*Da: http://www.gianfrancopala.tk/
(http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
“Moralmente e filosoficamente condivido praticamente tutto del libro del prof. Hayek, La via della schiavitù; e non si tratta di un semplice consenso ma di una condivisione profondamente motivata” (John Maynard
Keynes)
Risulta di immediata evidenza che “neoliberismo” è
una metafora per imperialismo. Se solo di questo si trattasse,
basterebbe intendere l’un termine per l’altro, compiacendosi che anche sulle
“pagine web” di Internet appaiano scritti relativi a incontri “per
l’umanità e contro il neoliberismo”. Ma così non è.
La questione è un po’ più complicata.
Dall’ideologia riversata nel cattivo senso comune, infatti, si espunge il significato
dell’imperialismo e dello stesso modo di produzione capitalistico, sì
che è al neoliberismo che sono imputati eventi quali: crescita senza
occupazione, devastazione sociale e ambientale dovuta al macchinismo,
squilibrio “nord-sud” nelle cosiddette globalizzazione e finanziarizzazione,
fino all’“unicità” del mercato e del pensiero, e via omologando nella
grigia piattezza di un dispotismo barbarico. Come se – e qui sta il
tranello – si possa presumere che sia data l’evenienza di un’altra
organizzazione sociale (di cui accuratamente si taccia la forma capitalistica,
ormai ritenuta obsoleta e ineffabile) non neoliberista, meno barbarica
e dunque accettabile per l’umanità medesima: a es., una società basata
su una “regolazione” dei rapporti di produzione e di distribuzione di tipo
genericamente keynesian-proudhoniano.
L’esempio non è casuale, bensì causale. La ragione
dell’intellettualità borghese dell’“asinistra” è, infatti, tanto interessata
alla battaglia contro il supponente “neoliberismo” proprio a causa del
desiderio di ripristinare al più presto quelle forme di relazionalità sociale
che stanno sotto l’ombrello variopinto della socialdemocrazia, del
liberalsocialismo, del laburismo e del fabianesimo (comunque siano
ribattezzati), e che tanto spazio e rispettabilità hanno procurato a essa
stessa, ovverosia alla borghesia e piccola borghesia “colta” e “progressista”.
Il neoliberismo, al contrario, è l’avversario che – entro il
capitalismo stesso – le ha sottratto legittimazione e credibilità. Dunque –
dicono gli ostinati intellettualisti professori della democrazia sviluppata
– occorre uscire dalla rozza arroganza del potere privato del mercato e
restituire fulgore a quello sociale dello stato. Cosicché il keynesismo,
variamente vestito e mascherato, possa essere preso come bandiera eterodossa
della difesa dei deboli e degli oppressi: purché non si discuta di proprietà
privata, sfruttamento, classi sociali e lotta di classe,
insomma non si metta in dubbio la permanenza del modo di produzione
capitalistico. E si possa procedere cautamente verso una società dell’armonia
e del confronto, anziché della lotta e del conflitto, in cui i padroni
rimangano padroni e gli espropriati continuino a riprodursi come espropriati,
in un clima di consenso, tanto poco idilliaco quanto coatto, un sistema che noi
preferiamo definire neocorporativismo.
Gli intellettualisti del socialismo borghese, peraltro,
hanno anche un alibi, storico e teorico, giacché di contro a Keynes e compari
si erge sicuramente l’astio della cricca di von Mises e von Hayek. E tanto
basta, agli imbecilli diventati professori di economia politica e al loro
séguito politico, per formare una coorte “asinistra” in difesa della
“rivoluzione keynesiana”. Senonché, ahi loro, Keynes non era meno liberale e
meno sostenitore degli interessi capitalistici dei suoi astiosi critici. Al punto
da fargli scrivere: “Moralmente e filosoficamente condivido praticamente tutto del libro del prof. Hayek, La via della schiavitù; e non si tratta di un semplice consenso ma di una condivisione profondamente motivata”. Serve
altro?!
Il “rozzo proletariato” è da Keynes paragonato al “fango” nei confronti
dello squisito “pesce”, ossia “la borghesia e l’intellighentsia, le
quali, per quanti siano i loro difetti, sono l’essenza della vita, e portano
sicuramente in sé il seme di ogni progresso umano”. La sua “reazione contro il laissez
faire” è solo dettata dalla ricerca di metodi più efficaci per realizzare
davvero i princìpi del liberismo, basati “sullo svolgimento della libera
concorrenza anziché sulla sua abolizione”, e per il ristabilire così
l’“ordine economico naturale” cui tanto anelava il di lui vate Silvio Gesell.
Proprio il laissez faire, caro ai fondamenti del liberismo, è da Keynes
indicato “ quale base per la selezione naturale attraverso la concorrenza” che
“fa muovere l’evoluzione lungo strade desiderabili ed efficaci”, così come
“l’individualismo invoca l’amore per il denaro, attraverso il perseguimento
del profitto, come elemento base della selezione naturale misurata dal valore
di scambio.
È ogni giorno più evidente che il problema morale della nostra
epoca riguardi l’amore per il denaro”. Il che, appunto, “non significa
disfarsi del sistema di Manchester, quanto piuttosto indicare le
circostanze richieste dal libero gioco delle forze economiche per realizzare le
piene potenzialità della produzione”.
La “filosofia sociale” di Keynes ha, a suo stesso dire,
“implicazioni moderatamente conservatrici”, con misure “introdotte con
gradualità e senza una rottura nelle tradizioni generali della società. Non
soppianta l’individuo nel campo che a questi compete, e non mira a trasformare
il sistema salariale o ad abolire la motivazione per il profitto. Ma,
soprattutto, l’individualismo, emendato dei suoi difetti e dei suoi
abusi, è la miglior salvaguardia della libertà personale”. E se occorrono
“sacrifici economici” li si facciano (fare), fino alla guerra – unica
via storicamente praticata per avvicinarsi alla farneticazione della “piena
occupazione” (Hitler insegna!) – poiché “ciò che occorre è una restaurazione
di un pensiero moralmente corretto – un ritorno a giusti valori morali nella
nostra filosofia sociale, orientando le menti e i cuori alla questione morale”.
Ipse dixit.
Se la lotta contro il “neoliberismo” dovesse servire solo
per ritornare ai fasti e nefasti del liberismo keynesiano – altrettanto
capitalistico borghese, da paventare un “futuro” esecrabile in cui,
addirittura, si potrebbe correre perfino il rischio che “la carriera del fare
quattrini, in sé, non si presenti neppure come possibilità ad un giovane
rispettabile”! – sarebbe meglio seguire i suggerimenti di Engels e preferire il
confronto critico con i nemici dichiarati piuttosto che con i falsi amici,
dicendo fermamente: no, grazie! Del resto, ci vuole assai poco a capire quali
siano le indicazioni keynesiane: basta solo un po’ di attenzione e di tempo per
leggerle. E allora non ci sarà bisogno di parlare di neoliberismo, ma
semplicemente di capitalismo, di cui il liberismo è espressione, in
qualsiasi forma, anche keynesiana.
Il keynesismo, se lo conosci, lo eviti!
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