"...Oltre trent’anni fa Nicos Poulantzas aveva già individuato la tendenza alla totale integrazione dei partiti nello Stato e alla formazione di una sorta di partito unico; negli anni ‘90 questa tesi è stata confermata dalle ricerche che hanno portato al concetto di cartel party, detto così proprio per la tendenza a escludere, appunto formando un cartello col partito competitore, l’ingresso di nuovi attori nel sistema politico. Nella discussione si è però chiarito che i caratteri più rilevanti di questo nuovo tipo di partito sono la convergenza programmatica tra «destra» e «sinistra», l’assoluto prevalere delle funzioni di governo su quelle di rappresentanza e la piena integrazione nello Stato, con la connessa dipendenza economica dal finanziamento pubblico. Tutti elementi che rientrano nel quadro delle trasformazioni involutive della statualità nei paesi a capitalismo avanzato (qualcosa quindi che comprende ma va oltre le politiche cosiddette neoliberistiche o, come preferisco dire,neomercantilistiche ) e che permettono di definire il passaggio da un regime liberaldemocratico a uno postdemocratico.
In diversi paesi il passaggio alla postdemocrazia è stato accompagnato dall’emergere di competitori che sfidavano i partiti tradizionalmente dominanti, collocandosi di fatto alla loro destra, però spesso dichiarandosi «né di destra né di sinistra»: la Lega lombarda (poi Lega nord), il Front national in Francia, il Partito della libertà (Fpö) di Jörg Haider in Austria, la Lista di Pim Fortuyn in Olanda, per fare alcuni esempi importanti in Europa occidentale. Il «né di destra né di sinistra» che, attenzione!, è motto che fu già dei Verdi (che con la «sinistra» di governo hanno frequentemente e diffusamente collaborato), è indicativo della convergenza delle politiche dei partiti tradizionali, appunto sia di «destra» che di «sinistra», della loro statalizzazione. L’appello al popolo e il particolare registro linguistico frequente nella retorica di questi competitori, basso o anche volgare, si comprende con l’intenzione di far leva sulla diffusa e crescente alienazione dei cittadini dalla politica istituzionale, dalle sue pratiche come dal suo stile. Questi partiti sono sovente indicati come populisti o neopopulisti: da qui la volgare identificazione tra populismo e destra ricorrente nella polemica politica (ma non nella letteratura scientifica).
Se si riesce a escludere il risentimento di parte e i pregiudizi liberali e partitistici, e se si adotta un metodo diverso da quello della costruzione di un tipo ideale, detto «populismo», assemblando elementi disparati e poi dividendolo in sottocategorie nel tentativo di mantenere l’unità di fenomeni qualitativamente diversi, la posizione del M5S risulterà molto diversa da quella dei partiti citati sopra.
Ciò che il M5S esprime
e si propone è una «rivoluzione democratica»: in realtà si tratta di una rivolta contro la casta politica,
che è bipartitica ma unitaria nel suo essere integrata nello Stato capitalistico
e convergente, nella prassi reale di governo, nell’esclusiva garanzia di
interessi contrari a quelli dei lavoratori, dei giovani, delle donne, dei
pensionati, insomma delle classi dominate. È questa casta che s‘incarna nel sistema dei partiti ad essere il vero
sovrano politico, la «partitocrazia» del linguaggio quotidiano. È questa
aspirazione da «rivoltoso» che spiega la durezza sarcastica del linguaggio di
Beppe Grillo, che gli costa l’etichetta di populista: motivata dall’accusa,
letteralmente antidemocratica, di voler restituire la sovranità al popolo,
facendola finita con la partitocrazia, non con la democrazia parlamentare e i
partiti in quanto tali. Come, tra l’altro, dovrebbe essere secondo la lettera
della Costituzione repubblicana: che è, tuttavia, la Costituzione di uno Stato
capitalistico che, per strutturale necessità, nega la socializzazione del
potere politico perché, altrettanto necessariamente, nega la socializzazione
del potere socioeconomico, garantendo la riproduzione del potere di classe e
del capitalismo.
A differenza della Lega dei primi tempi, l’attacco antipartitocratico del M5S muove da una prospettiva democratica che sarà pure zeppa di illusioni e contraddizioni (anche per quel che riguarda i rapporti interni al movimento stesso), ma non si tratta d’illusioni peggiori di quelle del «bilancio partecipato» e di altre formule presuntamente partecipazionistiche che hanno furoreggiato nel cosiddetto popolo di sinistra» (salvo poi dimenticarsene all’apparizione di una nuova moda. Chi ricorda ancora il bilancio partecipato di Porto Alegre? Non certo i cittadini di Porto Alegre, che si sono liberati della giunta di allora appena hanno potuto).
Al di là della retorica, dei riti e dei simboli, delle chiacchiere dei dirigenti, della buona fede dei militanti, né Rifondazione comunista né il Pdci (un partito – non lo si dimentichi mai,nato per rendere possibile la formazione di un governo imperialistico e guerrafondaio!) né i Verdi (non parliamo dell’Idv!) possono definirsi anticapitalisti: sotto questo aspetto non si distinguono dal M5S. Per convincersene basta fare un rapido confronto tra il programma di Rivoluzione Civile e la Lettera agli italiani di Beppe Grillo; nel programma del M5S sono inclusi l’abolizione della legge Biagi e il sussidio di disoccupazione garantito (detto per chi ha diffuso voci infondate al riguardo). Rispetto a Rivoluzione Civile il grosso buco programmatico del M5S è nella politica internazionale (ma Grillo propone anche un referendum sull’euro, errore di cui non ha affatto l’esclusiva, come ho esaminato in altri miei precedenti lavori). Non si può però accusare Grillo di sciovinismo o militarismo; mi piace questo esempio:
«La guerra...
Esportiamo la democrazia con una siringa. Come il botulino. Accettiamo parole senza
significato: “guerra preventiva”, “pacificatori”... Ma stiamo scherzando? Ma
quando dici che un mitragliere su un elicottero è un costruttore di pace, io
divento pazzo. Perché non ho più parole per definire Emergency, Gino Strada, i
Beati Costruttore di Pace, quelli veri. Io sono stufo di essere preso per il
culo».
Il testo di Grillo è
del 2005. Chi l’anno dopo votò per le «missioni di pace» e i «pacificatori»
elitrasportati e mitraglia-muniti oggi dovrebbe avere la decenza di tacere – a
partire da Rifondazione e l’intera sottocasta dei Forchettoni rossi. Anche
perché, se non fosse più disponibile a votare le «missioni di pace», non
potrebbe neanche più considerare il centrosinistra come propria sponda
politica, illudendo il prossimo di poterlo condizionare da sinistra.
Insomma, sia la sinistra sia il M5S hanno come orizzonte dell’azione politica un capitalismo «dal volto umano». Senza affatto negare la possibilità di conquistare riforme parziali che migliorino le condizioni di vita e di lavoro, ritengo sia una prospettiva sbagliata ma, in questo momento, non discuto di riforme o di rivoluzione in generale, bensì della natura del M5S e del significato del suo successo elettorale.
E dunque, la differenza tra i partiti post-Pci e il M5S si riduce al fatto che la «rivoluzione democratica» del secondo, a differenza della «rivoluzione civile» propugnata dai forchettoni rossi, è veramente un attacco frontale alla casta politica del regime postdemocratico italiano, condotta da chi ha le carte in regola per farlo e che così è stato percepito da una parte importante dell’elettorato.
Allora, se si mettono da parte le stupidaggini sul M5S «reazionario», «diversionista» o «criptofascista» si potranno definire meglio le contraddizioni nelle quali inizia a dibattersi insieme a una prospettiva politica che possa renderle feconde.
La contraddizione fondamentale del M5S è di voler fare una rivoluzione democratica entrando nelle istituzioni di uno Stato che è ormai e irreversibilmente postdemocratico. E questa è complementare (successiva e forse, ma non necessariamente, conseguente) a quella per cui, con le sue straordinarie doti di comunicatore, Beppe Grillo è riuscito, a ribaltare temporaneamente a proprio favore il meccanismo spettacolare della società dello spettacolo che era stato armato contro di lui. Come nella citazione sui «costruttori di pace», la spettacolarità progressista del linguaggio di Grillo consiste nella decostruzione, attraverso l’ironia, il sarcasmo e l’ossimoro, del linguaggio della società dei consumi del capitalismo avanzato e della postdemocrazia, questo sì del tipo della neolingua di 1984 di Orwell. Certamente, Grillo è un giullare moderno, anzi criticamente postmodernista, non un «militante rivoluzionario» o un intellettuale militante con esperienza politica e ampia formazione teorica; e questo si vede anche dal livello medio del militante del M5S e dalle stupidaggini (amplificate) e dalle ingenuità di alcuni esponenti. Bene, e allora?
Non è insolito in un movimento politico giovane, per giunta dopo decenni culturalmente devastanti (e quante grandi stupidaggini e ingenuità si sentivano e si sentono dalla ex estrema sinistra!). La questione più importante dovrebbe essere: in cosa abbiamo sbagliato, noi «rivoluzionari» (dei forchettoni rossi si è già detto), per cui la più grande rivolta politica almeno dal 1968 si è espressa solo nelle elezioni ed è stata catalizzata da un movimento che si propone (soltanto?) una «rivoluzione democratica»?
L’altra contraddizione è relativa alla democrazia interna del M5S: originata dal modo in cui il M5S si è formato intorno alla figura e al blog di Grillo, essa può esplodere in conseguenza del successo elettorale. L’entrata nelle istituzioni tende a creare professionisti della politica e a istituzionalizzare in partito quel che pure vorrebbe essere un movimento. È a questo punto che la leadership di Grillo può svilupparsi in modo ambivalente: da una parte come argine alle pressioni «da destra», cioè all’accordo col Pd, all’integrazione nel sistema dei partiti, alla strutturazione in partito, con le sue gerarchie, formali e informali (che contano molto più dei momenti assembleari); dall’altra, si palesa come illusoria l’idea che la Rete possa di per sé assicurare la democrazia interna, piuttosto che essere solo un mezzo che può, ma non necessariamente, facilitare processi democratici.
Che anche gruppi e individui della sinistra detta erroneamente «rivoluzionaria», quella per capirsi che si richiama al marxismo e all’anarchia, cada nella trappola della demonizzazione del M5S ritengo sia indice della devastazione politico-culturale di questi decenni o della sclerosi dogmatica. Se si vuole criticare Grillo e il M5S, allora bisogna partire dal presupposto che, in regime postdemocratico, l’espansione della democrazia deve volgersi contro l’istituzione che funge da centro formale del potere della casta partitico-statale, il Parlamento, e che occorre rifiutare di partecipare al rito di legittimazione di questa casta attraverso la partecipazione alle elezioni politiche. Del resto è proprio su questo aspetto che il M5S entra in contraddizione ed è l’errore di continuare a presentarsi alle elezioni che in prospettiva può risultargli fatale.
L’alternativa può essere abbandonare il terreno delle istituzioni statali per contrapporre ad esse un Antiparlamento dei movimenti sociali, strumento di lotta e di sperimentazione di nuove forme di democrazia."
Michele Nobile (2013)
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