...La gran parte degli autori che ho citato ha scritto quanto
ho riportato negli anni Settanta. Quale l’attualità in ciò che hanno sostenuto
allora? Enorme, a mio parere. La svolta neoliberista, se ha spiazzato per lungo
tempo le questioni che si ponevano in quel decennio, non le ha affatto
cancellate. Le ha viste semmai eclissarsi per tornare allo scoperto con maggior
forza ed evidenza, ma in un contesto di rapporti di forza sociali ben più
degradato.
Per mio conto, mi sono trovato a coordinare, per
Rifondazione Comunista e assieme a Emiliano Brancaccio (quello che scrivo
impegna, sia chiaro, soltanto me), una commissione sulla politica economica.
Eravamo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. La mia
convinzione – potrei dire, da sempre: dall’inizio degli anni Settanta – è che
la crisi italiana non soltanto fosse paradigmatica, pur nella sua
eccezionalità, delle dinamiche del capitalismo europeo e globale, ma anche che
essa avesse una natura ‘strutturale’. Non era, come non è, riducibile alla
questione della diseguaglianza (i ‘bassi salari’). Né era, o è, risolvibile con
un più acceso (e benvenuto) conflittualismo, con una (auspicata) migliore
distribuzione: un po’ più di reddito qui, un po’ meno di orario di lavoro lì.
Il mio tentativo nella commissione fu quello di organizzare
discussioni che portassero gli economisti italiani ‘di sinistra’ – una
categoria purtroppo sempre più affetta dalla tara di agognare una presenza
mediatica la più pronunciata possibile (tra un appello, una lettera, un monito,
una comparsata in televisione); come anche dal desiderio profondo di divenire
consiglieri di un qualche nuovo Principe - alla cognizione che
il
capitalismo che si era costituito negli anni Ottanta e Novanta, non era per
niente un ritorno del ‘liberismo’, un trionfo di una generica
‘globalizzazione’, un misterioso e novissimo ‘postfordismo’, né tanto meno la
vittoria di un introvabile ‘pensiero unico’. Insomma, le vuote sigle della sinistra
alternativa e radicale. Era invece un ‘nuovo’ capitalismo nel pieno di un
intervento politico attivo, che aveva trasformato e incluso i lavoratori dentro
un meccanismo infernale, che gestiva internamente la domanda effettiva, e che
dava vita a nuove forme del vecchio sfuttamento.
Da studiare era il nuovo mondo della produzione e della
finanza, prima ancora di porre in questione domanda e distribuzione: perché
appunto reform e recovery vanno insieme. Un
capitalismo per cui era prevedibile l’avvicinarsi di una grande crisi (tanto
che sovrastimai la gravità della crisi scoppiata nel 2000, e con Joseph Halevi
mi trovai pronto a quella del 2007; gli economisti della nostra sinistra se ne
accorsero, male, a fine 2008). Con pazienza bisognava attrezzarsi sul piano
‘strutturale’ del modo di produzione: tanto per quel che riguardava
l’approfondimento della conoscenza, quanto per quel che riguardava l’abbozzo di
costruzione di un programma minimo. Muovendosi verso una politica economica
attenta, ebbene sì, alle questioni legate alla ‘socializzazione degli
investimenti’. Basta andarsi a rileggere quello che scrivevo allora.
Se devo essere sincero, non ho mai capito bene quale e
quanto fosse l’investimento della dirigenza del Partito su quella
sotto-commissione. Non molto, sospetto. Ci veniva detto di rimanere ‘sulle
generali’, perché erano ‘ovviamente’ i politici a dover dettare la linea
programmatica. E però quando le elezioni si avvicinavano ci si chiedeva con
urgenza di scrivere le righe da mettere fianco a fianco agli altri mattoni
approntati, separatamente, dagli ‘ecologisti’, dalle ‘femministe’, e così via
(io, devo dire, mi sottrassi).
Una cosa deve essere chiara. Una
socializzazione degli investimenti, per essere proposta da sinistra
(figuriamoci da partiti o movimenti comunisti), non si improvvisa. Richiede un
lavoro. Non individuale, ma collettivo. Di lunga lena, che si costruisce nel
tempo: basti pensare a che tipo di scuola e di università presuppone.
Bisognerebbe cominciare, un giorno o l’altro, con pazienza,
a farlo, scontando i tempi della costruzione inevitabilmente lenta. Se no
sarebbe meglio, di queste cose, non parlarne nemmeno. Non è tema né di articoli
né di interventi ai convegni, se non si vuole essere superficiali. Pure, potete
contare sul fatto che la dura realtà dei fatti (che hanno la testa dura, e non
badano agli equilibri dei politici o delle comunità intellettuali) ci
costringerà a parlarne sempre di più, seppur male, nei tempi a venire. Speriamo
solo di sfuggire alla massa di banalità, e di vere e proprie insensatezze, che
ci affligge sulla questione dell’euro, dove un tragitto simile è stato già
percorso, in modo probabilmente irreparabile, sino a che non si sa veramente
cosa dica la politica della sinistra (al singolare).
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