giovedì 5 novembre 2015

Dalla crisi capitalistica alla guerra delle valute: il contesto globale conferma la necessità del socialismo* - Bruno Steri

*Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″  

 Negli ultimi decenni dello scorso secolo - per rispondere ad una persistente e globale crisi di accumulazione, certificata dai dati sulla caduta tendenziale del saggio di profitto - l’Occidente capitalistico ha infilato la via della speculazione finanziaria alla ricerca di un surplus che l’economia reale non garantiva più. Proprio la disponibilità di “denaro facile” ha avviato negli Usa la corsa all’indebitamento di imprese e famiglie, protrattasi finché il castello di carta (la cosiddetta “economia da casinò”) non è crollato sotto il peso delle sue contraddizioni. Ovviamente le famiglie si indebitano perché non hanno un reddito sufficiente a sopravvivere: è qui, nell’impennarsi della disuguaglianza caratterizzante la società e l’economia reale, che va individuata la contraddizione essenziale. Ed è qui che una società capitalistica non riesce a intervenire per disinnescare il dispositivo che in profondità genera la crisi. Questo intendeva Marx quando scriveva: 

 “La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse, in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo della società”.

 Per far fronte al tracollo strutturale del 2007, gli establishment di Usa, Ue e Giappone hanno per un verso realizzato una colossale socializzazione delle perdite convertendo in debito pubblico i debiti privati e, per altro verso, hanno fatto ricorso a massicce immissioni di liquidità nel sistema attraverso politiche monetarie espansive (bassi tassi e Quantitative Easing). Sul primo fronte, la medicina non è nuova: dopo aver lautamente soccorso le banche a suon di centinaia di miliardi, si è passati a smantellare il welfare per mettere sotto controllo il debito pubblico, scaricando i costi della crisi sul salario indiretto e su quello differito. Contemporaneamente, per dare fiato alle imprese, si è dato luogo ad un colossale processo di precarizzazione del mercato del lavoro, nel tentativo di diminuire la disoccupazione: quella da insufficienza di domanda effettiva (disoccupazione “keynesiana”) e quella determinata dalla “sostituzione di macchine a lavoro” (disoccupazione “tecnologica” o “ricardiana”). Inducendo le imprese ad assumere lavoratori “usa e getta”, ammesso e non concesso che ciò si verifichi, si ottiene comunque l’effetto indesiderato di un calo della produttività del lavoro: si possono infatti costringere i precari a lavorare di più, ma non a lavorare meglio. E’ quel che è avvenuto in Italia – e in generale nei Paesi deboli dell’Ue – sulla scia delle politiche imposte da Bruxelles e Berlino, senza che - con ciò - si sia registrata un’apprezzabile inversione di tendenza rispetto al dramma della disoccupazione.

 All’opposto di quanto fatto dai fondamentalisti del mercato, la Cina ha risposto alla crisi propagatasi dall’epicentro occidentale riorientando lo sviluppo verso i consumi interni e con un poderoso programma di stimoli pubblici: investimenti infrastrutturali, aumento dei salari, prezzi amministrati per i beni di prima necessità, nuova fase di urbanizzazione, estensione del permesso di residenza ai lavoratori migranti (hukou). Tali interventi si sono realizzati in un Paese in cui, essendo riconosciuta e tutelata l’economia non statale, permane comunque il monopolio pubblico dei settori strategici (settore militar-industriale, spaziale e delle telecomunicazioni, ricerca scientifica e high-tech, risorse naturali) e in cui vige il controllo pubblico del settore finanziario e bancario. Le Nazioni Unite avevano già riconosciuto ad un Paese che conta oggi un miliardo e 357 milioni di abitanti (dati del 2013) meriti indiscutibili sul terreno del progresso sociale e umanitario: tra il 1978 e il 2004, il “socialismo con caratteristiche cinesi” ha ridotto il numero dei poveri assoluti da 250 a 25 milioni, cioè a meno del 2% della popolazione; ha innalzato la vita media a 71 anni (nel 1949 era di 40 anni). Il costante aumento dei salari è andato di pari passo con il progredire della sindacalizzazione, cui ha dato nuovo slancio la legge entrata in vigore dal 1 gennaio 2008 che prevede tutele più efficaci nei luoghi di lavoro. 

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