Nato 125 anni fa,
Gramsci è il pensatore italiano più letto e studiato al mondo dopo Machiavelli.
Il suo pensiero è infatti ancora attuale per chi non intende limitarsi a
comprendere la realtà, ma mira a trasformare radicalmente un mondo nel quale
l’1% della popolazione si accaparra più ricchezze del 99%, in cui le 62 persone
più ricche si appropriano di maggiori risorse del 50% più povero, ossia di 3,6
miliardi di persone.
L’opera di Gramsci può essere interpretata come un trait
d’union fra il marxismo della Terza Internazionale e i successivi
sviluppi che ha avuto la riflessione marxista nel mondo occidentale.
Gramsci, infatti, si pone il compito di tradurre il pensiero di Lenin,
adattandolo alle peculiari condizioni delle società a capitalismo avanzato.
Antonio Gramsci nasce ad Ales (Cagliari) nel 1891.
Terminate le scuole elementari, è costretto a lavorare, ma continua a
studiare e, nonostante la difficile situazione economica della famiglia, riesce
a iscriversi all’Università di Torino. Sono anni molto duri per la
condizione di povertà, l’isolamento e un grave esaurimento nervoso.
Rimessosi, si iscrive al Partito Socialista e decide di
lasciare l’università per dedicarsi all’attività pubblicistica sui giornali del
partito. Il crescente impegno politico non lo porta ad abbandonare gli
interessi culturali: diventato direttore di un piccolo settimanale di
propaganda di partito, “Il grido del popolo”, lo trasforma in una rivista di
cultura. In seguito fonda «Ordine Nuovo», di cui è direttore. La
rivista ha un ruolo di direzione nel movimento dei consigli, durante
l’occupazione delle fabbriche del 1920. La sconfitta del movimento,
scarsamente appoggiato dal Partito Socialista, porta Gramsci a seguire Amedeo
Bordiga nella costruzione del Partito Comunista d’Italia (1921).
Nel 1922 è a Mosca, quando la situazione politica italiana
precipita e si afferma il fascismo. In Urss Gramsci si convince della
giustezza delle critiche della Terza Internazionale alle posizioni
ultra-sinistre di Bordiga, allora segretario del PCd’I. Nel 1923 è
inviato dall’Internazionale a Vienna, con lo scopo di riorganizzare il partito.
A tale fine fonda il quotidiano “l’Unità”. La lotta all’interno del
partito si risolve nel congresso di Lione (1926), in cui la grande maggioranza
dei delegati sostiene la linea di Gramsci contro quella di Bordiga.
Poco dopo, però, Gramsci è arrestato, condannato a vent’anni
di prigione e recluso nel carcere di Turi. Nel 1929, ottenuta una cella
individuale e la possibilità di scrivere, inizia la stesura delle pagine che
verranno pubblicate dopo la guerra con il titolo Quaderni del carcere.
Le sue condizioni fisiche tendono ad aggravarsi, anche perché non è
adeguatamente curato, dal momento che rifiuta di chiedere la grazia a
Mussolini. In questi duri anni è assistito principalmente dalla cognata,
con la quale ha un fitto scambio epistolare, che costituirà la parte
preponderante delle postumeLettere dal carcere. Solo nel 1933,
quando le sue condizioni di salute sono ormai compromesse, ottiene di essere
trasferito in una clinica. Si spegne nel 1937, subito dopo aver
riacquistato la libertà.
La formazione di Gramsci è influenzata dall’interpretazione
filosofica del marxismo di Labriola, dal pensiero di Sorel e dalle critiche al
positivismo di Bergson e Croce. Negli anni giovanili, particolarmente
significativa è l’esperienza dell’“Ordine nuovo”, giornale di cultura
socialista che, nel “biennio rosso” (1919-1920), sotto la direzione di Gramsci
orienta teoricamente il movimento dei consigli operai nell’occupazione e
autogestione delle fabbriche. Nei consigli di fabbrica Gramsci individua
le strutture embrionali dello Stato socialista: i consigli sono al contempo
organismi capaci di organizzare e sviluppare le forze produttive in modo
autonomo dalla direzione borghese e organismi di elaborazione politica, cellule
della futura democrazia socialista.
Dopo l’arresto, nonostante le difficoltà della vita
carceraria, Gramsci svolge un enorme sforzo di elaborazione teorica, da cui
emerge la sua creativa interpretazione del marxismo. Essa sarà conosciuta
solo dopo la morte di Gramsci, quando verranno pubblicati i Quaderni
del carcere. Si tratta di appunti, saggi e frammenti, riordinati da
Gramsci in quaderni tematici dedicati all’analisi del ruolo degli
intellettuali, a questioni di filosofia politica, alla critica delle filosofie
neoidealiste, a letteratura ed estetica, a problematiche pedagogiche e ad
“Americanismo e fordismo”.
Per quanto le note scritte in carcere abbiano carattere
spesso frammentario e semprein fieri, esse sono tenute insieme da una
trama organica: la riflessione sulle cause della sconfitta della Rivoluzione in
Occidente. Gramsci non intende abbandonare la prospettiva della
rivoluzione, ma ripensarla a partire dalle specificità dei paesi occidentali.
Nei paesi a capitalismo avanzato si è sviluppata una complessa società civile
che comprende, oltre alle strutture economiche, le diverse istituzioni volte al
consolidamento del consenso e dell’egemonia culturale e politica: giornali,
chiese, sindacati e partiti. Perciò secondo Gramsci è indispensabile
sviluppare una tattica specifica, prepararsi per una lunga “guerra di
posizione” volta a conquistare le “casematte” della società civile, prima di
poter affrontare l’avversario di classe in una “guerra di movimento” in campo
aperto.
Per questo motivo Gramsci sviluppa le considerazioni di Engels
e Labriola sul rapporto di causalità reciproca tra struttura economica e
sovrastrutture culturali. Rifiutando la riduzione delle ideologie a
semplici manifestazioni dei rapporti di produzione o a mera falsa coscienza,
Gramsci le considera forme reali del mondo storico. I soggetti sociali,
infatti, prendono coscienza di sé e divengono parte attiva del conflitto di
classe al livello delle sovrastrutture ed è la coscienza che si determina su
tale piano a trasformare, con il proprio operare, le condizioni oggettive della
struttura. Il conflitto delle idee tra diversi soggetti sociali si
configura come una vera e propria lotta di classe a livello delle
sovrastrutture, volta all’egemonia sui ceti intermedi. Il concetto di
“egemonia”, centrale nella riflessione di Gramsci, indica la capacità di
direzione, in primo luogo intellettuale e morale, di un soggetto sociale
sull’insieme della società.
Per superare il modo di produzione capitalistico nel mondo
occidentale sarà necessario contrapporre al “blocco storico” su cui si fonda il
potere della borghesia, un blocco sociale alternativo egemonizzato dal
proletariato. In altri termini i gruppi sociali subalterni e le classi
intermedie, (ceti medi e piccola borghesia), dovranno progressivamente essere
strappati all’alleanza con la borghesia e passare sotto l’influenza
politico-culturale del partito dei lavoratori urbani, mediante l’affermarsi
dell’egemonia culturale di quest’ultimo all’interno della società civile.
Questa lotta potrebbe apparire impari, dal momento che tutte
le principali strutture volte alla formazione del consenso sono sotto il
controllo della classe dominante. Per questo, per non soccombere il
proletariato deve conquistare alla propria causa gli intellettuali tradizionali
di formazione umanista e, soprattutto, formare “intellettuali organici” alla
propria classe sociale. Gramsci mostra come, giunte a un determinato
grado del loro sviluppo, le classi sociali producano al loro interno
intellettuali che svolgono funzioni organizzative, in primo luogo al livello
della produzione di beni: essi consentono alla classe sociale di appartenenza
di prendere consapevolezza di sé dapprima in campo economico, poi sociale e
infine politico.
La centralità del ruolo degli intellettuali porta Gramsci a
occuparsi di questioni pedagogiche. Egli critica il sistema pedagogico
borghese che tende ad ampliare la divisione fra lavoro manuale e intellettuale;
perciò prende posizione contro la riforma della scuola attuata da Gentile nel
1923 che consolida tali divisioni, separando l’istruzione fornita nei licei,
volta alla creazione di intellettuali tradizionali, e la formazione
tecnico-professionale, destinata a riprodurre gli intellettuali organici alla
borghesia. Allo stesso modo Gramsci si oppone alla concezione crociana
della cultura, che tende a separare nel modo più netto le élitesintellettuali
dal popolo, ovvero la classe dirigente dai subalterni. Egli ritiene che
le masse abbiano bisogno di creare al loro interno un intellettuale di nuovo
tipo, che non fondi la propria autorità, come l’intellettuale tradizionale,
sulle qualità oratorie, ma che riunisca in sé il sapere pratico e concreto di
un tecnico specializzato con la capacità di cogliere le linee direttrici lungo
cui si snoda il processo storico, capacità che deve avere un politico
rivoluzionario.
Gramsci definisce il marxismo “filosofia della praxis”,
proprio in quanto ritiene che l’analisi marxista della società sia volta non
solo a individuare le leggi del movimento del reale, ma a intervenire per
razionalizzare il contesto esistente. Non si può, a suo avviso,
considerare l’“oggettività”, la realtà materiale, qualcosa che esiste
indipendentemente dall’uomo che la indaga e la trasforma con il proprio
operare. Il reale sorge dalla costante mediazione fra l’uomo e
l’ambiente, i quali sono pensabili unicamente nel processo storico del loro
sviluppo conflittuale. La realtà al di fuori dell’uomo che la
razionalizza è una mera astrazione dell’intelletto: anch’essa è un prodotto
storico, in quanto il mondo acquista senso solo nel rapporto con l’essere
sociale che lo interpreta ed elabora.
L’indissolubile rapporto dialettico fra soggetto e oggetto,
pensiero e azione, porta Gramsci a ricercare le origini del marxismo nella
filosofia classica tedesca, sino a considerarlo “una riforma e uno sviluppo
dello Hegelismo”. D’altra parte, egli ritiene che il marxismo debba
essere sempre aperto al confronto con i più significativi sviluppi della
filosofia contemporanea, a cominciare dal neoidealismo dominante in Italia.
Se il giovane Gramsci è influenzato dalla concezione di
Gentile del marxismo quale “filosofia della praxis”, nei Quaderni
filosofici si confronta in particolare con Croce. Il rapporto di
Gramsci con Croce è ambivalente: da un lato, egli considera la filosofia crociana
il punto più avanzato dell’ideologia del “blocco storico” borghese e, perciò,
la sua critica gli appare di importanza decisiva per conquistare l’egemonia
culturale; dall’altro, ritrova nel pensiero di Croce elementi decisivi della
filosofia della praxis – in primo luogo il rapporto indissolubile fra pensiero
e azione – e una “filosofia della storia” incentrata sul concetto di egemonia.
Perciò, a suo parere, il marxismo deve operare nei confronti della
filosofia di Croce lo stesso processo di superamento dialettico che Marx ha
operato nei confronti di Hegel. Si tratta di valorizzare lo storicismo
della filosofia crociana, liberandolo dalla sua mistificante forma idealista.
Lo storicismo idealista deve essere reso concreto, rifondandolo sull’analisi
socio-economica del materialismo storico, che a sua volta deve essere depurato
dai residui meccanicistici per divenire un “puro Umanesimo”.
Sulla base del suo storicismo assoluto, Gramsci ricerca le
cause della sconfitta delle forze rivoluzionarie, e della conseguente
affermazione del fascismo, nella storia italiana. Egli muove dall’analisi
del risorgimento, che interpreta come una “rivoluzione mancata”: le forze
radicali (i democratici) sono stati egemonizzati dai moderati (i liberali), a
causa della loro incapacità di comprendere i bisogni reali delle masse, che si
sarebbero mobilitate a fianco delle forze democratiche, se queste avessero
sostenuto la loro atavica “fame” di terra. La mancata riforma agraria e
il blocco storico tra industriali del Nord e latifondisti del Sud è alla base
della “questione meridionale”, causa dello sviluppo disuguale dell’Italia.
La mancata soluzione di tale questione ha in seguito impedito di saldare
le lotte operaie del Nord, coordinate dal partito socialista, e le sollevazioni
spontanee dei contadini del Sud, favorendo la sconfitta del movimento operaio
nel biennio rosso. Il fascismo, considerato da Gramsci come la risposta
delle classi dominanti alle lotte dei subalterni, è riuscito ad affermarsi
proprio grazie alla sua capacità di dare uno sbocco politico alle astratte
aspirazioni e alle frustrazioni sociali di un ceto medio in via di
proletarizzazione distribuito sull’intero territorio nazionale.
Per resuscitare la volontà collettiva nazional-popolare dei
ceti subalterni, rendendola in grado di farsi interprete di una “riforma
intellettuale e morale” del paese, Gramsci ritiene indispensabile elaborare un
progetto politico-culturale adeguato alle contraddizioni della fase storica,
che consenta al proletariato di porsi come classe egemone di un ampio blocco
storico. Gramsci definisce “moderno principe” il suo modello di partito,
richiamandosi al Principe, l’opera in cui Machiavelli aveva
delineato la figura di una soggettività politica in grado di superare una
situazione di crisi conquistando il potere e fondando un nuovo Stato,
rappresentativo di un più ampio blocco sociale. Il soggetto
rivoluzionario nel mondo moderno non può più essere un singolo individuo come
il principe di Machiavelli, ma diviene un’élite collettiva in grado di rendere
una massa disgregata di individui, subalterna sul piano economico, in quanto
priva di un’autonoma concezione del mondo, una totalità organica che si faccia
interprete di un progetto di società più universale della esistente.
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