venerdì 9 maggio 2014

TEMI WITTGENSTEINIANI - Stefano Garroni

Vedi anche:  http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/zettel-presenta-wittgenstein-e-la.html




“La maggior parte delle filosofie sono tentativi di interpretazione. Quella di Wittgenstein è forse più un sintomo e un simbolo, <un simbolo di un’ epoca di scompiglio>, come ha detto José Ferrater Mora.” (Bouveresse, Wittgenstein, scienze, etica, estetica, Laterza 1982: 12).


 1 - Introduzione: Wittgenstein, fondamento e duttilità.

 E’ possibile certo -come d’altronde è stato fatto in modo ottimo anche recentemente[1]- descrivere il pensiero di Wittgenstein, rintracciandone il filo rosso, che ne percorre tutta l’evoluzione e, così, mostrare ‘da dove egli sia partito’ e ‘dove sia andato a parare’. La stessa differenza tra un ‘primo’ ed un ‘secondo’ Wittgenstein, tra il Wittgenstein del Tractatus  e quello delle Philosophische Untersuchungen  o di Über Gewißheit, ad un’analisi più accurata perde in un certo senso di radicalità, poiché non marginali sono i momenti di continuità, che finiscono col risultare[2].

 E’ inoltre innegabile il valore che l’opera di Wittgenstein ha come testimonianza  delle problematiche logiche e morali, che hanno caratterizzato una certa Europa tra le due guerre mondiali: anche ciò -non è dubbio- milita a favore di una sostanziale continuità della riflessione wittgensteiniana. Eppure, in questa lettura si nasconde un pericolo.

 Esattamente il pericolo di attribuire a Wittgenstein qualcosa che egli ha sempre respinto -almeno da un certo momento della sua esistenza- con aspra nettezza: voglio dire l’intento di elaborare una teoria, -in questo senso, di fare della filosofia.

 E’ stato sottolineato, invece, -e giustamente-, un certo socratismo di Wittgenstein[3], intendendo con ciò quella sua continua sollecitazione all’ indagine accurata, volta a cogliere la ; come anche quella convinzione profonda che se fare filosofia significa qualcosa, se si tratta di un’attività ‘decente’ [anständig] (termine importantissimo, questo, nel vocabolario wittgensteiniano[4]), allora proprio in ciò essa consiste: nel mostrare dei problemi affrontati i caratteri determinati, circoscritti e proprio per questo legati intimamente alle forme di vita, alle attività particolari, che sono la cornice e l’ambiente, in cui l’uomo reale si muove. Insomma, se esiste un fare sensato, proprio della filosofia, esso consiste, in definitiva, nel togliere la filosofia stessa, nel dissolverne le drammatiche ed irrisolte domande, a favore di uno ‘sguardo’, che consenta di fare emergere l’agire effettivo degli uomini in tutta la sua ‘superficiale’ complessità, vaga  e regolata  ad un tempo.

 Consiste, dunque, il socratismo di Wittgenstein nel contrapporre un atteggiamento pragmatistico alla inutile profondità della speculazione filosofica? Assolutamente no!
 Quel socratismo, infatti, si coniuga in Wittgenstein con un certo sostanziale irrazionalismo[5] e con uno scetticismo, d’altronde storicamente implicato -come sappiamo- nella tradizione socratica.[6] Voglio dire questo.

 Va ‘tolta’ la filosofia -nel senso sopra indicato-, perché illusoria è la speranza che possa mai venire a capo dei problemi, che pur si pone.
 Non perché, in un certo senso, questi problemi non esistano: al contrario, sono addirittura i problemi fondamentali, gli unici a cui varrebbe effettivamente la pena dedicarsi. Ma, tuttavia, non sono tematizzabili: il linguaggio non può dirli; né può farlo, in particolare, il linguaggio della filosofia -legato, com’esso è, a certo cattivo uso delle parole, che conduce ad entificare le formule linguistiche, a de-contestualizzarle, a privarle dello ‘spazio’ entro cui hanno senso ed a farne, dunque, dei feticci.

 Ed, allora, non resta -come attività sensata ed accettabile-, se non quella di mantenersi alla ‘superficie’, di cogliere le movenze degli ambiti diversi della nostra esperienza, la grammatica dei , entro cui essa va svolgendosi e prendendo forma[7].
 Di qui, da questa radicale irrisolvibilità -mediante logica e filosofia-, dei problemi fondamentali, l’apertura wittgensteiniana alla ‘scena del mondo’ (alla supeficie), la sua disponibilità -ed il suo costante invito- a cogliere di questa scena la molteplicità degli aspetti, la diversità delle ‘regole’. Di qui, dunque, non solo l’anti-dogmatismo, ma anche il realistico aderire delle sue analisi alle tortuosità -alle contraddizioni, perfino- delle esperienze effetive, dei lnguaggi effettivi.

 Si potrebbe dire, insomma, che essendo irrisolvibile per Wittgenstein -almeno con gli strumenti del linguaggio e della filosofia- il problema del fondamento del mondo (qualunque filosofia e qualunque linguaggio è nel mondo, è aspetto del mondo e, dunque, non può farne il proprio oggetto), allora la sua indagine si rende disponibile alle insensatezze dell’ esperienza, fino al punto di coglierne la ‘grammatica’ e, così, restituire ad esse un senso, una ‘regolarità’ -plastiche, non cristallizzate in forme fisse o rigide, esattamente perchè si tratta di una grammatica e di una regolarità, non fondate, non garantite ma, solo, costruitesi all’ interno stesso dell’ esperienza.
 Se questo modo di descrivere l’ orientamento di Wittgenstein ha un senso, riusciamo a comprendere come possano nella sua pagina -e nella sua stessa vita- coesistere (ma non mediarsi) una acuta lucidità analitica -che gli consente di superare i limiti del formalismo intellettuale, per dirla con linguaggio hegeliano- ed un disperato, acuto senso della propria lontananza da ‘ciò che veramente conta’.

 Se la lucidità analitica sembra immergerlo dentro la scena del mondo , renderlo ad esso consonante;  l’ irriducibile distanza, invece, dal lo condanna alla condizione di una radicale scissione.[8]
 Ma, appunto, se vale questa interpretazione, la posizione (la philosophische Einstellung) di Wittgenstein è intimamente ‘irrequieta’ - incapace, insomma, di essere collocata entro questa  e non quell’ altra opposta  prospettiva.

 Detto in altre parole, se in qualche modo può dirsi pragmatistico quel coniugare significato  del segno e suo uso entro il gioco linguistico o quel riportare la modifica degli Sprachspiele a necessità (needs) pratiche e sociali, non va dimenticato, tuttavia, che ciò si colloca sul piano superficiale dell’ esperienza -il quale è, certo, l’unico di cui si possa parlare, di cui abbia senso -e sia anständig- parlare. Ma esso è anche il piano in cui le cose sono semplicemente come si danno, senz’ altra motivazione -o fondamento (Begründung)- se non il fatto, appunto, di darsi così e così.[9]
 Quel mondo d’esperienza, di cui posso cogliere le movenze ricostruendo la grammatica dei giochi linguistici, tuttavia resta opaco: perché, nella sostanza, gratuito, privo appunto di fondamento. Il che, si badi, significa esattamente che questo mondo dell’ esperienza è privo di fondamento - la sua Begründung non si nasconde da qualche parte al nostro sguardo; semplicemente, non c’ è.

 La conoscenza dei giochi linguistici, della loro grammatica: insomma, la conoscenza (nella varietà di sensi, che questo termine ha) dello scenario molteplice del mondo, non toglie -né potrebbe farlo- la sostanziale infondatezza dell’ esperienza stessa.
 Si potrebbe dire, con Freud, che se questo mondo è l’Heimat  del mio vivere, prospettato in altro modo -ovvero, dal punto di vista del fondamento- si capovolge subito nel trionfo dell’ Unheimliches. E’ chiaro, dunque, entro quale limite ha senso -se lo ha- parlare di pragmatismo di Wittgenstein. Ma veniamo ad un altro punto.

 Le molte pagine, che Wittgenstein dedica all’ analisi/illustrazione di giochi linguistici effettivi -o immaginari, ma funzionali a meglio intendere i primi-, sono altrettante prove di duttilità analitica, nel senso di capacità di proporre moduli logici, liberi da rigidità intellettualistiche. Non immotivato mi pare, a questo punto, parlare -in qualche modo- di un ‘andamento dialettico’ dell’ analisi  wittgensteiniana.

 Certo, da quanto finora detto risulta appieno l’ improponibilità di un accostamento immediato di Wittgenstein alla tradizione dialettica - se con questo si intende qualcosa, che ha Hegel al suo centro. Appunto, la Einstellung  wittgensteiniana, per aspetti radicali, si oppone addirittura al tono fondamentale della prospettiva dialettica (intesa nel senso appena detto).
 Eppure, moduli di analisi tassonomica (se è lecita tale definizione), come la family resemblance; impostazioni analitiche, come quelle sottese alla problematica del following a rule ed il modo stesso di tematizzare la questione del significato, del rapporto fra conoscenza e credenza e dunque, anche, le nozioni di forma di vita  e di gioco linguistico, son tutti casi -mi pare-, di arricchimento effettivo dello strumentario dialettico. Ma naturalmente lo sono, se disancorati dal rinvio -fondamentale, invece, e ineliminabile in Wittgenstein- alla tematica della Begründung  -o, meglio, della mancanza di Begründung.[p1]

  2 - Moore e l’idealismo.
 Com’ è noto, momento fondamentale dell’ eleborazione di G.E. Moore fu la confutazione del punto di vista idealistico; ed è altrettanto noto che l’ ultima opera di Wittgenstein -Über Gewißheit- raccoglie riflessioni, il cui punto d’ avvio è costituito esattamente dalla valutazione degli argomenti anti-idealistici di Moore.[p2]

 Sarebbe sbagliato, però, leggere le pagine wittgensteiniane come se fossero, anch’esse, orientate a prender posizione intorno alla sostenibilità o meno dell’ orientamento idealistico: che si debba scegliere per l’ uno o l’altro dei due ‘eterni protagonisti’ -secondo alcuni- della storia filosofica (il materialismo o l’ idealismo), è estraneo alla prospettiva wittgensteiniana e non, come potrebbe sembrare, per un fondamentale suo agnosticismo.
 Il fatto è, piuttosto, che con Wittgenstein -anche  con Wittgenstein (ma, ad es., pure con Hegel)- il centro focale della riflessione filosofica non è più dato, ormai, dal problema epistemologico e, dunque, dalla questione del ‘primato del pensiero o dell’ essere’. Piuttosto, esso è divenuto quello delle forme logico-linguistiche, in cui si dispiega l’ esperienza umana.

 In questa prospettiva, Wittgenstein non ha più da decidere quale sia il protagonista principale -il pensiero o l’ essere (seppure con queste rigide espressioni riusciamo effettivamente ad intendere qualcosa)-; la sua preoccupazione, come sappiamo, si fa piuttosto analitica -volta, questo intendo dire, a descrivere cosa effettivamente avvenga, quando parliamo o pensiamo, quando siamo sul serio impegnati ad affrontare problemi quotidiani o questioni scientifiche e perfino filosofiche.
 Insomma, l’ orizzonte della riflessione  wittgensteiniana è quello dell’ esperienza, di una dimensione, quindi, che -in generale- risulterebbe incomprendibile, se protagonista di essa dovesse essere -almeno principalmente- solo uno dei due  e non, invece, il continuo rinvio fra uomo e situazione, tra pensiero (un certo  pensiero) ed essere (un certo  essere).

 Sappiamo, inoltre, che -per Wittgenstein- è illusorio cercare nel mondo il fondamento del mondo, la sua Begründung. Pur se in modi diversi, sia il materialismo che l’ idealismo, invece, pretendono affrirlo questo fondamento. Dunque, per Wittgenstein sono entrambi illusori e non avrebbe certo senso scegliere l’ una o l’ altra illusione.[10]

 Quale, dunque, il senso della riflessione di Wittgenstein sulla confutazione anti-idealistica di Moore? Puntualizzare alcune difficoltà, chiarire alcuni strumenti analitici. Ma entriamo nel merito della questione.

 Per far ciò, è prima necessario ricostruire almeno i lineamenti fondamentali dell’ argomentazione anti-idealistica, sviluppata da G.E. Moore.
 A primo chiarimento, tuttavia, teniamo presente che: “ fino al 1898 Moore e Russell erano stati degli idealisti: sotto l’ influenza di Stout, ma soprattutto di McTaggart, essi consideravano Appearence and Reality di Bradly  come un grande testo, in cui quasi sembrava depositata tutta la conoscenza dell’ essere che mente umana possa concepire. Ma nel 1898 entrambi si alla filosofia idealistica e passarono armi e bagagli al realismo. Russell racconta la cosa in maniera assai colorita: .”[11]

 Per comprendere quanto sia importante che per Moore -e per Russell-   significhi sostanzialmente Bradley ( e Berkeley), consideriamo questa dettagliata riflessione dello stesso Moore:
 “... c’ è una certa dottrina, molto diffusa tra i filosofi di oggi, la quale si può mostrare, con una semplicissima riduzione, asserire che due cose distinte sono e insieme non sono distinte. Si asserisce una distinzione: ma si asserisce anche che le due cose distinte formano una . Ma, si sostiene, poiché esse formano un’ unità di tal genere, ciascuna di esse non sarebbe quello che è indipendentemente dalla reciproca relazione. Quindi considerare una o l’ altra per se stessa è fare un’ astrazione illegittima. Il riconoscimento che ci sono e in questo senso, è considerato come una delle principali conquiste della filosofia moderna. Ma qual è il senso che si annette a questi termini? Un’ astrazione è illegittima se, e solo se, si tenta di asserire di una parte  (di qualcosa di astratto) ciò che è vero soltanto dell’ intero  cui essa appartiene: e forse può essere utile mettere in rilievo che ciò non si dovrebbe fare. Ma l’ applicazione che attualmente si fa di questo principio, e che forse dovrebbe venir espressamente riconosciuta come suo significato, è tutt’altro che utile. Il principio è usato per asserire che certe astrazioni sono illegittime in tutti i casi; che ogni volta si tenti di asserire una qualunque cosa di ciò che è parte di un intero organico, ciò che si asserisce può essere vero solo dell’ intero. E questo principio, ben lungi dall’ essere un’ utile verità, è necesariamente falso. Infatti se l’ intero può, anzi deve, essere sostituito alla parte in tutte le proposizioni e in tutti i casi, ciò può essere soltanto perché l’ intero è assolutamente identico alla parte. Se, quindi, ci si dice che il verde e la sensazione di verde sono certamente distinti ma tuttavia non separabili, o che è un’ astrazione illegittima considerare l’ uno indipendentemente dall’ altra, ciò che tali cautele sono impiegate ad asserire è che, sebbene le due cose siano distinte, tuttavia non soltanto si può, ma si deve, trattarle come se non lo fossero. Perciò molti filosofi, pur ammettendo una distinzione, tuttavia (seguendo la scia di Hegel) affermano decisamente, in una forma verbale un tantino più oscura, il loro diritto anche a negarla. Il principio delle unità organiche, come quello dell’ analisi e della sintesi combinate, è usato soprattutto per difendere la pratica di sostenere insieme due proposizioni contraddittorie, ogni volta ciò sembri conveniente. In questo, come in altri casi, il principale servizio reso da Hegel alla filosofia è consistito nel dare un nome, erigendolo a principio, ad un tipo di fallacia cui l’ esperienza aveva mostrato che anche i filosofi, come il resto dell’ umanità, sono inclini. Non c’ è da meravigliarsi che abbia seguaci ed ammiratori.”[12]

 Penso che la lunga citazione si giustifichi per la sua chiarezza e rilievo. Come d’ altronde la critica ha ampiamente documentato, ciò che in Inghilterra -tra fine Ottocento ed inizio Novecento- appare come , è in realtà un pensiero, che su punti decisivi si discosta da quello di Hegel.[13]
 Si badi, ad es., ai due temi centrali dell’ esposizione di Moore: deriverebbe da Hegel un pensiero, che dissolve la differenza nell’ unità della relazione, con la conseguenza di vietare ogni giudizio determinato.

 Se così stessero le cose per Hegel, risulterebbero incomprensibili, poniamo, quelle pagine, in cui proprio Hegel sottolinea la fertilità del punto di vista dell’ (e dell’ empirismo), sia in ambito pratico che teoretico, per assicurare precisione e determinatezza ai concetti ed ai comportamenti; ed ancora le pagine, in cui egli stesso caratterizza con esattezza e precisione (anche anticipatrici) il necessario convenzionalismo delle Einzelwissenschaften; ma più in generale, se quella di Moore fosse un’ adeguata descrizione della filosofia hegeliana, ne andrebbe dispersa la dimensione fondamentale, che trova la sua più compiuta espressione nella centralità della Arbeit  e della Mühe per lo svolgersi -tormentato, contraddittorio- della vicenda dello spirito, ovvero per la storica  costruzione della Bildung.[14]
 Comunque, tornando a Moore, ciò che conta sottolineare è che, per lui (come anche per Russell), dire significa dire una prospettiva che, in nome della relazione, impedisce -in quanto astrazioni illegittime- la possibilità di giudizi puntuali della forma questo ha la qualità Q>>; ed essendo la relazione eminentemente quella tra ‘mente’ e ‘cosa’, tra ‘pensiero’ ed ‘essere’, l’ idealismo è una prospettiva che non riconosce realtà alla ‘cosa’, se non in quanto relazionata al ‘pensiero’, se non in quanto interna ad una situazione del pensiero. Comprendiamo, dunque, perchè le varie pagine scritte da Moore in confutazione dell’ idealismo intendano rispondere a due domande fondamentali: (a) come sappiamo che esistono oggetti fisici; (b) quale senso e quale validità dobbiamo riconoscere alla classica formula esse est percipi.

 Nella Confutazione dell’ idealismo del 1903[15], Moore analizza in particolare l’ esse est  percipi, argomentando che, qualunque cosa possa significare, quel principio asserisce, comunque, che tutto ciò che è, è “un oggetto mentale”[16], che “tutto ciò che è, è esperito.”. Il commento di Moore è netto:” ciò che voglio sostenere è appunto che questo non è vero.”[17]
 Che il significato dell’ sia proprio quello, di cui Moore vuol mostrare la falsità, è accertabile, se si considerano i diversi sensi che alla formula in questione derivano dall’ ambiguità semantica dell’ est>>, che in essa compare: in un caso solamente -quello, cioè, del significato che ad essa Moore ha dato- la formula aquista un preciso rilievo idealistico. Vediamo.

 L’   potrebbe essere inteso in tre sensi diversi: (I) come espressione di identità, per cui il significato della formula sarebbe quello di una definizione - i due termini, e   son sostituibili l’ un con l’altro-; è chiaro che, se valesse quest’ interpretazione non sarebbe un principio, né avrebbe rilievo sul piano epistemologico. (II) Un’ altra legittima interpretazione di potrebbe esser questa: esso va inteso in quanto affermazione che il è parte di  , nel senso che quest’ ultimo è un insieme di cui è un aspetto. In questo caso si dovrebbe dice che prevede un certo numero di qualità -che Moore indica con X-  ed in più la qualità ; se le cose stessero così, è evidente che mentre varrebbe  la proposizione esse É percipi [esse implica percipi], non varrebbe l’ inversa, cioè percipi É esse, appunto perché sarebbe uguale a plus percipi>>. (III) La terza possibile interpretazione intende come asserzione che “ogni qual volta si ha X si ha anche “ - è esattamente quest’ ultima interpretazione del principio, l’ unica possibile dal punto di vista dell’ idealismo, “che -dice Moore- mi sono assunto di confutare”.[18]
 In Proof of an external world, del 1939[19], Moore produce, contro l’ , un interessante argomento: nell’ orizzonte dell’ esperienza va introdotta la distinzione -che non ha nulla di assurdo, quindi, non vi son motivi per escluderla in principio- fra cose, che mi si possono  presentare nello spazio e cose, che di fatto son presenti  nel mio spazio -ovvero, tra esperienze possibili  ed esperienze attuali. E’ del tutto chiaro che, posta la non assurdità di questa distinzione e, dunque, la sua legittimità di principio, l’ viene a cadere; esattamente il fatto che sia lecito parlare di esperienza possibile, viola il principio idealistico, perché dimostra la  non  inseparabiità di essere ed esser percepito.

 L’ interessante di questo argomento sta nel rilievo dato alla dimensione del possibile, che viene posta in contrasto con la prospettiva idealistica. In Moore, però, dobbiamo cogliere -anche- un altro aspetto della questione.
 La contrapposizione tra e serve a Moore per ribadire l’ orientamento -suo e di Russell, una volta ‘ribellatisi’ all’ idealismo- a ‘rompere le relazioni’, a presentare, cioè, una concezione del reale, come universo di puntuali presenze, che garantisce a queste ultime una sussistenza effettiva, a prescindere dall’ esperienza, nel senso (idealistico) di relazione interna alla mente.

 Il motivo è anticipata nel testo del 1903, quando Moore propone la tesi, secondo cui “l’ idealista (sostiene) che oggetto e soggetto sono necessariamente connessi soprattutto a causa di ciò, che egli non (riesce) a vedere che essi son distinti, che sono due. Pensando il ‘giallo’ e pensando la ‘sensazione di giallo’ (l’ idealista) non riesce a vedere come nella seconda  ci sia alcunché che non ci sia nel primo”[20] Ma cos’ è questo diverso, di cui l’ idealista non riesce e coglier la presenza?
 Ogni sensazione, risponde Moore, è costituita di due parti: (a) la coscienza -cioè, l’ elemento che compare quale che sia la sensazione- e (b) la sensazione stessa - che non è parte interna della coscienza, in quanto è la cosa stessa; per riprendere l’ esempio fatto nella citazione, è esattamente la sensazione di ‘giallo’.[21]

 L’ idealista questo non lo comprende e, dunque, riduce tutta la sensazione ad evento interno alla coscienza.
 Già il fatto di avere sensazioni è -lo ha affermato Moore- un ‘uscir fuori’ dal limite della mente, la cui superficie -a dir così- risulta ‘perforata’ da quell’ evento, reale e non puramente psichico, che è, appunto, la sensazione.
 Dunque, da un lato, la coscienza, dall’ altro, l’ evento stesso: quale la mediazione? Per cogliere meglio il problema e cercarne la risposta -se pure esiste nella riflessione di Moore- torniamo ai testi.

 Già abbiamo accennato che, per Moore, la confutazione dell’ idealismo si sostanzia nell’ analisi di due questioni fondamentali, di cui finora abbiamo esaminato la prima (l’ esse est percipi): passiamo ora alla seconda (sono reali le cose e gli eventi fisici e come sappiamo che lo sono?).
 Convinzione di Moore è di essere in grado di togliere, finalmente, quello che Kant aveva denunciato come un autentico scandalo  per la filosofia: il dover accettare solo per fede l’ esistenza degli oggetti esterni e, conseguentemente, di non poter replicare con fondate ragioni a chi ponesse in dubbio quella stessa esistenza.[22]                                                                                                                                                                   
Tenendo presente che la natura non può essere reale se non esistono cose  ed  eventi  reali - ma anche che basta soddisfare quest’ ultima condizione, per provare la realtà della natura-, Moore ritiene di poter provare l’ esistenza di cose materiali  o di cose fisiche, ricorrendo ad una loro definizione molto chiara -più chiara di quanto solitamente non facciano i filosofi; ma -avverte egli stesso- si tratta di una definizione bizzarra (queer) e, per certi aspetti, perfino insoddisfacente: è la definizione per ostensione (o definizione ostensiva), dunque, mediante l’ indicazione di esempi.[23]

 “Sembra a me, leggiamo in Proof of an external world[24], che -ben lungi dall’ essere vero, come Kant riteneva, che vi sia solo una possibile prova dell’ esistenza delle cose esterne a noi, ed esattamente quella che lui stesso fornì- proprio in questo momento io posso fornire un largo numero di prove differenti, ognuna delle quali è certamente rigorosa... Ad es., posso ora provare che esistono due mani umane. Come? esibendo le mie due mani e dicendo, mentre faccio un qualche gesto con la destra, e, facendo poi un analogo gesto con la mano sinistra, indicare . E se, facendo così, ho provato ipso facto l’ esistenza di cose esterne, vedete facilmente che potrei farlo ancora numerose volte in altri modi...”[25]

 Dunque, l’ immediata presenza di quell’ oggetto nel mio spazio d’esperienza -ma che è contemporaneamente evidenza immediata anche di altri- prova l’ esistenza con certezza dell’ oggetto in questione. Il quale, da parte sua, è definibile ostensivamente, in quanto basta indicarlo, per definirlo appunto ed ottenere subito l’ assenso comune circa la sua effettiva presenza: ecco cosa prova la realtà di . Due osservazioni sono importanti.
 La proposizione che Moore enuncia, quando dice indicando un oggetto fisico, non è la conseguenza di un processo inferenziale: non vi sono altre proposizioni, che la giustifichino logicamente; si potrà semmai da quella far iniziare un processo inferenziale, ma essa -la proposizione in questione- è, a dir così, ‘logicamente prima’, autonoma, indipendente.[26]

 E la cosa non meraviglia: già sappiamo, infatti, -dalle osservazioni circa l’ esse est percipi  e dall’ analisi della sensazione-, che -contrariamente alla tesi idealistica- percepire o fare esperienza equivale alla ‘violazione’ dello spazio mentale da parte di un evento effettivo, che semplicemente si dà. 
 Ma dobbiamo osservare, anche, che proposizioni del tipo “esiste il mio corpo” , “esistono altri corpi”, “la terra è esistita molto prima che io ne prendessi coscienza”, ecc., -come si vede, tutti esempi di confutazione dell’ idealismo-, appartengono ad una sorta di riserva comune, che Moore indica con l’ espressione Common Sense View (CSV). Tale riserva è costituita da proposizioni ‘logicamente indipendenti’ (nel senso che dicevo prima) e da inferenze tratte da esse; com’ è ovvio, CSV è patrimonio comune agli uomini (in condizioni normali) e lo stesso idealista -se non altro attraverso il suo comportamento- lo accetta, lo riconosce vero. Non per caso, due possibili adulterazioni delle “condizioni normali”, che Moore indica, sono la corruzione apportata dalla filosofia o dalla teologia.[27]

 Tuttavia, con CSV esistono difficoltà: ad es., quando si dice   (che è, sappiamo, una delle conoscenze certe, che appartengono a CSV), non so esattamente quanto prima la terra sia esistita; e quando, indicando un oggetto, dico questo  e ne dimostro ostensivamente l’ esistenza, inferisco, anche, che analogamente esistono pure altri oggetti “like this” - ma cosa significa, esattamente, quel “like this”? Nè la riserva di conoscenze certe, che costituisce CSV, né la definizione ostensiva mi consentono di rispondere alla domanda.
 Dunque, fa parte di entrambe -di CSV e dell’ ostensione- un’ insuperabile vaghezza, mancanza di determinazione ed esattezza.[28] Ma c’ è, pure, un’ altra difficoltà.

 Il patrimonio di conoscenze certe, fornito da CSV, è sottoposto da Moore ad un’ elaborazione logica, che segue tracciati e regole, presupposti ad esso -nel senso che se immaginassimo diversamente costituito quel patrimonio -voglio dire includente certezze, diverse da quelle che effettivamente offre-, i modi  della sua elaborazione logica resterebbero gli stessi, perché sarebbero, sempre, tracciati e regole della stessa logica formale. In altre parole, fra contenuti della conoscenza certa e forme della loro organizzazione logica non c’ è mediazione.[29]

 3 - Wittgenstein su Moore.
  E’ noto che un punto fondamentale della differenza, che Hegel individuava, fra scetticismo antico e scetticismo moderno, consiste nell’ atteggiamento, assunto dall’ uno o dall’ altro, nei confronti del ‘senso comune’ e, in generale, della conoscenza intellettuale ed empirica.[30]

 Lo scetticismo antico, secondo Hegel, era capace di elevarsi a quell’ altezza, che gli consentiva di cogliere la contraddittorietà di qualunque conoscenza finita e, così, di aprire obiettivamente la strada verso la ragione; lo stesso ‘conformismo pratico’ (politico, religioso, morale), che caratterizzava, ad es., Pirrone, non aveva il senso dell’ accettazione  di determinate credenze, sì piuttosto quello di una conveniente scelta pratica, che in nessun modo implicava il ritiro dell’ epoch, ma consentiva invece di avvicinarsi all’ ideale di vita ‘priva di turbamenti’, a cui in sostanza lo scettico si ispirava.
 Con Montaigne e con Pascal[31], al contrario (ovviamente, sto schematizzando), lo scetticismo tende ad assumere la funzione di autorizzazione al conformismo ed al fideismo religioso, ma nel senso, però, di rendere più plausibili le credenze comuni (tradizionali, dunque, anche religiose), data la contraddittorietà e mancanza di fondamenta sicure della conoscenza intellettuale. In epoca moderna, insomma, assistiamo ad una sorta di convergenza o alleanza tra scettcismo, empirismo e senso comune, in quanto l’ accoglimento del primo finisce con l’ essere autorizzazione all’ accettazione dei secondi. Lo stesso Devid Hume -che pure avvertiva con finezza le contraddizioni del senso comune-, ricorreva alla “everyday life” per far scomparire il sottile, inarrestabile e dissolvente criticismo della ragione.

 Tra Ottocento e Novecento, assistiamo in Gran Britagna ad un fenomeno diverso (che già abbiamo visto in Moore): il senso comune diviene l’ arma a cui si ricorre contro  lo scetticismo.
 In sostanza, questo mutato rapporto fra scetticismo e senso comune deriva dal fatto che il primo si lega, nel periodo che ci interessa, a istanze di ‘rigore’ flosofico espresse da ambienti idealistici, ma in realtà contraddette non solo dai comportamenti effettivi della everyday life, sì anche dalla pratica scientifica; J. L. Austin insisterà, inoltre, nel sottolineare il frequente legame fra quelle ‘istanze di rigore’ filosofico ed autentici abusi linguistici.[32]

 Se G. E. Moore è un classico esponente di questo volgersi del common sense contro lo scetticismo, lo è anche, però, degli equivoci, che il fenomeno sottende.
Abbiamo visto, ad es., che Moore derivava la proposizione dai due più semplici enunciati this>> e . Ma, osserva Wittgenstein, che una proposizione si faccia inferire da altre[i], non costituisce una prova a suo sostegno, dato che le proposizioni da cui viene inferita non sono più sicure di essa stessa.[33] I motivi, che stanno al fondo dell’ osservazione di Wittgenstein, sono almeno tre.

 Moore aveva usato l’ espressione   nel senso di so con certezza che P è vero; ed aveva indicato le proposizioni, appartenenti a CSV, come altrettanti casi di P.
 Wittgenstein accetta quest’ uso di to know; nega però che il semplice   possa essere evidenza a sostegno della verità di P; quella proposizione, infatti, manca ancora di prova (Beweis). In altre parole, anche se P è una proposizione, che dice una certezza di CSV, in tanto sono autorizzato ad usare per essa il verbo to know, in quanto posso fornire una prova valida  della verità di P. Ma ancora -ecco il secondo motivo wittgensteiniano- il fatto che P possa inferirsi (herleiten) da precedenti Q ed R non  rientra nelle prove valide: perché, (1), prima bisognerebbe aver dimostrato la verità di Q e di R e, perché l’ inferenza logica in quanto tale non è prova di verità. Infine -questo è il terzo motivo- va distinto rigorosamente da.
(1) - In G: §.30, Wittgenstein è esplicito: dalla mia certezza (Gewißheit) non sono affatto autorizzato a ricavare . 


[2] - Cf. M.B.Hintikka, Investigating Wittgenstein, Oxford 1896 (ed. it., Il Mulino 1990). “Secondo l’ interpretazione fornita da M. Trinchero nei due saggi introduttivi premessi alla traduzione italiana delle Philosophiscbe Untersuchungen e delle Bemerkungen über die Grundlagen der Mathematik, l'indagine sui fondamenti dell'aritmetica rappresenta l'asse teorico di riferimento intorno al quale la filosofia di Witt­genstein si è articolata nelle diverse fasi del suo sviluppo.  In base a questa impostazíone, l'evoluzione del pensiero wittgensteiniano assume la forma di “una traslazione da un punto all'altro di un sistema, intorno ad un medesimo centro”, piuttosto che configu­rarsi come un "taglio netto" secondo uno schema di periodizzazione (alla Hartnack) spezzato in due fasi distinte e conrapposte.” (G. Franck, “Fondazione della conoscenza e fondamenti dell’ operare (Moore e Wittgenstein)”, in Wittgenstein, NUOVA CORRENTE nn. 72-73/ 1977: 46.
 “Schematicamente, il dissidio tra Wittgenstein e Russell si può così riassumere.  Nel Tractatus, Wittgenstein pone il linguaggio come unico termine di riferimento possibile della ricerca filosofica.  Questo, almeno, non pare contestabile.  Dove le interpretazioni possono divergere, e di fatto divergono sensibilmente, è sul problema di definire di quale linguaggio Wittgenstein parli.  Riferendosi alle origini del Tractatus, cioè alle accanite e feconde discussioni sulle categorie della logica simbolica e sul linguaggio dei Principia, che aveva avuto con Wittgenstein, Russell afferma che il linguaggio di cui parla Wittgenstein è il linguaggio ideale dei neopositivisti o, per essere più esatti, quello che verrà chiamato in quel modo dai membri del Circolo di Vienna : un linguaggio, cioè, rigoroso e univoco, col quale costruire lo schema categoriale in cui inserire i dati immediati dell’ esperienza.  Rigorosamente dualista, anche se non più platonico, Russell, in­terpretando in questo modo il linguaggio di cui si parla nel Tractatus, ac­cetta il primo Wittgenstein, quello, appunto, del Tractatus, e respinge quello che, rispetto al Tractatus così inteso, non può essere altro che un secondo Wittgenstein, quello delle Philosophische Uitersuchungen, che a lui, Russell, appare incomprensibile o sciocco. Contestando a Russell la sua interpretazione del concetto di linguaggio nel Tractatus, Wittgenstein o, piuttosto, i suoi allievi di Cambridge e gli allievi dei suoi allievi, escludono l'esistenza di una profonda soluzione di continuità fra Tractatus e Philosophische Untersuchungen  e vedono piuttosto le lezioni di Cambridge come la realizzazione di quanto nel Tractatus era stato fondato o appena programmato, cioè la riduzione di tutta l'attività filosofica a ricerca colloquiale sul linguaggio comune. La rivolta di Russell e Moore contro il monismo idealistico venne svi­luppata, quindi, lungo due direttrici : da una parte il Circolo di Vienna e i positivisti logici, dall'altra le Philosophische Untersuchungen  e la filosofia ana­litica.” (Pacifico in Quine, 6840 : XIX).

 [3] - Cf. G.H. Von Wright, Wittgenstein, Oxford 1982 (ed. it., Il Mulino 1983). Per veder la cosa anche ‘dall’altra parte’, ecco un tratto ‘wittgensteiniano’ di Socrate: “... la confutazione socratica, l’ ironia di Socrate, mediante la quale sul piano strettamente logico-linguistico si giungeva ad opporre infinite verità, contraddittorie fra loro, fino ... al totale vuoto, alla ‘liberazione’ dalla Verità ...Socrate, volto, mediante la confutazione dialettica ... a restituire l’uomo a se stesso, a far vergognare di sé chi non pensa con la propria testa, chi non chiarisce sé a sé, chi non pensa, cioè chi, attraverso la ricerca e il dialogo, non si rende conto di ciò che pensa e che dice.” (F.Adorno, La filosofia antica .1, Feltrinelli 1961: 157); si confronti questa pagina con le considerazioni, svolte da D. Pears e B. Stroud, “circa l’ esistenza di una connessione intrinseca tra l’andamento rapsodico o ‘dialettico’ del testo di Wittgenstein e il suo modo di intedere l’ attività filosofica: un’ attività che .. non mira ad un sapere ‘sistematico’, ma che, impegnandosi in una situazione discorsiva essenzialmente duale, costringe l’ interlocutore immaginario a perdersi nelle analogie del linguaggio ordinario, a sentire il loro potere seduttivo, per poi cercare la più idonea via d’ uscita da tali ‘incantameni’ attraverso una terapia linguistica, basata su approcci al problerma a più riprese a da prospettive ogni volta diverse.” (B. Steri, Certezza e sapere. Saggio sull’ ultimo Wittgenstein, Bagatto 1990: 26). Un analogo socratismo scettico -quindi, nel senso di una attività filosofica come continua ricerca-  lo si riscontra in un autore, assai significativo per Wittgenstein: intendo George Edward Moore, come nota, ad es., G.Preti, nella sua Introduzione a G.E.Moore, Studi filosofici, Laterza 1971: 24.

  [5] - Con questo termine intendo l’orientamento a negare la funzione della ragione nella determinazione dei principi morali di base; ciò non implica, ovviamente, che ritenga accettabili -almeno per come si danno- le rapide osservazioni, che a Wittgenstein dedica G.Lukàcs, La distruzione della ragione, Einaudi 1959. Così leggiamo in Monk: 149 - “L’ etica non tratta del mondo. L’ etica deve essere ua condizione del mondo come la logica. Così se per comprendere la forma logica occorre saper vedere il linguaggio come un tutto, per comprendere l’ etica bisogna saper vedere il mondo come un tutto. Quando si cerca di descrivere che cosa si vede da questa prospettiva si finisce inevitabilmente col dire cose prive di senso...ma che questa prospettiva sia raggiungibile è fuori di dubbio. V’è davvero dell’ ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico.”In P. Engelmann, Lettere di L.Wittgenstein, La Nuova Italia 1970:70, così leggiamo: “... (in Wittgenstein,) logica e misticismo hanno avuto una sola origine; e si potrebbe dire, con maggior ragione, che Wittgenstein aveva tratto alcune conclusioni logiche dal suo atteggiamento mistico di base verso la vita e verso il mondo. Che egli abbia scelto di dedicare cinque sesti del suo (Tractatus) alle conclusioni logiche, è dovuto al fatto che almeno riguardo ad esse è possibile parlare.” In un altro senso del termine, tuttavia, non si può coniugare Wittgenstein ed irrazionalismo, dacché il problema di Wittgenstein non è mostrare il fallimento dell’ impresa conoscitiva umana (né più in generale chiedersi se l’uomo possa o non conoscere); piuttosto il suo impegno è a mostrare la varietà dei giochi linguistici e delle loro regole: dunque, che cosa di fatto avviene, quando si svolge l’esperienza del conoscere; detto in altre parole, il problema di Wittgenstein “non era escludere dalla significanza gli enunciati che non si attengono rigorosamente ai criteri osservativi della fisica, ma analizzare i diversi procedimenti che danno senso a un enunciato.” (AV 6659: 111). Interessante -perché se ne ricava anche l’indicazione, che -sotto questo rispetto- a Wittgenstein non possono interessare unilateralità come razionalismo e/o irrazionalismo, quanto osserva ancora Penso, a proposito del modo wittgensteiniano di affrontare il tema <linguaggio fenomenologico>: “Una prima risposta è che descrivere il fluire dei dati sensoriali è tanto complicato da risultare inutilizzabile; un linguaggio che descriva il mondo non in termini di dati sensoriali, ma semplicemente in termini di oggetti ha il vantaggio della semplicità. Questo non comporta che l’esigenza dei sostenitori del linguaggio fenomenologico sia sbagliata: , dirà Wittgenstein negli anni Trenta, ... Questa posizione è analoga (e forse influenzò) la posizione dei neopositivisti e dello stesso Carnap, allorché questi abbandonarono l’idea di un linguaggio fenomenologico per un linguaggio fisicalistico.” (AV, 6659: 96). Per il pragmatismo di Wittgenstein, mentre Ayer scrive: “Come sostenevano i pragmatisti, per esempio Pierce e Lewis, cui Wittgenstein venne ad assomigliare sempre più...” (A.J.Ayer, Wittgenstein, London 1985 ; ed. it., Laterza 1986: 183), con maggior cautela lo stesso Wittgenstein scrive: “Voglio dire qualcosa che suona come pragmatismo (wie Pragmatismus klingt). Mi è qui capitata addosso (mir kommt hier ... in die Quere) una sorta di Weltanschauung.” (L.Wittgenstein, Über Gewißheit, Oxford 1977,  §.422 ). Ma, appunto, un testo come il seguente: “Se pensi alle proposizioni come ad istruzioni per costruire modelli, allora diviene più chiara la loro natura pitturale. Infatti, perché un’espressione possa guidare la mia mano, deve possedere la stessa molteplicità che l’azione desiderata.” (Wittgenstein, Philosophical Remarks, Oxford 1964 §.10); da parte sua, D.Bloor vede in Wittgenstein la tesi, per cui il mutamento dei ‘giochi linguistici’ è motivato dalle necessità sociali. (D.Bloor, Wittgenstein. A Social Theory of Knowledge, London 1983: 47-8).
 [6] - Citare per Wittgenstein il Teeteto platonico è cosa ovvia -essendo questo un richiamo più volte fatto dallo stesso Wittgenstein; meno ovvio -ma, forse, non meno importante- è ricordare, anche, un altro dialogo -il Fedone- ed in particolare il tema della misologia, lì affrontato da Socrate in 89a-90bd.

 [7] - “Quando i filosofi usano una parola -’sapere’, ‘essere’, ‘oggetto’, ‘io’, ‘proposizione’, ‘nome’- e si industriano a cogliere l’essenza della cosa, è sempre necessario chiedersi: la parola in questione, nel linguaggio in cui ha il propio luogo (Heimat), è effettivamente usata così? Noi riportiamo le parole al loro uso effettivo, a partire da quello metafisico.” (PU.1: §.116); “Se parlo della lingua (delle parole, delle proposizioni) debbo parlare della lingua quotidiana. Che forse questa è una lingua troppo grossolana, materiale, per ciò che vogliamo dire? E come potrebbe esser costruita un’ altra?  E quanta meraviglias desta, allora, che con la nostra lingua possiamo pure fare qualcosa! Che per le mie chiarificazioni riguardanti la lingua, debba usare l’ intera lingua (non una lingua elementare, provvisoria), già mostra che a proposito della lingua posso mostrare solo l’esterno. Ma come possiamo, allora, contentarci di queste spiegazioni? - Solo che anche le tue domande sono dentro questa lingua; perché una qualche domanda possa esser fatta, bisogno che sia espressa in questa lingua! E i tuoi scrupoli non sono che fraintendimenti. Si dice: non è la parola che importa, ma il suo significato ed al significato si pensa come ad una sorta di parola, pur se diversa dalla parola stessa. Qui sta la parola, qui sta il significato. Il denaro e la vacca, che con quello si può comprare...” (PU.1: §.120); “Un problema filosofico ha la forma .” (PU.1: §.123), “In nessum modo la filosofia dovrebbe sfidare (antasten) l’uso effettivo della lingua, ma semplicemente descriverlo. Infatti, non può dare ad esso un fondamento. La filosofia lascia le cose come stanno. La filosofia lascia come sta anche la matematica e nessuna scoperta matematica può farla sviluppare. Un fondamentale problema di logica matematica è per noi -come per chiunque altro- solo un problema di matematica.”(PU.1: §.124); “La filosofia affronta tutto, ma né spiega né ricava nulla. Poiché tutto si dà apertamente, non c’ è nulla da scoprire: ciò che è nascosto non ci interessa. Si potrebbe chiamare ‘filosofia’ ciò che è possibile prima di ogni scoperta.”(PU.1: §:126). La tipica procedura wittgensteiniana, quando si pone il poblema dell’ uso che facciamo di una parola, è (a) mostrare che di quella parola c’ è una varietà di usi; (b) che questa varietà non si lascia ridurre a specificazioni di un uso centrale, ma piuttosto ha i tratti non lineari e meno rigidi della ; (c) che non implicita l’ esistenza necessaria di un modello o paradigma, né di un particolare stato mentale. Per definire meglio l’ atteggiamento di Wittgenstein -o, almeno, quell’ atteggiamento, che mi appare più meritevole di attenzione e ricco di possibilità di sviluppo-  si consideri, ad es., quanto egli scrive: “Questa spiegazione, come altre che abiamo dato, è vaga ed intende esser tale.” (Wittgenstein, The Blue and the Brown Books, Oxford 1975: 84); questa pagina va letta, mi pare, in continuazione con quell’ orientamento, che stava alla base della critica lockiana alla sillogistica aristotelico-medievale; ma  anche come segno che l’ orizzonte wittgensteiniano è quello, al cui centro c’ è un uomo che si impegna a risolvere difficoltà che la vita gli propone, costruendosi strumenti, il cui senso -e la cui stessa coerenza- sta, appunto, nel contesto pratico da cui sorgono e nelle finalità a cui son volti, contro ogni formalismo.
 [8] -”... non possiamo comprendere Wittgenstein se non ci è chiaro che era la filosofia che gli stava a cuore e non la logica, la quale si trovava ad essere semplicemente l’ unico strumento adatto per elaborare la sua raffigurazione del mondo. E in questo il Tractatus  riesce in modo sovrano, concludendo con implacabile coerenza con l’ annientare il risultato, di modo che la comunicazione del suo pensiero di base, o piuttosto della sua tendenza di base -che, secondo i suoi stessi risultati, non può in linea di principio essere influenzata da metodi diretti- è raggiunta per via indiretta... Ciò che egli vuole dimostrare è che tali sforzi del pensiero umano di sono un tentativo senza speranza di soddisfare l’ eterno bisogno metafisico dell’ uomo.” (P. Engelmann, op. cit.: 68-9). In Tractatus §.6.45, leggiamo: “Cogliere il mondo sub specie aeterni è coglierlo come un tutto limitato. Sentire il mondo come un tutto limitato è il mistico.”; nel precedente §. 5.632, “Il soggetto non appartiene al mondo, ma è piuttosto un limite del mondo” (L.Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Frankfurt/Main 1973). Interessante questo giudizio di Kaynes: “ Il graduale perfezionamento del metodo (logico-) formale a opera di (Russell), di Wittgenstein e di Ramsey, si era tuttavia risolto nello svuotare (il campo della logica) pian piano del suo contenuto e ridurlo sempre più a nude ossa, finché parve escludere non solo ogni esperienza, ma la maggior parte dei principi, abitualmente ritenuti logici, del pensiero. La soluzione di Wittgenstein fu di considerare ogni altra cosa come una specie di allucinato non-senso, di gran valore per il singolo, ma non suscettibile di valutazione esatta.” (J.M.Keynes, Politici ed economisti, Einaudi 1974: 296. Sott. mia, S.G.). Secondo Y. Lurie, “intento di Wittgenstein è demolire la pretesa filosofica di fondare il comportamento cuturale dell’ uomo su intelletto e ragione, diminuendo il loro ruolo nell’ emergere del comportamento culturale. “ (Y. Lurie, “Culture as a Human Form of Life: A Romantic Reading of Wittgenstein”, in International Philosophical Quarterly, vol.XXXII-1992: 197). “Tutta una generazione di allievi poté considerare Wittgenstein un positivista, perché egli aveva qualcosa di enorme importanza in comune con i positivisti: aveva tracciato la linea di separazione fra ciò di cui si può parlare e ciò di cui si deve tacere, cosa che anch’essi avevano fatto. La differenza è soltanto che essi non avevano niente di cui tacere. Il positivismo sostiene -e questa è la sua essenza- che ciò di cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Invece Wittgenstein crede appassionatamente che tutto ciò che conta è proprio ciò di cui, secondo il suo modo di vedere, dobbiamo tacere.” (P.Engelmann, op. cit.: 70).

  [9] - Consonante con quanto dico mi pare questa osservazione di Di Giacomo: 15 - “... l’ estetica si presenta nella filosofia di Wittgenstein non come un ambito specialistico di problemi, bensì come la condizione di possibilità e di pensabilità del nostro dire e comprendere di volta in volta la realtà. Si presenta cioè come la condizione necessaria del contingente [sott. mia, SG], condizione che può essere compresa solo dall’ interno di quest’ ultimo”.; che tutto ciò comporti una consonanza, almeno, con una prospettiva dialettica lo si ricava dallo stesso Di Giacomo, che così prosegue alla p. 17: “Qui troviamo quelle nozioni di ‘senso comune’, di ‘certezza’ e di ‘forma di vita’, che costituiscono l’ eredità che Wittgenstein ha lasciato a tutte quelle filosofie che riconoscono nella necessità del contingente il problema stesso della comprensione”. Si noti il modo, ovviamente non casuale, in cui è costruito il §. 253 di Über Gewißheit -che per questo scopo riproduco, anche, nel testo tedesco: “Am Grunde des begründeten Glaubens liegt der unbegründete Glaube [Alla base della credenza fondata sta la credenza non fondata]”. “Secondo il Tractatus, (il linguaggio fattuale) rispecchia il mondo effettivo, presentandolo com’è, e possibili mondi alternativi col presentarli come essi potrebbero essere. Poiché esprime tutto ciò che può essere detto, pone un limite a ciò che può essere immaginato o concepito. Al di là di quel limite non c’è nulla, cioè nulla dello stesso genere: ci sono fatti e possibilità, e al di là di essi, nulla. Questo sembra indicare che ogni discorso non fattuale sia privo di significato. Ma Wittgenstein distingue due modi di capire. Per capire un’affermazione fattuale, dovete conoscerne il senso, cioè la possibilità che, se fosse attualizzata, la renderebbe vera. Altri generi di affermazione mancano di senso ma non sono per questo privi di significato col rivelare certi aspetti del mondo e della vita umana. Questo è l’elemento mistico nella filosofia giovanile di Wittgenstein.” (R.L.Gregory, Enciclopedia Oxford della mente, Sansoni 1991: 939). “Elemento centrale del (Tractatus) è la distinzione tra ‘dire’ e ‘mostrare’: chiave di volta per comprendere l’inutilità della (russelliana) ‘Teoria dei tipi’ in campo logico e affermare l’ineffabilità delle verità etiche... La famosissima affermazione che conchiude il Tractatus - - è nello stesso tempo espressione di una verità logico-filosofica e di un precetto morale. Sotto questo aspetto, come ha osservato Engelmann, il libro richiama fondamentalmente la campagna di Karl Kraus volta a salvaguardare la purezza del linguaggio ridicolizzando la confusione del pensiero che deriva dal suo cattivo uso. Il nonsenso derivante dal tentativo di dire ciò che può unicamente mostrarsi è inaccettabile tanto sul piano logico quanto su quello etico. “ (R.Monk, op. cit.: 169). Per l’accostabilità del ‘misticismo’ di Wittgenstein al pensiero di Jaspers, cf. K.Salamun, “Wittgenstein und die Existenzphilosophie”, in  Wiitgenstein und sein Einfluß auf die gegenwärtige Philosophie, Wien HPT 1980: 65. Il nesso, che nega necessariamente la tesi di una dimensione ineffabile -la quale, dunque, non può esser detta  ma sì mostrata  unicamente-, alla concezione della filosofia come “activity” e non “a doctrine”, è argomentato da E.Gellner, Words and Things, London 1959: 79.
[10] - Così Russell racconta la reazione di Wittgenstein al suo progetto di scrivere un libro sulla nateria: “Ho discusso con lui sulla materia. Egli ritiene che si tratti di un problema di poco conto. Ammette bensì che, se non c’ è la materia, non esiste nient’ altro che lui stesso, ma dice che la cosa non lo turba perché fisica, astronomia e tutte le altre scienze possono ugualmente venire interpretate come vere.” (B. McGuinness, op.cit.: 163).

[11] - Così G. Preti, nella sua Introduzione a G.E. Moore, Studi filosofici, op. cit.: 24);proseguendo, però, Preti osserva che “non risulta chiaro” il senso del realismo di Moore, il quale “resta troppo sfumato nei suoi contorni gnoseologici e speculativi” (G. Preti, op.cit.: 25). Utile anche il modo, in cui l’ originario idealismo di Moore e di Russell è descritto da McGuinness, op.cit.: 133-4. Sullo stesso tema, ma con particolare insistenza sugli equivoci presenti nel Moore post-idealista, v. A. Granese, G.E. Moore e la filosofia analitica inglese, La Nuova Italia 1970: 48-9.
 [14] - Una pagina analoga a quella di Moore la troviamo in B. Russell: “Hegel credeva che per mezzo di un ragionamento apriori si potesse mostrare che il mondo deve avere varie caratteristiche importanti ed interessanti, perché ogni mondo, senza queste caratteristiche, sarebbe impossibile e contraddittorio. Perciò la sua è un’ indagine della natura dell’ universo, fin dove questo può essere dedotto semplicemente dal principio che l’ universo deve essere logicamente coerente con se stesso... non riterrei la ragione di Hegel, anche se fosse valida, propriamente attinente alla logica: sarebbe piuttosto un’ applicazione della logica al mondo attuale. La logica in sé riguarderebbe questioni come ciò che è coerente con se stesso, che Hegel, per quanto ne so, non discute. E, sebbene critichi la logica tradizionale e dichiari di sostituirla con una sua perezionata, in un certo senso la logica tradizionale con i suoi errori è assunta senza critica e inconsciamente attraverso il suo ragionamento.” (B.Russell, La conoscenza del mondo esterno, Longanesi 1975: 40). Nonostante che Hegel sia letto, qui, attraverso Bradley, mi pare interessante notare che Russell coglie, in qualche modo, (a) che , nel senso di Hegel,  non è lo stesso che , nel senso della logica formale (in quanto quella hegeliana intende essere logica del mondo), e che, dunque, -in linea di principio- fra le due non esiste conflitto; (b) che la prospettiva fondamentale della riflessione di Hegel è orientata al toglier le contraddizioni. Interessante questa recente affermazione di G.Gabriel: “L’ ironia sta nel fatto che la filosofia analitica, seguendo la tradizione anti-hegeliana di Russell, doveva riscoprire l’ olismo attraverso il   di Frege... Questo principio sembra la versione semantica di un principio metafisico di Hegel, che Frege derivava dal suo maestro Lotze, pur limitandolo alle proposizioni.” (G. Lotze, “La Logica di Hermann Lotze e la nzione di validità”, in Rivista di filosofia n.3 - 190: 459-60). Sugli equivoci della recezione anglo-sassone della lezione hegeliana, cf. Cottingham, op. cit.: 94; da parte sua, A. Negri, Hegel nel Novecento, Laterza 1987: 37-8, parla di “tinta mistica e ... inclinazione scettica del neoidealismo bradelyano, in cui invano cerchi in azione il fondamentale concetto hegeliano di mediazione...”. Sull’ interpretazione russelliana di Hegel, cf. M. Horkheimer, “Il più reecente attacco alla metafisica”, in Teoria critica. Scritti 1932-1941. (II), Einaudi 1974.

 [21] - “Quello che la mia analisi della sensazione si proponeva di mostrare è che ogni volta che ho una semplice sensazione o idea, di fatto avverto qualcosa che, ugualmente e nello stesso senso, non è un aspetto inseparabile della mia esperienza. L’ avvertenza, che ho sostenuto essere inclusa nella sensazione, è l’ unico fatto identico che costituisca ogni genere di conoscenza: ,  quando io lo esperisco, è altrettanto un oggetto, e altrettanto poco un mero contenuto della mia esperienza, quanto la più distinta e indipendente cosa reale chi io possa avvertire. Quindi non esiste il problema di ‘come possa uscire dal cerchio delle nostre idee o sensazioni’. L’ avere semplicemente una sensazione è già essere fuori di quel cerchio: è conoscere qualcosa che è altrettanto veramente e realmente non una parte della mia esperienza quanto qualunque altra cosa io possa conoscere.” (Studi filosofici: 68-9). Per le origini settecentesche di questa tesi, nella filosofia del common sense di Th. Reid, cf. R. Olson, Filosofia scozzese e fisica inglese, Il Mulino 1983: 57.
 [22] - Il richiamo a Kant si trova nel già citato Proof of an external world; l’ affermazione di Kant si trova nel Vorrede alla 2° ed. della Kritik der reinen Vernunft: “... so bleibt es immer ein Skandal der Philosophie und allgemeinen Menschenvernunft, das Dasein der Dinge außer uns ... bloß auf Glauben annehmen zu müssen, und, wenn es jemand einfällt es zu bezweifeln, ihm keinen genugteuenden Beweis entegegenstellen zu können.” (E. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Reclam 1966: 44). 

  [25] - “Fin dai tempi di Descartes uno dei problemi principali dell’ epistemologia è se si possa conoscere con certezza la verità di una proposizione contingente. Moore affermava che, per quanto lo riguardava, era certo di conoscere la verità di in gran numero di queste proposizioni. Portava ad esempio, tra le altre, le seguenti proposizioni: che egli era un essere umano, che l’ oggetto che stava additando era la sua mano, o che la terra esisteva già da molti anni. Poiché conosceva queste cose, poteva anche provare l’ esistenza di un mondo esterno alla sua mente -e così risolveva ... un annoso problema. Inoltre Moore si diceva convinto di non essere assolutamente il solo ad esser certo di cose di questo genere, ma che oltre a lui anche la maggior parte degli esseri umani, in circostanze normali, può correttamente rivendicare il possesso di queste certezze. Ancora Moore pensava che la nostra conoscenza della maggior parte di queste proposizioni del , come le chiamava, fosse fondata su qualche prova della loro verità. Tuttavia spesso non siamo in grado di dire quali siano queste prove ... Wittgenstein pensava che l’ asserzione (di Moore), secondo la quale egli conosceva per certo questo o quello, fosse filosoficamente senza valore: infatti non si può dire correttamente che qualcuno conosca la maggior parte di quelle cose che sono materia del e che Moore affermava di conoscere.” (Von Wright, op. cit.: 202; 204).
 [26] - Frutto di inferenza è, invece, una proposizione più complessa: “I am perceiving a human hand”, la quale consegue da precedenti proposizioni semplici, come “I am perceiving this” e “This is a human hand”. (v. Classics, op. cit.: 63).

 [27] - Non è difficile riconosce in questo giudizio l’ influenza di David Hume, del quale per altro Moore era studioso. In “A defence of Common Sense”, del 1925, Moore indica due liste di proposizioni della Common Sense View. (cf., Classics..., op. cit.: 48-9).
 [29] - “... i neo-idealisti inglesi (valga per tutti l’ esempio di Bradley) si erano sforzati di distinguere nettamente la logica dalla psicologia ... ponendo in tal modo le premesse remote di quel realismo concettuale, successivamente teorizzato dal giovane Moore e dal giovane Russell per cui i concetti sono indipendenti, in sé e nei loro rapporti, dall’ attività mentale.” - questo giudizio di Granese (op. cit.: 31), come abbiamo visto, può essere esteso anche ai rapporti fra CSV e modi della sua trattazione logica. Per quanto possa colpire per la ‘secchezza’ dell’ argomentazione, tuttavia è probabile vi sia più profondità, di quanta di solito non si riconosca, in Lukàcs, quando scrive: “La demagogia sociale di Hitler era legata ad un aspro irrazionalismo e culminava in esso: le contraddizioni del capitalismo, considerate come insolubili con mezzi normali, portavano a compiere ll salto in un mito radicalmente irrazionalistico. La presente apologetica diretta del capitalismo rinuncia in apparenza al mito e all’



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