*Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″
Negli ultimi decenni dello scorso secolo - per rispondere ad
una persistente e globale crisi di accumulazione, certificata dai dati sulla
caduta tendenziale del saggio di profitto - l’Occidente capitalistico ha
infilato la via della speculazione finanziaria alla ricerca di un surplus che
l’economia reale non garantiva più. Proprio la disponibilità di “denaro facile”
ha avviato negli Usa la corsa all’indebitamento di imprese e famiglie,
protrattasi finché il castello di carta (la cosiddetta “economia da casinò”)
non è crollato sotto il peso delle sue contraddizioni. Ovviamente le famiglie
si indebitano perché non hanno un reddito sufficiente a sopravvivere: è qui,
nell’impennarsi della disuguaglianza caratterizzante la società e l’economia
reale, che va individuata la contraddizione essenziale. Ed è qui che una
società capitalistica non riesce a intervenire per disinnescare il dispositivo
che in profondità genera la crisi. Questo intendeva Marx quando scriveva:
“La causa ultima di tutte le crisi effettive
è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse, in contrasto
con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive
ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo della
società”.
Per far fronte al tracollo strutturale del 2007, gli
establishment di Usa, Ue e Giappone hanno per un verso realizzato una colossale
socializzazione delle perdite convertendo in debito pubblico i debiti privati
e, per altro verso, hanno fatto ricorso a massicce immissioni di liquidità nel
sistema attraverso politiche monetarie espansive (bassi tassi e Quantitative
Easing). Sul primo fronte, la medicina non è nuova: dopo aver lautamente
soccorso le banche a suon di centinaia di miliardi, si è passati a smantellare
il welfare per mettere sotto controllo il debito pubblico, scaricando i costi
della crisi sul salario indiretto e su quello differito. Contemporaneamente,
per dare fiato alle imprese, si è dato luogo ad un colossale processo di
precarizzazione del mercato del lavoro, nel tentativo di diminuire la
disoccupazione: quella da insufficienza di domanda effettiva (disoccupazione
“keynesiana”) e quella determinata dalla “sostituzione di macchine a lavoro”
(disoccupazione “tecnologica” o “ricardiana”). Inducendo le imprese ad assumere
lavoratori “usa e getta”, ammesso e non concesso che ciò si verifichi, si
ottiene comunque l’effetto indesiderato di un calo della produttività del
lavoro: si possono infatti costringere i precari a lavorare di più, ma non a
lavorare meglio. E’ quel che è avvenuto in Italia – e in generale nei Paesi
deboli dell’Ue – sulla scia delle politiche imposte da Bruxelles e Berlino,
senza che - con ciò - si sia registrata un’apprezzabile inversione di tendenza
rispetto al dramma della disoccupazione.
All’opposto di quanto
fatto dai fondamentalisti del mercato, la Cina ha risposto alla crisi
propagatasi dall’epicentro occidentale riorientando lo sviluppo verso i consumi
interni e con un poderoso programma di stimoli pubblici: investimenti
infrastrutturali, aumento dei salari, prezzi amministrati per i beni di prima
necessità, nuova fase di urbanizzazione, estensione del permesso di residenza
ai lavoratori migranti (hukou). Tali interventi si sono realizzati in un Paese
in cui, essendo riconosciuta e tutelata l’economia non statale, permane
comunque il monopolio pubblico dei settori strategici (settore
militar-industriale, spaziale e delle telecomunicazioni, ricerca scientifica e
high-tech, risorse naturali) e in cui vige il controllo pubblico del settore
finanziario e bancario. Le Nazioni Unite avevano già riconosciuto ad un Paese
che conta oggi un miliardo e 357 milioni di abitanti (dati del 2013) meriti
indiscutibili sul terreno del progresso sociale e umanitario: tra il 1978 e il
2004, il “socialismo con caratteristiche cinesi” ha ridotto il numero dei
poveri assoluti da 250 a 25 milioni, cioè a meno del 2% della popolazione; ha
innalzato la vita media a 71 anni (nel 1949 era di 40 anni). Il costante
aumento dei salari è andato di pari passo con il progredire della
sindacalizzazione, cui ha dato nuovo slancio la legge entrata in vigore dal 1
gennaio 2008 che prevede tutele più efficaci nei luoghi di lavoro.
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