venerdì 8 gennaio 2016

Neoliberismo (critica dell’imperialismo)* - Gianfranco Pala

  *Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole


“Moralmente e filoso­ficamente condivido praticamente tutto del libro del prof. Hayek, La via della schiavitù; e non si tratta di un semplice consenso ma di una condivisione pro­fondamente motivata”  (John Maynard Keynes)


Risulta di immediata evidenza che “neoliberismo” è una metafora per impe­rialismo. Se solo di questo si trattasse, basterebbe intendere l’un termine per l’altro, compiacendosi che anche sulle “pagine web” di Internet appaiano scritti relativi a incontri “per l’umanità e contro il neoliberismo”. Ma così non è. 

La questione è un po’ più complicata. Dall’ideologia riversata nel cattivo senso comune, infatti, si espunge il signi­ficato del­l’imperialismo e dello stesso modo di produzione capitalistico, sì che è al neoliberismo che sono imputati eventi quali: crescita senza occupa­zione, devastazione sociale e ambientale dovuta al macchinismo, squilibrio “nord-sud” nelle cosiddette globalizzazione e finanziarizzazione, fino all’“unicità” del mercato e del pensiero, e via omologando nella grigia piat­tezza di un dispotismo barbarico. Come se – e qui sta il tranello – si possa pre­sumere che sia data l’evenienza di un’altra organizzazione sociale (di cui ac­curatamente si taccia la forma capitalistica, ormai ritenuta obsoleta e ineffabi­le) non neoliberista, meno barbarica e dunque accettabile per l’umanità me­desima: a es., una società basata su una “regolazione” dei rapporti di produ­zione e di distribuzione di tipo genericamente keynesian-proudhoniano.

L’esempio non è casuale, bensì causale. La ragione dell’intellettualità borghe­se dell’“asinistra” è, infatti, tanto interessata alla battaglia contro il supponente “neoliberismo” proprio a causa del desiderio di ripristinare al più presto quel­le forme di relazionalità sociale che stanno sotto l’ombrello variopinto della socialdemocrazia, del liberalsocialismo, del laburismo e del fabianesimo (co­munque siano ribattezzati), e che tanto spazio e rispettabilità hanno procurato a essa stessa, ovverosia alla borghesia e piccola borghesia “colta” e “progres­sista”. 

Il neoliberismo, al contrario, è l’avversario che – entro il capitalismo stesso – le ha sottratto legittimazione e credibilità. Dunque – dicono gli ostinati intellettualisti professori della democrazia svi­luppata – occorre uscire dalla rozza arroganza del potere privato del mercato e restituire fulgore a quello sociale dello stato. Cosicché il key­nesismo, variamente vestito e mascherato, possa essere preso come bandiera eterodossa della difesa dei deboli e degli oppressi: purché non si discuta di proprietà privata, sfruttamento, classi sociali e lotta di classe, insomma non si metta in dubbio la permanenza del modo di produzione capitalistico. E si pos­sa procedere cautamente verso una società dell’armonia e del confronto, an­ziché della lotta e del conflitto, in cui i padroni rimangano padroni e gli espro­priati continuino a riprodursi come espropriati, in un clima di consenso, tanto poco idilliaco quanto coatto, un sistema che noi preferiamo definire neocor­porativismo.

Gli intellettualisti del socialismo borghese, peraltro, hanno anche un alibi, storico e teorico, giacché di contro a Keynes e compari si erge sicuramente l’astio della cricca di von Mises e von Hayek. E tanto basta, agli imbecilli di­ventati professori di economia politica e al loro séguito politico, per formare una coorte “asinistra” in difesa della “rivoluzione keynesiana”. Senonché, ahi loro, Keynes non era meno liberale e meno sostenitore degli interessi capitali­stici dei suoi astiosi critici. Al punto da fargli scrivere: “Moralmente e filoso­ficamente condivido praticamente tutto del libro del prof. Hayek, La via della schiavitù; e non si tratta di un semplice consenso ma di una condivisione pro­fondamente motivata”. Serve altro?! 

Il “rozzo proletariato” è da Keynes paragonato al “fango” nei confronti dello squisito “pesce”, ossia “la borghesia e l’intellighen­tsia, le quali, per quanti siano i loro difetti, sono l’essenza della vita, e portano sicuramente in sé il seme di ogni progresso umano”. La sua “reazione contro il laissez faire” è so­lo dettata dalla ricerca di metodi più efficaci per realizzare davvero i princìpi del liberismo, basati “sullo svolgimento della libera concorrenza anziché sulla sua abolizione”, e per il ristabilire così l’“ordine economico naturale” cui tanto anelava il di lui vate Silvio Gesell. Proprio il laissez faire, caro ai fondamenti del liberismo, è da Keynes indicato “ quale base per la selezione naturale attraverso la concorrenza” che “fa muo­vere l’evoluzione lungo strade desiderabili ed efficaci”, così come “l’indivi­dualismo invoca l’amore per il denaro, attraverso il perseguimento del profit­to, come elemento base della selezione naturale misurata dal valore di scam­bio. 

È ogni giorno più evidente che il problema morale della nostra epoca ri­guardi l’amore per il denaro”. Il che, appunto, “non significa disfarsi del siste­ma di Manchester, quanto piuttosto indicare le circostanze richieste dal libero gioco delle forze economiche per realizzare le piene potenzialità della produ­zione”.

La “filosofia sociale” di Keynes ha, a suo stesso dire, “implicazioni moderata­mente conservatrici”, con misure “introdotte con gradualità e senza una rottu­ra nelle tradizioni generali della società. Non soppianta l’individuo nel campo che a questi compete, e non mira a trasformare il sistema salariale o ad aboli­re la motivazione per il profitto. Ma, soprattutto, l’individualismo, emendato dei suoi difetti e dei suoi abusi, è la miglior salvaguardia della libertà persona­le”. E se occorrono “sacrifici economici” li si facciano (fare), fino alla guerra – unica via storicamente praticata per avvicinarsi alla farneticazione della “pie­na occupazione” (Hitler insegna!) – poiché “ciò che occorre è una restaurazio­ne di un pensiero moralmente corretto – un ritorno a giusti valori morali nella nostra filosofia sociale, orientando le menti e i cuori alla questione morale”. Ipse dixit

Se la lotta contro il “neoliberismo” dovesse servire solo per ritornare ai fasti e nefasti del liberismo keynesiano – altrettanto capitalistico borghese, da paven­tare un “futuro” esecrabile in cui, addirittura, si potrebbe correre perfino il rischio che “la carriera del fare quattrini, in sé, non si presenti nep­pure come possibilità ad un giovane rispettabile”! – sarebbe meglio seguire i suggerimenti di Engels e preferire il confronto critico con i nemici dichiarati piuttosto che con i falsi amici, dicendo fermamente: no, grazie! Del resto, ci vuole assai poco a capire quali siano le indicazioni keynesiane: basta solo un po’ di attenzione e di tempo per leggerle. E allora non ci sarà bisogno di par­lare di neoliberismo, ma semplicemente di capitalismo, di cui il liberismo è espressione, in qualsiasi forma, anche keynesiana.

Il keynesismo, se lo conosci, lo eviti! 

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