domenica 2 luglio 2017

Scetticismo, volontarismo o dialettica? Con Gramsci, per orientarsi nel mondo*- Emiliano Alessandroni**

*Da:   http://www.marxismo-oggi.it  (Relazione al convegno “Antropologia applicata e approccio interdisciplinare”. Prato, 17-19 dicembre 2015). **Urbino "Carlo Bo"Studi Internazionali. Lingue, Storia, Culture 
Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/liberta-e-necessita-hegel-sartre.html 

La produzione intellettuale gramsciana mantiene la coerenza di una critica, a volte implicita a volte esplicita, a due particolari modi di rapportarsi al mondo, che si ripresentano spesso nel corso dei processi storici e che ritroviamo anche nel nostro presente.

Il primo è quello dello scettico: di colui, vale a dire, che «tende a togliere ai fatti economici ogni valore di sviluppo e di progresso»[1]; di coloro che amano «parlare di fallimenti di ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze» seguitando a vivere «nel loro scetticismo»[2] privo di responsabilità. Il secondo è quello del volontarista: atteggiamento, afferma Gramsci, «sguaiato e triviale»[3] che tende a rimuovere le condizioni, il quadro complessivo, l'equilibrio di forze oggettive entro cui l'azione si trova a operare, sicché «si immagina che il meccanismo della necessità sia stato capovolto»: ora «la propria iniziativa è divenuta libera. Tutto è facile» e «si può ciò che si vuole»[4].

A tale volontà astratta che conduce all'utopia e al velleitarismo, Gramsci contrappone la volontà razionale: questa sorge quando si comprende che «la libertà coincide con la necessità»[5], quando il volere è «coscienza operosa della necessità storica»[6].

La razionalità di cui sopra, tuttavia, è data soltanto dalla struttura dialettica del reale, dal fatto che questo non costituisce un manto piatto e uniforme, privo di fratture interne, bensì «un rapporto di forze in continuo mutamento di equilibrio»[7].

Il concetto di dialettica percorre e contraddistingue l'intero corpo dei Quaderni. La stessa categoria di egemonia risulta strettamente legata a questo concetto. Egemonia (culturale) significa invero che l'universo ideale e sentimentale di una delle forze che compongono la realtà, occupa la maggior parte dello spazio totale. Ma questo non equivale a dire che lo spazio totale venga occupato, da una di queste forze, nella sua completa estensione. Resta pur sempre, invero, una superficie residua, ancorché ridotta, ricoperta dalle antitesi.

Ricordiamo che per Gramsci «l’assedio è reciproco, nonostante tutte le apparenze e il solo fatto che il dominante debba fare sfoggio di tutte le sue risorse dimostra quale calcolo esso faccia dell’avversario»[8]. Questa reciprocità d'assedio sembra rinviare al principio di azione reciproca che troviamo formulato nella Scienza della logica di Hegel, dove i termini in conflitto esercitano, sia pur in maniera non equipollente, una influenza e una pressione sull'altro, già per il solo fatto di esistere. Una influenza che rinvia, quindi, al piano ontologico prima ancora che a quello pragmatico.

A tutto questo si lega anche il concetto di partigianeria, espresso nello scritto Indifferenti: «Credo che vivere voglia dire essere partigiani...Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia»[9]. Se vivere vuol dire essere partigiani, questo è ancora una volta possibile soltanto nella misura in cui la realtà è dialettica, nella misura in cui la realtà costituisce un campo di forze non equivalenti in lotta tra loro. Vivere significa allora, per Gramsci, individuare, all'interno del proprio tempo, le forze di resistenza presso cui passano processi di emancipazione o esigenze universali, e supportarle con i mezzi e le capacità di cui ciascuna esistenza individuale dispone, significa, in sostanza, individuare la «forza in movimento progressivo per farla trionfare»[10]. Il che inevitabilmente equivale, come verrà spiegato nei Quaderni, a sostenere un determinato tipo di conformismo contro un altro, un nuovo tipo di universo disciplinare contro un altro[11].

Non v'è alcun dubbio, dunque, che per Gramsci «la realtà» è «lotta e contraddizione» ovvero è dialettica e «la dialettica» costituisce «lo stesso divenire storico»[12].

Contrariamente alla prospettiva gramsciana, gli atteggiamenti di scetticismo e volontarismo che abbiamo sopra menzionato, condividono un atteggiamento di evasione dalla realtà, dalla sua struttura conflittuale: la cecità per le «contraddizioni reali della vita storica»[13].

Se per Gramsci, sulla scia di Hegel, il reale è razionale ed esiste una complessiva irreversibilità, nonché un complessivo progresso nei processi storici, al contrario per Foucault «la storia non ha "senso"» e «la "dialettica"» altro non è che «un modo di schivarne la realtà sempre aleatoria ed aperta, ripiegandola sullo scheletro hegeliano»[14]. Il mondo anziché ad un campo di forze eterogenee in lotta tra loro, rassomiglia più ad una prigione. Esso costituisce infatti, per Foucault, il luogo del potere, e il potere «non è qualcosa che si divide tra coloro che lo posseggono e lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno e lo subiscono», ma qualcosa di disseminato dappertutto, qualcosa che può vantare una «distribuzione infinitesimale»[15] e «si esercita attraverso un'organizzazione reticolare», in maniera anonima, così che «nelle sue maglie gli individui non solo circolano, ma sono sempre in posizione di subire e di esercitare questo potere»[16].

La categoria più adatta a spiegare il mondo contemporaneo, non è per Foucault quella di dialettica, ma quella di panoptismo. Categoria che, come noto, il filosofo francese riprende dal nome del carcere progettato da Jeremy Bentham nel 1791 e che serve a rendere l'idea della «sorveglianza generalizzata»[17] cui sono sottoposti tutti gli individui nelle nostre società disciplinari, dove assistiamo a continui «processi di assoggettamento delle forze e dei corpi»[18].

La prospettiva risulta profondamente diversa. A tal proposito, un importante lettore di Gramsci, Edward W. Said, osservò che mentre nell'«opera di Fanon» si «cerca programmaticamente di analizzare insieme la società coloniale e quella metropolitana, in quanto entità discordanti ma correlate», al contrario «il lavoro di Foucault si allontana sempre di più dal prendere seriamente in considerazione gli insiemi sociali, focalizzandosi, invece, sull'individuo come dissolto in una “microfisica del potere” che avanza ineluttabilmente e alla quale è inutile cercare di resistere»[19].

Secondo l'ultimo Said, oggi come oggi, neppure gli stessi ammiratori di Foucault possono esimersi dal «risparmiare critiche e obiezioni alla dimensione indifferenziata e totalizzante da lui assegnata al potere moderno». Il filosofo francese dà infatti «sovente l'impressione di confondere il potere proprio delle istituzioni di assoggettare individui con il fatto che il comportamento sociale degli individui sia per lo più una questione di regole e convenzioni», cosicché nel complesso e alla fine dei conti, una volta trasfigurato tale potere in un'accezione «anonima e impersonale», «l'immaginazione foucultiana» finisce per rivelarsi «molto più con che contro il potere»[20].

A questa immagine di un potere onnipervasivo che Foucault astrattamente tratteggia espungendone la dialettica interna[21], Said vi contrappone quella che emerge dalle pagine di Gramsci:

Come più tardi Foucault, anche Gramsci è attratto dall'egemonia e dal potere, ma un tale interesse lo conduce a un'interpretazione del potere molto più sottile di quella foucultiana, perché il potere non viene mai reso astratto, né discusso astraendo da una specifica totalità sociale: al contrario, la sua nozione di potere non è mai occulta né irresistibile o in ultima istanza unidirezionale. Il conflitto sociale di fondo è quello per l'egemonia[22].

Non meno evasivo rispetto all'idea di dialettica e alle contraddizioni reali della vista storica, risulta il quadro di realtà che emerge dai libri di Latouche. In primo luogo, anche per questi, come per Foucault, il reale rassomiglia ad un Panopticon, ad una prigione che stritola e sottomette forze e corpi. Tutti risultano invero invischiati nei meccanismi di una realtà sociale che assume le sembianze di una «megamacchina», una sorta di «Big Brother...anonimo» che produce «la schiavitù degli individui», e un tipo di schiavitù particolarmente insidiosa perché «volontaria»[23]. Questa megamacchina, «è dappertutto, anche nelle nostre teste, e in nessun luogo»[24].

Il problema per Latouche è costituito da ciò che egli chiama la società dello sviluppo. Da questo punto di vista, capitalismo e socialismo non sono altro che diverse varianti di un unico traballante universo, la società industriale. Per Latouche infatti, «non basta mettere in discussione il capitalismo, ci si deve battere contro la società della crescita in quanto tale»; e nel non aver capito questo risiederebbe «il limite di Marx»[25].

Collocandosi nel solco di quella tradizione illuministica che concepisce la natura più alla maniera di Rousseau che alla maniera di Hobbes, più come buon selvaggio che come homo homini lupus, avendo a cuore le «strutture comunitarie precapitalistiche» e le voci di quel «primo socialismo liquidato sbrigativamente come romantico o utpistico» dal «pensiero unico del materialismo storico, dialettico e scientifico»[26], simpatizzando con il «luddismo» e con «le critiche dei precursori del socialismo contro l'industrializzazione» ma deprecando, a un tempo, la «nostalgia di un passato idealizzato e del ritorno alla comunità chiusa» nonché qualunque «ritorno a elementi feudali o a strutture gerarchiche»[27], il progetto di Latouche può essere inquadrato nell'ambito di quel comunismo primitivo accarezzato da Babeuf, Buonarroti e dalla Congiura degli eguali.

Forme di localismo ristrette che «diffid[ano] di qualunque progetto universalista»[28], e dalla cui ottica, nello sviluppo in sé risiede il cancro da estirpare. Per Latouche persino «predicare lo sviluppo e la crescita dei paesi "poveri"» non è altro che «una enorme soperchieria pietosa, se non un crimine»[29]; occorre piuttosto considerare che nel sottosviluppo, ovvero «ai margini delle città le popolazioni si industriano a vivere una vita precaria ma decente grazie a strategie relazionali basate sullo spirito del dono e la reciprocità»[30]. Ma chi porta avanti il progetto di uscita da questa gabbia d'acciaio che tutti quanti, ricchi e poveri, stritola indifferentemente? Per Latouche «la decrescita non ha un soggetto storico portatore del progetto»[31]; ormai «la lotta di classe è terminata»[32], e non resta che affidare le possibilità di salvezza ai singoli individui. Ora, per trasformare l'esistente, è necessario procedere «anzitutto a livello personale», percorrendo «due strade a livello individuale: la prima, consumare meno, è la sobrietà; la seconda, autoprodurre e scambiare secondo la logica del dono»[33]. Comprendiamo allora che «il soggetto portatore del progetto della decrescita...sono tutti gli individui in quanto persone singole e concrete»[34]. Il motore del mutamento viene pertanto collocato da Latouche nell'intimo della volontà individuale: «i cambiamenti...non possono essere messi in pratica che a partire da una scelta volontaria» giacché «la trasformazione avviene solo con l'autotrasformazione» e il vero «nemico si nasonde nel più profondo di noi stessi»[35].

Non abbiamo, come in Gramsci, una volontà razionale in cui «la libertà coincide con la necessità»[36], e il volere è «coscienza operosa della necessità storica»[37], bensì una volontà che intende contrapporsi alla necessità, dunque una volontà che ha il carattere dell'utopia. Cosa che Latouche, con onestà intellettuale, non ha problema ad ammettere: «la decrescita non è un'alternativa concreta» ma «piuttosto utopica»; le «misure» teorizzate «non rappresentano un modello pronto all'uso paragonabile alle famosissime "strategie di sviluppo", ma sono vere e proprie utopie»[38].

Osservando il mondo odierno ci accorgiamo come gli atteggiamenti di scetticismo e volontarismo abbiano egemonizzato la sfera del dissenso e della cultura critica. Il fascino di cui godono all'interno del mondo dissenziente autori come Foucault o Latouche esprime tutto lo smarrimento che la dialettica gramsciana ha subito nel corso degli anni, pur nella ripresa degli studi dedicati all'intellettuale sardo.

Riteniamo che affrontare il presente con le categorie di microfisica del potere, di panoptismo, di crescita o decrescita, renda l'operazione scivolosa e aporetica. Sia in Foucault che in Latouche assistiamo ad una critica dell'Intero: se tuttavia il primo, com'è stato notato, dissolve questo «in una “microfisica del potere” che avanza ineluttabilmente e alla quale è inutile cercare di resistere»[39] (scetticismo), il secondo attribuisce la via di salvezza ad una «scelta volontaria» e individuale, (volontarismo).

Entrambe queste critiche, nella loro diversità, sottraggono l'Oggetto a quella categoria di contraddizione reale che percorre i Quaderni e sorregge la stessa idea di egemonia.

Siamo  invece  convinti  che,  ancora  oggi,  non  si  possa  «evadere  dal  terreno  attuale  delle contraddizioni»[40], giacché queste costituiscono la struttura della realtà. Una realtà composta da macroforze in tensione o in conflitto, il cui esito determinerà la vita degli uomini. Riteniamo che queste forze, che compongono l'attuale quadro geopolitico, non siano tra loro equipollenti: che la vittoria dell'una o dell'altra non sortisca i medesimi effetti e risultati. Al contrario: a seconda della polarità vincitrice dipenderanno situazioni molto differenti. E ancora oggi, con Gramsci, riteniamo le forze reali da sostenere nello scenario globale siano quelle che, per una ragione o per un'altra (etico-politica o di mero interesse economico), stanno difendendo de facto un principio universale, nel concreto un diritto sovrano contro tendenze espansionistiche e «universalmente repressive»[41].

Entrando ancor più nel concreto, reputiamo che paesi come quelli dell'ALBA o dei BRICS stiano cominciando a costituire una antitesi reale, un contropotere rispetto ai progetti espansionistici dell'Occidente (ancora largamente legati al Project for the new american century); un contropotere che crediamo debba essere sostenuto e non condannato in nome della critica allo sviluppo o alla società disciplinare, come automaticamente si è inclini a fare osservando il mondo e la realtà presente con le lenti di Latouche o di Foucault. Dev'essere sostenuto, perché riteniamo che ancora oggi, come ai tempi di Gramsci, la realtà sia dialettica e che vivere (all'interno di questa dialettica) voglia dire essere partigiani.

Note

[1] Gramsci, Quaderni del carcere, (da ora Q) a c. di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2001, 4, 60, p. 505.

[2] Gramsci, Indifferenti, in Id., La città futura 1917-1918, a c. di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1971, pp. 13-15.

[3] Q 3, 42, p. 319.

[4] Q 9, 60, p. 1131.

[5] Q 7, 4, p. 855.

[6] Q 8, 21, p. 952.

[7] Q 8, 84, p. 990.

[8] Q 6, 138, p. 802.

[9] A. Gramsci, Indifferenti, in Id., Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Editori Riuniti, pp. 33-34.

[10]Q 8, 84, p. 990.

[11]Scrive Gramsci in Q 7, 12, pp. 862-863:  «Sul “conformismo” sociale occorre notare che la quistione non è nuova e che l’allarme lanciato da certi intellettuali è solamente comico. Il conformismo è sempre esistito: si tratta oggi di lotta tra “due conformismi” cioè di una lotta di egemonia, di una crisi della società civile. I vecchi dirigenti intellettuali e morali della società sentono mancarsi il terreno sotto i piedi, si accorgono che le loro “prediche” sono diventate appunto “prediche”, cioè cose estranee alla realtà, pura forma senza contenuto, larva senza spirito; quindi la loro disperazione e le loro tendenze reazionarie e conservative: poiché la particolare forma di civiltà, di cultura, di moralità che essi hanno rappresentato si decompone, essi gridano alla morte di ogni civiltà, di ogni cultura, di ogni moralità e domandano misure repressive allo Stato o si costituiscono in gruppo di resistenza appartato dal processo storico reale, aumentando in tal modo la durata della crisi, poiché il tramonto di un modo di vivere e di pensare non può verificarsi senza crisi. I rappresentanti del nuovo ordine in gestazione, d’altronde, per odio “razionalistico” al vecchio, diffondono utopie e piani cervellotici. Quale il punto di riferimento per il nuovo mondo in gestazione? Il mondo della produzione, il lavoro. Il massimo utilitarismo deve essere alla base di ogni analisi degli istituti morali e intellettuali da creare e dei principii da diffondere: la vita collettiva e individuale deve essere organizzata per il massimo rendimento dell’apparato produttivo. Lo sviluppo delle forze economiche sulle nuove basi e l’instaurazione progressiva della nuova struttura saneranno le contraddizioni che non possono mancare e avendo creato un nuovo “conformismo” dal basso permetteranno nuove possibilità di autodisciplina, cioè di libertà anche individuale».

[12]Q 10, 41 (XII), p. 1320.

[13]Q 11, 62, p. 1488.

[14] Foucault, Microfisica del potere, a c. di Alessandro Fontana e Pasquale Pasquino, Einaudi 1977, p. 9.

[15] Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi 2014, p. 235.

[16] Foucault, Microfisica del potere, cit. p. 184.

[17] Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 228.

[18]Ivi, p. 241.

[19]Edward Said, Cultura e imperialismo (1993), Gamberetti editrice, 1998, pp. 305-306.

[20]Edward W. Said, Foucault e l'immagine del potere, in Id., Nel segno dell'esilio, Feltrinelli, 2000 pp 286-288.

[21]In Foucault, va detto, alla prospettiva del Panopticon, e all'ipotesi Reich, è altresì affiancata la cosiddetta ipotesi Nietzsche, che prevede la conflittualità del reale. Si tratta, nondimeno, di una conflittualità non dialettica, ma, per l'appunto, nietzscheana, a somma zero. Dunque la stessa conflittualità viene pensata da Foucault e da Gramsci in modi profondamente diversi, come in modo radicalmente diverso viene concepita la realtà. Per un approfondimento più dettagliato di questi punti cfr. Emiliano Alessandroni, Il crepuscolo della dialettica. Foucault contra Gramsci, Gramsciana. Rivista di studi internazionali su Antonio Gramsci (in via di pubblicazione).

[22]Edward W. Said, Storia, letteratura e geografia, in Id., Nel segno dell'esilio, cit. p. 520.

[23] Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2009, p. 167.

[24] Latouche, Per un'abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati Boringhieri, 2012, p. 78.

[25]Ivi, p. 77.

[26]Ivi, pp. 84-85.

[27]Ivi, pp. 60-61.

[28] Latouche, La scommessa della decrescita, cit., p. 176.

[29] Latouche, Per un'abbondanza frugale, cit., p. 118.

[30]Ivi, p. 119.

[31]Ivi, p. 126.

[32] Latouche, La scommessa della decrescita, cit., p. 169.

[33]Ivi, pp. 71-72.

[34] Latouche, Per un'abbondanza frugale, cit., p. 130.

[35] Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2009, p. 109.

[36]Q 7, 4, p. 855.

[37]Q 8, 21, p. 952.

[38] Latouche, Per un'abbondanza frugale, cit., p. 95.

[39] Said, Cultura e imperialismo (1993), Gamberetti editrice, 1998, pp. 305-306.

[40]Q 4, 45, p. 471.

[41]Q 23, 36, p. 2232

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