratori infatti il tempo di lavoro è
determinato strettamente dal tempo di produttività, dal lavoro reale
che essi svolgono, e che è monitorato direttamente dalla piattaforma
e dal loro smartphone. Ciò significa che il tempo di attesa tra una
consegna e l'altra, che è tempo necessario allo svolgimento just
in time del
lavoro, non viene assolutamente preso in considerazione. E abbiamo
una sempre più estesa quantità di lavoratori all'interno di questo
combinato smartphone/piattaforma, nel mondo dei trasporti, della
logistica ecc.
La
terza fenomenologia entra nel territorio della robotica, e devo
ringraziare i lavoratori di Pomigliano, di Cassino, di Torino, del
Lazio, che hanno lavorato con noi e ci hanno raccontato com'è il
lavoro nelle linee robotizzate. Le retoriche ricorrenti sui robot
sono due: una afferma che alleviano la fatica, e quindi bene che ci
siano, alleggeriranno lo strazio e la sofferenza del lavoro; la
seconda sostiene che se è vero che i robot eliminano un po' di forza
lavoro, tuttavia costruiscono i presupposti per nuove figure
lavorative. Ebbene, sia su base diretta che di letteratura corrente
qualificata, penso di poter dire che sono due retoriche entrambe
false.
Innanzitutto
perché nel modo del lavoro robotizzato avviene un passaggio
terribile, che è quello della gestione del tempo e dello spazio del
lavoro da una metrica cronometrica, basata sul tempo del lavoratore
più veloce ma pur sempre cronometrata sugli umani, a una procedura
algoritmica, dove sono i robot che definiscono il tempo del movimento
delle linee in cui si lavora. E lo definiscono anche per gli spazi
vuoti, perché la presenza di umani, non essendo eliminabile
completamente dalle dimensioni di produzione, deve coprire i buchi
robotici, là dove i robot non sono in grado di operare. Sia a
Cassino che a Pomigliano, per esempio, i lavoratori fanno tre
movimenti soltanto, concepiti all'interno del movimento dei robot, e
hanno 50 secondi per farli, e in questo modo il tempo si è
totalmente saturato.
Ma
ciò che mi interessa mettere in evidenza sono due aspetti. Il primo
è che il tempo di lavoro ha cambiato registro ed è diventato un
tempo algoritmico, costruito su una progettazione di produttività
complessiva all'interno della quale il movimento degli umani non è
contrattabile: si può fare solo così. Il secondo è che proprio per
questo, il tempo medio di vita lavorativa di un lavoratore è di tre
anni. Ora: quando voi comprate un'auto, l'avete garantita per cinque
anni. L'auto ha un tempo di vita garantito dall'azienda superiore al
tempo di vita di chi ci lavora. E infatti la contrattualistica di
tutte le aziende robotizzate prevede la possibilità di dimensionare
i contratti in modo che poco prima della scadenza dei tre anni il
lavoratore sparisce dalle linee.
Questo
ci dice una cosa molto seria, che ora mi limito ad accennare ma spero
il prossimo anno di poterla presentare: oggi vediamo che nei
laboratori di ricerca militare si stanno studiando i soldati
potenziati, vale a dire soldati che hanno la possibilità di operare
al di sopra del tempo fisiologico. Se la nostra vista è dieci
decimi, possiamo immaginare una modificazione tecno-genetica che la
porti a dodici, ed è qualcosa che già esiste: ora molti soldati in
campo di battaglia hanno una vista di dodici decimi, vedono di notte.
Esistono già soldati Nato e dell'esercito americano che sono in
grado di non dormire per quattro/cinque giorni, grazie a una modifica
genetica che consente di alterare il ritmo biologico della veglia e
del sonno; esistono soldati in grado di resistere a
quat-tro/cinque/sei giorni di tortura, perché non sentono il dolore,
grazie a una specie di anestetico, non chimico ma tecno-biologico. Il
problema di cui nessuno sta parlando è quello dei lavoratori
aumentati, potenziati. Perché se devo portare avanti una produzione
in cui lavoratori umani mi serviranno sempre, a un ritmo sempre più
alto, avrò bisogno di ridurne il numero il più possibile, per
pagarli meno, e quindi potenziare la loro capacità di resistenza
alla fatica. Se pensate che sia un'esagerazione, chiedete ai medici
del lavoro. È un aspetto che abbiamo affrontato in Mal
di lavoro,
che racconta come uno dei problemi oggi più terribili e poco
conosciuti sia la farmacologizzazione del mondo del lavoro: abbiamo
già una grandissima quantità di lavoratrici e lavoratori che per
stare nelle tempistiche di queste nuove organizzazioni del lavoro si
imbottiscono di psicofarmaci. Ecco quindi che il problema del lavoro
robotizzato ci mette di fronte a queste realtà a e doverle
raccontare, perché entro pochissimi anni più del 60% di tutte le
professioni verrà robotizzato.
Come
terzo territorio abbiamo la trasformazione del sistema politico in un
sistema elettorale. L'Ottocento e il Novecento sono stati secoli in
cui si sono aperti grandi conflitti, perché c'erano posizioni legate
a interessi e forme culturali che ci portavano da qualche parte:
c'era il fascista, il comunista, il socialista, l'anarchico, c'era
una fede o una cultura politica e una strategia, che faceva sì che
persone che la esprimevano, la incorporavano, la rappresentavano, la
vivevano quotidianamente, si presentassero anche al mondo sociale per
dialettizzare la loro posizione e chiedere consensi oppure divieti.
La trasformazione la si vedeva attraverso uno scontro di interessi
mediati da forme culturali che assumevano una forma politica, che si
poteva confrontare nel Parlamento oppure poteva esplodere in una
rivoluzione. Ebbene, questo non c'è più. I partiti esistono ancora
ma sono diventati trasversali, non sono più centrati su un punto di
vista di una fede e una cultura politica, che non esiste più perché
non è più necessaria. Se oggi qualcuno è in grado di recuperare
milioni di dati sui profili individuali di ciascuno di noi, visto che
già solo con uno smartphone in tasca tutti li produciamo
abbondantemente, perché mai darsi la pena di avere una fede
politica? Il problema diventa semplicemente costruire un sistema di
algoritmi che mi dica dov'è ognuno di noi, quindi passare da uno
sguardo di gruppo a uno sguardo individuale, profilare ogni persona e
poi studiare delle strategie semantiche per intervenire singolarmente
sul suo dispositivo - caso mai attraverso dei robot, che si
chiamano chatbot,
e altre tecniche - per dargli ragione. È la tecnica più efficace.
Questo è ciò che viene insegnato oggi nelle università, ma
soprattutto ci sono grandi agenzie che lo implementano. Le due
recenti campagne elettorali americane, di Obama prima e di Trump
successivamente, sono state costruite da pool di scienziati e da
agenzie, la Cambridge Analytica in particolare - la più grossa
agenzia del mondo che lavora su cento Paesi raccogliendo i dati di
tutti gli elettori di ciascun Paese - che lavorano tutto l'anno sui
profili politici ed emozionali, in modo da poter intervenire con
'giochi' - che sono gli stessi, sul piano mercantile, che applica
Amazon quando comprate i prodotti - sulle convinzioni di ognuno, per
dargli ragione nel nome e nel quadro di un soggetto politico.
Questa
trasformazione è in atto anche in Italia, la vediamo nelle
fenomenologie ma anche attraverso un curioso fenomeno, che
attualmente è molto piccolo per un verso e anche molto fragile per
un altro, che tuttavia è particolarmente significativo, ed è la
Casaleggio Associati. Di fatto è un'azienda che, come la Cambridge
Analytica, produce campagne di questo genere, basta andare sul sito e
vedere cosa vende. La cosa interessante è che in Italia questa
tecnologia è stata sperimentata attraverso una forma apparentemente
politica, che è quella del Movimento 5 stelle. La combinazione di
questi due aspetti è stata analizzata da alcuni centri di ricerca
internazionali - li cito nel libro di modo che sia ben chiaro che non
sto facendo un discorso politico sui 5 Stelle, non è quello che mi
interessa fare, ma focalizzarmi su questo aspetto. In Italia è stata
applicata un'evidente trasformazione del sistema politico in un
sistema di gestione degli elettori. La Piattaforma Rousseau è
diventata oggetto di studi in molte università in Europa, sono in
contatto con alcuni ricercatori che sono incuriositi dal fatto che in
Italia non ci sia alcuna consapevolezza di ciò, nonostante sia
evidente. Anche per stessa dichiarazione della piattaforma: se si
leggono i documenti, è chiaramente scritto che Rousseau è una
piattaforma di profilazione delle persone che aderiscono, o che
cascano in questo tipo di cattura di quello che è un potenziale
elettorato, né di destra né di sinistra. Vale a dire un elettorato
gestito sulla base dei propri dati: cosa pensi, e vediamo come lo
possiamo combinare rispetto a un intervento elettorale che faccia
ottenere quel risultato che interessa ai partiti elettorali, cioè
andare al governo.
Voglio
concludere con quattro punti, che costituiscono per un verso la
conclusione del lavoro che ho presentato, ma per un altro aprono un
terreno che voglio enunciare, in modo che sia ben chiaro dove va a
parare questo tipo di discorso; è un terreno sul quale penso di
dover lavorare il prossimo anno, perché è inquietante e terribile.
Lo definirei la formazione di un totalitarismo digitale, vale a dire
la trasformazione del sistema politico non solo in un sistema
elettorale, ma in un non
sistema politico,
ossia in una gestione dell'elettorato, dei cittadini, attraverso i
Big data. È un processo già in corso e molto avanzato, e che
configura un nuovo tipo di totalitarismo perché è senza dittatore,
senza simboli, o meglio, i simboli diventano quelli dei grandi
marchi, Microsoft, Apple, Google, Samsung... le grandi strutture che
hanno in mano i tre sistemi operativi che gestiscono oggi 3,5
miliardi di smartphone. Possiamo dire che questa è la prospettiva
per evidenze fenomenologiche molto forti.
La
prima è che l'intermediazione digitale cresce, crescono i dati,
cresce la concentrazione capitalista, una crescita che alcuni
definiscono esponenziale, sicuramente è smisurata, e quindi la
potenzialità di intervento di appropriazione dei dati sarà sempre
maggiore.
La
seconda è che non siamo di fronte semplicemente a una crescita di
dispositivi e dati, ma anche di disuguaglianze sociali. La
concentrazione capitalistica aumenta in pochissime aziende, che hanno
non solo i più alti fatturati ma anche i più bassi livelli di
occupazione, e anche il pa-droneggiamento della ricerca scientifica
su questi dispositivi; hanno praticamente in mano le sorti di questo
processo. Vorrei fosse ben chiara una cosa: crescita delle
disuguaglianze significa polarizzazione di classi. Quello che vediamo
non è lo sparire delle classi ma il suo polarizzarsi. Come ha detto
Warren Edward Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo, la
lotta di classe esiste eccome, e l'hanno vinta sostanzialmente queste
grandi strutture; ci sono riuscite perché riescono a nasconderla, a
mascherarla, a presentarsi come interclassiste, come forze legate
alla tecnologia, alla scienza. Naturalmente la variabilità delle
figure del Novecento sta cambiando, ma vorrei solo ricordare che Marx
l'ha scritto in molte opere che la variabilità del lavoro è
semplicemente in funzione degli strumenti tecnologici che si mettono
in atto; non è che il mondo capitalistico è quello in cui c'era la
borghesia industriale e il proletariato di fabbrica, questa è una
banalizzazione, un'ingiuria nei confronti dell'analisi marxista, che
ha sempre sostanzialmente riconosciuto che le classi si determinano
nella loro variabilità,
parola di Marx, e nella loro consistenza, a seconda dell'andamento
del processo del modo di produzione capitalistico.
Ora
insieme alla variabilità e alla consistenza vediamo anche un aumento
straordinario della produttività delle parti di lavoro vivo che
restano, e soprattutto un fenomeno nuovo, inquietante, che è la
produzione di una nuova categoria di esclusi sociali; non è
l'equivalente del sottoproletariato di un tempo, i diseredati, ma
sono gli esclusi digitali. Oggi all'Acea i lavoratori che hanno
cinquant'anni se ne vanno per disperazione; a Roma un lavoratore si è
suicidato lasciando una precisa lettera in azienda, nella quale ha
scritto che ha lavorato lì per quarantanni e poi si è trovato a
dover fare i conti con tablet, Gps, strumenti di tutti i tipi, che
poteva anche imparare a utilizzare, ma il punto è che non solo non
aggiungevano niente al suo lavoro ma gli impedivano di farlo, e
spiegava le ragioni. Le persone che non si digitalizzano vengono
quindi buttate fuori dal mondo del lavoro, quasi con vergogna, come
non fossero all'altezza delle nuove tecnologie, e invece si tratta di
fare conti violentissimi con delle abilità lavorative che vengono
annientate per un unico motivo, pagare meno o addirittura nulla il
lavoro. Perché oggi, ed è un altro aspetto, noi produciamo
gratuitamente lavoro gratuito, con le nostre domande a Google, quello
che carichiamo su Facebook ecc., miliardi e miliardi di dati che
hanno portato Zuckemberg in dieci anni dall'essere uno studente di
università a uno degli uomini più ricchi del mondo. Quindi anche
rispetto alla teoria marxista classica, sarebbe interessante
sviluppare un aggiornamento, per vedere come al pluslavoro, che resta
l'elemento centrale su cui si sviluppa lo sfruttamento capitalistico,
si aggiunge un plus di dati che genera valore, e che costituirà la
base della polarizzazione di classe.
Ci
sono poi altri problemi che si possono intuire facilmente: se la
concentrazione capitalistica si organizza intorno a un pool di
aziende, a un'oligarchia digitale mondiale, nasce anche un problema
relativo alle sovranità nazionali: che senso ha oggi parlare di
Stati e nazioni? Aziende private producono dispositivi digitali
secretati per parlamentari, ministri, potentati di varia natura;
producono sistemi elettorali elettronici, come quello utilizzato
nelle ultime elezioni in Kenia e che è stato elaborato da un'azienda
francese. Tutto questo si va a incastonare sulla trasformazione dei
sistemi politici in sistemi elettorali.
Terzo
e ultimo punto, infine: questo processo è sostenuto da un fortissimo
movimento culturale, che oggi attraversa le più importanti
università del mondo, e si chiama transumanesimo. Ridotto
all'essenziale e nella sua dimensione atroce, il transumanesimo
afferma che questa intermediazione digitale non solo è
inarrestabile, ma è positiva, perché sta sempre più collegando i
singoli cittadini, lavoratori, consumatori, ad apparati di
intelligenza transumana, che sono le macchine di intelligenza
artificiale, e più ci connetteremo più avremo vantaggi. Le stiamo
già utilizzando, quando poniamo una domanda a Google, nei sistemi di
scrittura, per muoverci all'interno di una città che non conosciamo
con un Gps ecc. Sistemi di intelligenza artificiale che sono in mano
ad aziende private, e che ora sono esterni ai corpi ma già esiste
un'azienda in Svezia, la Epicenter, e un'azienda americana che gli fa
da controcanto, che stanno lanciando l'implementazione di dispositivi
digitali incorporati sottopelle: chip con i quali i lavoratori aprono
la porta dell'ufficio, senza più dover avere il badge e gestiscono i
loro strumenti. Che significa, in pratica, che riducono il loro tempo
di lavoro, e dunque aumentano la loro produttività. Per questo tale
processo verrà sempre più implementato e darà origine, come dicono
i transumanisti, a un'inesorabile e inevitabile passaggio,
dall'homo sapiens,
che è la nostra specie fin qui, a un oltre
uomo,
digitalizzato, implementato, in relazione diretta con i sistemi di
intelligenza artificiale. Certo qualcuno non si adatterà, non lo
vorrà, peggio per lui perché sarà una sottoclasse.
Questo
è il punto su cui si affaccia oggi non una capacità di
documentazione, ma una necessità di studio e di approfondimento in
tutti i campi della vita sociale. Studio e approfondimento e lavoro
collettivo che non hanno come obiettivo una maggiore conoscenza, ma
una capacità di auto-organizzazione per invalidare il principio che
il progresso sociale si identifica con l'implementazione tecnologica.
L'anno scorso avevo lasciato questo incontro dicendo che eravamo di
fronte a una domanda: in che rapporto sta questa innovazione
tecnologica con l'idea storica di progresso? Il passo che oggi mi
sento di problematizzare è proprio questo: ora io sono assolutamente
convinto che siamo di fronte a una divaricazione netta tra
l'innovazione tecnologica e il progresso sociale. Oggi il progresso
sociale deve riprendere in mano seriamente la questione dei legami,
vale a dire la questione della capacità di vivere in modo evoluto
insieme, e quindi deve accoppiare l'idea di classe all'idea di
specie. Oggi lotta di classe è la possibilità di evitare a questa
specie una terribile deriva, che è la deriva robotica e, come dicono
alcuni, cyborg, dei cittadini e di questa nostra futura società.
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