*Da: http://www.gianfrancopala.tk/ (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
Brecht sintetizzò il dibattito tra comunisti con l’invito,
secco e perentorio: “Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà!”,
perché questo è centrale per la comprensione di ogni modo di produzione,
e in particolare di quello capitalistico, data la sua peculiare forma e
capacità occultatrice. Nei recentissimi tempi di “oltremarxismo”, se non di
espresso pentimento anche teorico, quel peculiare occultamento mistificatorio è
particolarmente attivo, facendo dissolvere la proprietà nel possesso,
nel controllo o nella gestione di dirigenza, o facendone addirittura travisare
i connotati privati e di classe. Viceversa, quella centralità è tale perché la proprietà
appunto, e la relazionalità sociale che si innerva intorno a essa,
caratterizza la società sia per la sua presenza che per la sua mancanza, sia
positivamente che negativamente. In generale, Marx aveva avvertito l’esigenza
di chiarire – soprattutto per i suoi stessi criteri d’analisi (nei materiali di
studio da lui accantonati, che avrebbero dovuto costituire l’Introduzione
del 1857 “per la critica dell’economia politica”) – la sinonimia di
“proprietà” e “produzione”. “Ogni produzione è un’appropriazione
della natura da parte dell’individuo, entro e mediante una determinata forma
di società. In questo senso è una tautologia dire che la proprietà è una
condizione della produzione. Ma è ridicolo saltare da questo fatto a una
determinata forma della proprietà, per es. alla proprietà privata”.
Senonché, l’epoca storica del capitale porta agli estremi
esiti la separazione tra proprietari non produttori e produttori non
proprietari, da un lato tutta la proprietà storicamente
significativa, dall’altro, al polo opposto, la sua assoluta mancanza,
in due classi socialmente e funzionalmente distinte. Una tale separazione
avviene non solo tra le condizioni oggettive della produzione e del lavoro e
il lavoro quale condizione soggettiva, ma perfino tra il lavoratore e il suo
stesso lavoro, che gli è espropriato attraverso l’uso di forza-lavoro alienata
al proprietario delle condizioni oggettive di produzione. Sotto il dominio
della forma di merce della produzione sociale, sia nella sua esistenza
reale pratica sia nella riflessione scientifica e teorica, la proprietà
capitalistica è investita necessariamente da una sua specificità concettuale.
La proprietà capitalistica – ossia, quella “che conta” storicamente, che va considerata
come tale – è la proprietà, economica (prima che sia riconosciuta giuridicamente,
in forme assai diverse e spesso mascherate), delle condizioni della
produzione sociale: importante è comprendere nell’oggettività di tali “condizioni”
non solo, come troppo spesso si suol dire, i mezzi di produzione (strumenti,
macchine, impianti), e, si sa, l’oggetto generale stesso della produzione (la
terra e le sue materie prime); ma anche – ciò che sovente non viene
considerato – l’intero apparato di conoscenze scientifiche e organizzative,
senza le quali la produzione stessa non sarebbe affatto possibile o ne risulterebbe
gravemente sminuita.
Quanti oggi credono di aver scoperto l’acqua calda, parlano
di management, capitale cognitivo o general intellect, in
contrapposizione fittizia alla “proprietà”. Non si rendono conto del rapporto
di tutto ciò con le diverse forme del capitale variabile e costante, e del
capitale fisso in particolare. Che ne siano consapevoli o meno, seguono i
precetti aclassisti della sociologia strutturalista di Parsons, che annulla la
determinazione di “proprietà” in nome del “possesso”. Non sanno che qui
si tratta proprio invece di elementi che costituiscono parte integrante e
specifica della proprietà capitalistica. E in così grande misura sono
“capitale” che il “lavoro salariato” ne rimane espropriato e abbrutito,
assolutamente deprivato di qualunque capacità conoscitiva e riflessiva. Questa
proprietà è privata e di classe – ossia è l’inveramento crescente
di quel processo che l’analisi marxista, partendo dalla rammentata
storicizzazione della forma privatistica della proprietà originariamente
comune, segue con assoluta chiarezza indicando appunto la proprietà capitalistica,
in quanto proprietà privata di classe, come la prima negazione
della proprietà privata individuale. “In seguito alla concentrazione
dei mezzi di produzione e all’organizzazione sociale del lavoro, il modo di
produzione capitalistico sopprime, sia pure in forme contrastanti, e la
proprietà individuale e il lavoro privato”, talché perfino la società per
azioni quale “risultato del massimo sviluppo della produzione capitalistica è
un momento necessario di transizione per la ritrasformazione del capitale
in proprietà dei produttori, non più per come proprietà privata di singoli
produttori, ma come proprietà di essi in quanto associati, come proprietà
sociale immediata”.
Dunque è chiaro come presso Marx, come per Hegel, la
“negazione” sia dialettica, il che vuol dire che lo stesso “superamento” della
proprietà privata – da individuale a classista – è un processo dialettico
(quello che il “maestro He-leh”, per dirla con Brecht, chiamava aufhebung).
La negazione della negazione, anche in questo caso del resto, non può
mai ristabilire la posizione originaria, ma un superamento dialettico di
entrambe, togliendo la forma privata alla proprietà conservata come produzione
comune. C’è invece in giro qualche buontempone, preso dal sacro fuoco di
prediche domenicali, che vorrebbe semplicemente annullare la forma
capitalistica della proprietà privata per tornare indietro a quella, ugualmente
privata, ma individuale, che la storia ha già conosciuto, nelle forme
medievali e rinascimentali dell’artisanat furieux. L’unica maniera oggi
di riproporre soluzioni di tal tipo reazionario è quello, di gran moda
“asinistra”, del recupero tardivo dell’autonomia presunta – pur entro
l’incontrastato e indiscusso dominio del capitale, ma non più riconosciuto come
tale – di un lavoratore “mentalmente” liberato da ogni costrizione che la forma
salariale gli impone.
L’escamotage più spesso seguìto, per giustificare la
capriola all’indietro verso la proprietà individuale piccolo-borghese, punta
dritto sulla confusione tra proprietà (di classe) delle condizioni di
produzione e proprietà (individuale) di mezzi di sussistenza e oggetti d’uso.
Di quest’ultima, naturalmente, né Marx né i marxisti – non essendo stupidi come
i loro superatori e critici – hanno mai negato la necessaria presenza, in
qualsiasi formazione sociale: dalla proprietà individuale del perizoma degli
aborigeni a quella dell’automobile di prestigio dello yuppy. Facendo pendant
con i fautori del “possesso”, invece i coraggiosi “diffusori della proprietà”
amano accomunare tutti sotto la medesima unificante etichetta di
“proprietario” [rimane necessaria la precisazione engelsiana per il ricatto
borghese sulla casa], sol perché uno ha una maglia mentre l’altro una filanda,
uno un giornale mentre l’altro l’intera testata: è solo questione di quantità,
reddito e sua distribuzione, dicono in keynesiana memoria, non più capitale.
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