Premessa
Grande scandalo e turbamento ha suscitato nella grande
stampa e nei canali televisivi internazionali la devastazione e distruzione
portata avanti dai tanto vituperati terroristi dell'Isis o Daesch, che
dir si voglia. Esecrazione ovviamente del tutto condivisibile, giacché comporta
la distruzione di monumenti che costituiscono un patrimonio di valore
inestimabile, che documenta il lato migliore della purtroppo drammatica storia
dell'umanità, e che ci consente di ricostruire criticamente fasi storiche ormai
appartenenti al passato, anche se, in molti casi, la loro influenza è ancora
operante nel presente.
Per esempio, La
Stampa del 5 ottobre 2015 descrive, anche con l'ausilio di un
video, la distruzione dell'arco di trionfo a Palmira [1], costruito circa 2.000
anni fa e letteralmente polverizzato con l'esplosivo.
Ma come spiegare tanta ferocia iconoclasta e tale carica di
assurda distruttività, in un mondo che, almeno a parole, predica il valore
della differenza e la necessità di rispettarne le manifestazioni? Ci viene in
soccorso Il
Fatto quotidiano del 23 giugno 2015, il quale sottolinea che, in
realtà, i jihadisti non abbattono con la loro furia devastatrice tutti i
monumenti del passato, ma scelgono solo i simboli legati a figure divine o
sacre considerate in contraddizione con la loro fede, come per esempio due
mausolei islamici, situati sempre nel sito di Palmira, o le statue dei due
Budda di Bamiyan, distrutte nel 2001 in Afghanistan dai Taliban. A tale
osservazione Il Fatto quotidiano aggiunge che tale “modus
operandi nasce da una degenerazione delwahabismo, corrente
islamica di origine saudita che predica un ritorno alla “purezza” e al rigore
originale riguardo ai testi sacri, in opposizione alla “cultura corrotta”
contemporanea, e che ha ispirato la distruzione di simboli di culto da parte di
gruppi fondamentalisti”.
Per formulare un giudizio più equilibrato su tali fatti
certamente sconcertanti e per evitare di suscitare un semplicistico e puramente
emotivo rigetto di queste condannabili pratiche, mi sembra opportuno citare un
celebre passo tratto dal saggio che Michel de Montaigne (1533-1592)
dedica ai cannibali brasiliani, i cui costumi compara acutamente alle pratiche
di tortura impiegate dagli europei nel clima arroventato delle guerre di
religione, a lui contemporanee. Scrive Montaigne: “Non sono contrario a che si
sottolinei l'orrore barbarico contenuto in una tale azione [2], ma mi oppongo
decisamente al fatto che noi, mentre giudichiamo dei loro difetti,siamo
ciechi nei confronti dei nostri” (cit in Gliozzi G., La scoperta
dei selvaggi. Antropologia e colonialismo da Colombo e Diderot, Milano, p.
128; corsivo mio). Ed è precisamente questo l'aspetto che mi preme sottolineare
(siamo ciechi nei confronti dei nostri difetti), articolando il mio
ragionamento in più punti e mostrando che ci siamo dimenticati di come abbiamo
fatto assai spesso tabula rasa di tutte quelle pratiche e
credenze, nelle quali le potenze coloniali si sono imbattute, perché
considerate del tutto contrarie ai “fondamenti” della (nostra) civiltà.
In primo luogo, anche se tale atteggiamento “radicale” era
concretamente esistente ed operante in alcune correnti delle religioni monoteistiche
ed universalistiche [3], mi sembra opportuno ricordare che si comincia a
parlare di fondamentalismo (termine che si impiega assai spesso per indicare
talune tendenze dell'islamismo), tra le fine del XIX e l'inizio del XX secolo
in ambito protestante, nel quale si individuano una serie di elementi
fondamentali dai quali non si può derogare, in primis l'inerranza
della Bibbia [4]. E ciò in opposizione alle correnti teologiche liberali e
critiche che auspicavano ed auspicano un'interpretazione modernizzante della
tradizione religiosa e il suo adeguamento alle trasformazioni sociali subite
dalla società nel corso del tempo. Questi gruppi fondamentalisti protestanti
combatterono e combattono tuttora la concezione evoluzionistica della specie
umana, giacché la ritengono in contraddizione con la dottrina della creazione
presente nella Bibbia. Come si vede, dunque, è proprio in ambito cristiano che
il fondamentalismo si trasforma da atteggiamento inconsapevole e acritico in
attitudine cosciente e belligerante.
Accanto a questa accezione più ristretta e tecnica, si parla
di fondamentalismo anche in senso lato [5] per indicare tutti quei movimenti
che hanno basi culturali e religiose ma che presto si sviluppano anche sul
piano sociale e politico (si pensi aineocon statunitensi), che
propongono e cercano di imporre anche ai non credenti o agli appartenenti di
altre religioni, spesso con la forza, quei principi e quelle pratiche che
considerano come fondative della loro fede e dottrina. In questo senso, per
esempio la Enciclopedia Treccani on line alla voce
“fondamentalismo” menziona anche il fondamentalismo ebraico [6] e quello
islamico, oltre a quello cristiano.
Nel caso della Chiesa cattolica - che, come vedremo, per
certi aspetti in epoche passate ha adottato atteggiamenti assai simili a coloro
che distruggendo gli “idoli” si sono proposti di estirpare con la violenza le
fedi ritenute impure - si parla più comunemente di integrismo; con
questo termine ci si riferisce a quell'atteggiamento proprio di alcuni settori
cattolici, che operano affinché i principi della loro fede siano applicati a
tutte le sfere della vita sociale, come abbiamo potuto sperimentare in Italia
nel caso del divorzio e dell'aborto.
D'altra parte, la Chiesa cattolica si differenzia dal
protestantesimo fondamentalista per la posizione che assume nei confronti delle
Sacre Scritture, i cui contenuti letterali non accetta come indiscutibili in
tutte le loro parti, ma allo stesso tempo affida al magistero del Papa,
supportato dallo Spirito Santo, la corretta e veritiera interpretazione del
testo ispirato dalla divinità.
Quello che voglio mettere in risalto con tale breve premessa
è che il fondamentalismo religioso, che caratterizza in forma violenta e
aggressiva l'Isis, ahimè, non è estraneo alla nostra cultura e tradizione;
ossia non è qualcosa d'altro rispetto a noi, non è una bestia bizzarra e
mostruosa, ma è profondamente radicato in molti settori della nostra cultura e
della nostra stessa strategia politica, se utilizziamo “nostro” nel senso di
società euro-americana.
Ma entrerò più nel dettaglio nella parte seguente dedicata
alla cosiddetta “estirpazione dell'idolatria”, di cui probabilmente
discutono solo gli storici e gli antropologi, descrivendo le strategie
dell'evangelizzazione cattolica in America Latina [7], ma che è bene rendere
nota ad un pubblico più vasto.
Estirpazione dell'idolatria
I tribunali dell'Inquisizione vengono istituiti in Perù e in
Messico rispettivamente nel 1570 e nel 1571, per combattere anche nel Nuovo
Mondo – come era avvenuto nella penisola iberica - l'eresia nelle sue
manifestazioni sia aperte che occulte. In particolare, quella messicana
comincia a funzionare con uno spettacolare autodafénel 1574. Prima
dell'istituzione dell'Inquisizione era compito dei vescovi, cui era attribuito
il ruolo di inquisitori, di perseguitare gli eretici, consegnandoli al braccio
secolare per essere castigati, nel caso non si fossero pentiti. Vale la pena
ricordare un caso celebre: il cacicco di Texcoco Carlos Ometochtzin che fu
accusato e poi condannato al rogo nel 1539, per l'attivismo mostrato dal primo
vescovo della Nuova Spagna il francescano Juan de Zumárraga nello scoprire e
punire gli eretici e gli idolatri. Tale vicenda suscitò all'epoca molto
scalpore per una serie di ragioni tra le quali la confisca dei beni del
condannato, che diventavano di proprietà dell'inquisitore (il quale era dunque
direttamente interessato all'esito del processo), e la riflessione
sull'effettiva cristianizzazione degli indigeni. In effetti, dopo le
distruzioni dei templi, degli oggetti rituali, la depredazione dei manufatti
religiosi in oro e argento – di cui ci parlano sia i cronisti spagnoli che gli
stessi autori indigeni [8] -, dopo la somministrazione del battesimo a migliaia
di nativi americani, cominciava a venire alla luce con sempre maggiore evidenza
che l'evangelizzazione era stata superficiale e che i nuovi sudditi
continuavano le loro pratiche, conservavano con rispetto i loro idoli, e
addirittura mescolavano forme rituali cristiane con “abominevoli” liturgie
tradizionali. Insomma, gli stessi missionari scoprirono che l'incontro e lo
scontro tra la fede cristiana e le religioni tradizionali aveva dato vita in
molti casi al sincretismo religioso, il quale aveva permesso la sopravvivenza,
sia pure in forma alterata e transculturata, di queste ultime.
È proprio in seguito a questa presa di atto che viene
costituita un'altra istituzione, parallela all'Inquisizione, ma le cui “cure”
sarebbero state rivolte esclusivamente ai nativi, i quali più che eretici
vengono ora considerati neofiti, e quindi più inclini alla cattiva
interpretazione del messaggio evangelico. Sto facendo riferimento a quella che
Pierre Duviols (La lutte contre les religions autochtones dans le Pérou
colonial. L'extirpation de l'idolâtrie entre 1532 et 1660, Toulouse
2008), uno studioso francese che si è occupato in maniera profonda e
dettagliata dell'attività evangelizzatrice svolta in epoca coloniale nel
vicereame del Perù, chiama la “figlia bastarda dell'Inquisizione”, ossia
l'estirpazione dell'idolatria, praticata sin dalla conquista, ma
istituzionalizzata nel XVII secolo in quelle regioni in cui la presenza
indigena era ancora consistente.
Ma in cosa consisteva questa istituzione? Quali erano le sue
modalità operative? In primo luogo, possiamo dire che al centro del suo
interesse stava l'idolatria, intesa come una forma perversa di culto, stimolata
addirittura dall'azione del demonio, all'interno della quale veniva venerato e
quindi considerato pari a Dio un oggetto inanimato (montagne, laghi etc.), un
essere subumano o umano, un manufatto (si pensi al famoso vitello d'oro
costruito dagli ebrei nella Bibbia); adottando tale pratica, nella prospettiva
cattolica, i nativi americani scambiavano qualcosa che poteva funzionare
tutt'al più come simbolo con la stessa dimensione sovrannaturale, mescolando
così indebitamente la sfera celeste e quella terrena, e mostrando così la loro
preferenza per una lettura immanentistica della relazione mondo / divinità.
Gli estirpatori organizzavano “visite” periodiche in quei
territori dove, in seguito a denunce e confessioni spontanee o estorte, si
aveva sentore della persistenza dell'idolatria, conducevano indagini,
procedevano ad interrogatori ed utilizzavano la tortura e l'incarceramento per
scoprire i colpevoli di tale nefando delitto. Naturalmente, una volta scoperti
gli idoli e i parafernalia rituali, che magari venivano conservati in qualche
luogo isolato, procedevano alla loro distruzione, organizzata pubblicamente in
presenza delle autorità civili e religiose, soprattutto per mostrare
l'impotenza delle divinità autoctone, che certamente non avrebbero potuto
impedire il dispiegarsi dell'azione dei missionari.
L'estirpazione contemplava anche attività preventive come il
concentramento di indigeni in appositi centri, in modo da poterli tenere sotto
controllo, l'istituzione delle scuole per i figli dei cacicchi, che sarebbero
stati così investiti del ruolo di messaggeri della buona novella tra i loro
antichi sudditi, l'elaborazione di catechismi nelle lingue indigene in modo da
superare le inevitabili barriere linguistiche e culturali. Accanto a tali
pratiche distruttive, tuttavia, alcuni missionari adottarono anche un altro
atteggiamento: si posero il problema di quali credenze e pratiche tradizionali
potevano essere accettate e inserite nel contesto cristiano, dando avvio alla
cosiddetta inculturazione della fede.
Questa seconda strategia, molto discussa
in seno alla Chiesa cattolica, non equipara le religioni autoctone al
cristianesimo, giacché considera le prime tutt'al più depositarie dei “semi del
verbo”, che debbono essere fecondati dall'incontro vivificante con il messaggio
cristiano.
Come mostrano le imponenti rovine di siti archeologici
dell'America Latina, il processo di estirpazione si concludeva con la
costruzione di una Chiesa cattolica nel medesimo luogo dove erano stati
venerati gli dei ancestrali; si pensi, per esempio, al famoso tempio del sole
(Corichanca), situato al Cuzco (Perù) sopra il quale è stata costruita la
solenne chiesa di San Domenico.
Si potrebbe osservare che tali pratiche estirpative
appartengano al passato, e che assai diverso è il volto della Chiesa cattolica
incarnato dal bonario papa Francesco. Ma di fatto non è così, giacché
l'inculturazione della fede cattolica, da cui è scaturita la teologia india –
una lettura del cattolicesimo attraverso la lente della dolorosa esperienza
storica dei popoli amerindi –, incontra molte opposizioni e suscita la
preoccupazione di eliminare gli elementi spuri che potrebbero contaminare i
contenuti autentici della religione rivelata. Del resto, la contraddizione tra
la pretesa di essere portatrice di un messaggio universale, i cui contenuti
sono custoditi e trasmessi dal magistero che la stessa Chiesa cattolica si
attribuisce, e il desiderio di aprirsi alle altre esperienze religiose, anche
per ampliare e consolidare il proprio “gregge”, costituisce un elemento
strutturale e costitutivo di questa istituzione millenaria.
Un esempio di tale contraddizione si palesa tra due diversi
processi di canonizzazione: quello di Martino de Porres, deciso da Giovanni
XXIII nel 1962, e quello di Junipero Serra, portato a termine dall'attuale
papa, nel corso del suo ultimo viaggio negli Stati Uniti. Oltre ad essere il
primo santo di colore della Chiesa cattolica, in quanto figlio di una
ex-schiava africana, Martino si distingue per il suo stretto rapporto con le
masse popolari, alla cura delle cui sofferenze si sarebbe sempre dedicato a
cavallo tra il XVI e XVII secolo. Invece, Junipero, che operò come missionario
nella Bassa California nel XVIII secolo, è considerato responsabile da molti
storici e dagli stessi discendenti degli indigeni dello sterminio delle
popolazioni native di quella regione, da lui sottomesse ad una evangelizzazione
aggressiva e devastante. Grazie a tale attività, egli è annoverato tra i
fondatori della nazione statunitense.
NOTE
- Città di grande importanza commerciale, le cui origini risalgano al II millennio a. C., situata a circa 240 km da Damasco.
- Si riferisce all'usanza delle tribù brasiliane di catturare prigionieri tra i loro nemici, di tenerli a vivere con loro durante un certo tempo, per poi ammazzarli e divorarli, con un gesto la cui finalità era la vendetta.
- Molto più tolleranti sono sempre state le religioni politeistiche, anche se non immuni da forme repressive.
- Ossia l'idea che la Bibbia, essendo ispirata da Dio, che quindi ne sarebbe l'autentico autore, non può contenere errori di nessun tipo, né di carattere fattuale, storico o geografico; per tanto essa deve essere interpretata letteralmente.
- Si parla e si è parlato anche di fondamentalismo economico per indicare quelle correnti neo-liberiste che prospettano misure restrittive e fondate sul ridimensionamento se non sulla scomparsa dello Stato sociale, occultando la prospettiva politica che le ispira e che pertanto le relativizzerebb
- Risale e qualche tempo fa la notizia della distruzione, insieme ad altri edifici, di un'antica moschea da parte dell'esercito israeliano, situata nel villaggio cisgiordano di Khirbet Yarza, appartenente ad un zona posta sotto il suo controllo (http://notizie.tiscali.it/articoli/esteri/10/11/25/israele_distrugge_moschea_palestinese.html). Notizia che non mi pare abbia sollevato tanto scalpore. Che dire, poi, dei continui attacchi ai fedeli palestinesi scatenati dall'esercito israeliano nella Spianata delle moschee di Grerusalemme est e denunciati dal presidente Mahmoud Abbas? (http://www.ilfarosulmondo.it/ambasciatore-palestinese-denuncia-la-passivita-dellonu-di-fronte-alle-continue-violazioni-israeliane/). Sembra che l'obiettivo del governo israeliano sia la distruzione di tali luoghi sacri per procedere alla giudaizzazione di questa parte della città.
- Strategie che furono adottate ben presto anche dai protestanti, soprattutto per quanto riguarda il loro aspetto devastante e distruttivo.
8. Al riguardo si può leggere il prezioso
libro curato da M. L. Portilla, La memoria dei vinti, Milano,1962.
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