giovedì 14 gennaio 2016

IL RITORNO SULLA SCENA DELL’AMERICA LATINA* - Osvaldo Coggiola**

*Da:   https://mrzodonato.wordpress.com/—per/corsi di economia politica
**Osvaldo Coggiola, docente di Storia economica all'Università di San Paolo del Brasile 

Video dell'incontro (UniGramsci):  https://www.youtube.com/watch?v=-JB1I3hvqXM



IL RITORNO SULLA SCENA DELL’AMERICA LATINA
La crisi economica mondiale, nelle sue diverse diramazioni (crisi europea, recupero limitato ed ampiamente fittizio degli USA, cronica stagnazione del Giappone, frenata della Cina), è definitivamente penetrata nei “mercati emergenti”, colpendo anche l’America Latina e i suoi pilastri (Brasile, Messico, Argentina). Il fattore essenziale dell’arretramento dei suoi mercati d’esportazione viene attribuito soprattutto alla Cina (il che dimostra che queste economie continuano ad essere basicamente piattaforme d’esportazione di materie prime o di prodotti semi-manifatturati). Ci si dimentica così della fuga di capitali, attratti da tassi d´interesse imbattibili a livello mondiale, i quali hanno fatto del continente il principale spazio di valorizzazione fittizia del capitale finanziario internazionale; del basso o inesistente livello di investimenti e del fatto che i palliativi “programmi sociali” hanno favorito soprattutto il lavoro nero o informale (che in Argentina, per esempio rappresenta il 30% della forza-lavoro) senza creare un mercato interno solido e capace di espandersi; ci si dimentica della straordinaria crescita del debito pubblico e privato, che compromette gli investimenti pubblici e gli stessi programmi sociali (consumando per esempio il 47% del bilancio federale brasiliano); si dimenticano la crisi e l´arretramento di diversi progetti di integrazione continentale. Il PIL regionale è cresciuto dello 0,9% nel 2014 (contro il 6% del 2010) e si prevede una performance ridicola nel 2015, a crescita zero o negativa per il Brasile secondo le previsioni della Banca Centrale. Già si parla di un nuovo “decennio perso” per l´America Latina, come lo furono gli anni Ottanta.


Su questo sfondo si proiettano significative crisi politiche che colpiscono, in misura maggiore o minore, tanto i regimi “neoliberisti” (di destra) quanto i regimi nazionalisti o “progressisti”, nella cui agenda politica si ripropone di nuovo la prospettiva di golpe civili o civico-militari. Paraguay (Lugo) e Honduras (Zelaya) sono in questo senso le prime manifestazioni di una tendenza più vasta. Lo sfondo complessivo è quello della crisi capitalista mondiale, la crisi storica del modo di produzione del capitale. Sono i paesi più “sviluppati” dell´America Latina i più colpiti dalla crisi. La “periferia emergente” del capitalismo “globale” deve far fronte ad enormi pagamenti esteri, un debito contratto soprattutto dalle multinazionali, il quale supera in alcuni casi le riserve nazionali. Si dissolve così il miraggio di quanti avevano supposto che con il ciclo economico 2002-2008 le nazioni dipendenti si sarebbero trasformate in creditrici del sistema mondiale: con l´aumento del debito privato estero, tali Stati sono rimasti sempre debitori netti; l´avanzo commerciale ha costituito la garanzia finanziaria dell´indebitamento privato. Il capitale finanziario internazionale si è appropriato dell´eccedente commerciale generato dall´aumento dei prezzi e dal volume delle esportazioni. La crisi mondiale ha colpito l´America Latina per la sua fragilità finanziaria e commerciale e per la sua debole struttura industriale. I governi dell´America Latina avevano affermato in un primo momento che sarebbero rimasti incolumi alla crisi grazie alla solidità delle riserve delle Banche Centrali. Ma il calo delle borse regionali, la fuga di capitali e la svalutazione delle monete hanno mostrato come questi argomenti fossero privi di fondamento. Il Brasile, orgogliosamente proclamato “sesta economia del mondo”, è appena al ventiduesimo posto nel ranking degli esportatori (con il 3,3% del PIL mondiale, detiene solo l´1,3% delle esportazioni internazionali). La produttività totale dei fattori economici, che è cresciuta dell´1,6% nel primo decennio del secolo, è in fase di stagnazione dal 2010.

La capacità di influenza e di intervento diretto degli USA nel continente sono scemate seguendo il ritmo del declino economico e della crisi dell´intervento militare in altre regioni (Medio Oriente e Asia centrale). Nell´impossibilità di ricorrere ai classici golpe militari, gli USA, già con Bush, sono passati all´applicazione del cosiddetto soft power, del quale fa parte l´occupazione militare di Haiti attraverso truppe “latino-americane”, che svolgono nell´isola caraibica un servizio di polizia che gli USA, invischiati fino al collo altrove, non avrebbero potuto svolgere. Barack Obama ha ristabilito le relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba e ha ordinato la chiusura della prigione militare di Guantanamo, centro di tortura dell´esercito imperialista, ma allo stesso tempo si è ben guardato dal restituire il territorio della base a Cuba. Tanto meno mostra di voler ritornare sui suoi passi riguardo alla ripresa delle esercitazioni militari della IV Flotta, incaricata del pattugliamento della costa atlantica dell´America Latina, o di rinunciare alle quindici basi militari yankee in America centrale e Caraibi. Gli Usa tentano di recuperare il protagonismo della screditata OEA (Organizzazione degli Stati Americani) e tengono d´occhio le riserve di petrolio e gas naturale nelle acque brasiliane, la terza maggior riserva del mondo. Questa, sommata alle riserve venezuelane, boliviane ed equadoregne, aveva rafforzato momentaneamente la posizione sudamericana sulle potenze economiche capitaliste.

Alla crisi dei governi neoliberisti (identificati con la stabilizzazione monetaria basata sull´ancoraggio della valuta, o dollarizzazione), fa seguito ora il declino economico delle esperienze riformiste o nazionaliste basate su concessioni sociali, rese possibili da una favorevole congiuntura economica internazionale nella prima decade del XXI secolo. Ciò ha colpito anche i governi neoliberisti ancora attuanti, filiali dirette del capitale finanziario internazionale. L´America Latina è entrata in una nuova fase di lotte nazionali e di classe. Dopo bancarotte capitaliste, crisi politiche e rivolte sociali, la crisi mondiale irrompe in America Latina. Lo scenario politico latinoamericano è stato dominato negli ultimi decenni da crisi e mobilitazioni di massa, specialmente nei paesi andini. Ed anche da conflitti tra governi nazionalisti “radicali” – che da tali crisi sono sorti – e USA. L´emergenza della sinistra in America Latina si situa in un periodo compreso tra il 1998, con l´elezione di Chavez alla presidenza del Venezuela, ed il 2008, con l´elezione di Fernando Lugo alla presidenza del Paraguay, dopo sessant´anni di governo del Partito Colorado, passando per l´elezione di Lula, Michelle Bachelet, Evo Morales, Nestor Kirchner, Daniel Ortega, Rafael Correa e il FMLN in Salvador, come conseguenza del fallimento economico dei governi neoliberisti, seguaci del compendio del FMI.

Il neoliberismo con le sue privatizzazioni massicce, con l´apertura dei mercati, specialmente quelli dell´ex blocco socialista, con la strategia del “Consenso di Washington” è stato espressione di una ricerca di sbocco per la massa di capitale finanziario internazionale accumulato con la crisi degli anni Settanta. Non si è trattato di un´offensiva ma di una politica in tempo di crisi, il che spiega le privatizzazioni avventuristiche come quelle dell´acqua in Peru e Bolivia che hanno scatenato ribellioni popolari di massa. È stata l´impasse del capitale su scala internazionale a fornire le basi per una svolta politica di grandi dimensioni, che ha prodotto l´emergenza di processi di autonomia nazionale, all´interno dei quali si è affermato (soprattutto nei paesi andini) il ruolo inedito delle masse contadine e indigene. Nell´emergere di questi processi confluiscono le sconfitte dei partiti politici tradizionali, che sono stati garanzia di stabilità per decenni in America Latina, con la crisi mondiale delle relazioni economiche capitaliste.

Dopo un periodo di conflitti locali e internazionali, i regimi più “radicali” – quello venezuelano-bolivariano e quello indigenista andino – sono scesi a compromessi internazionali con l’imperialismo e con la borghesia locale, addomesticando la ribellione popolare. Le cancellerie delle metropoli imperialiste, e di alcune nazioni latinoamericane (Brasile e Argentina) hanno svolto un ruolo attivo affinché i “nazionalisti radicali” contenessero i processi di mobilitazione popolare. Ciò è stato possibile anche perché, dalla fine del 2002, la ripresa del commercio estero e della produzione interna, insieme alla crescita delle risorse fiscali dovute ad un ciclo commerciale internazionale favorevole alle materie prime latinoamericane, sono servite all´insieme dei governi della regione (compresi quelli neoliberisti) a lubrificare gli antagonismi sociali. Complessivamente, dal 2003-2004 si è verificato un riflusso della mobilitazione di massa. I governi nazionalisti sono riusciti ad amministrare e canalizzare la pressione popolare per neutralizzare l´opposizione di destra. La fase di relativo riflusso delle lotte popolari, dal 2004, ha condizionato la successione presidenziale in Messico e la ripresa delle grandi lotte studentesche e dei minatori in Cile e Peru.


I successi economici latinoamericani del XXI secolo, definiti dalla OCDE come “grande festa macroeconomica” sono stati relativi. Si sono registrate alte percentuali di crescita, inflazione in calo e bilanci in equilibrio, o addirittura in avanzo. Allo stesso tempo, quasi 50 milioni di persone sono uscite dalla linea della povertà, almeno a livello statistico: secondo la Cepal, tra il 2002 e il 2012, la povertà è passata dal 43,9% al 28,1% in America Latina. La popolazione con reddito compreso tra zero e quattro dollari al giorno è diminuita passando dal 45% (2002) al 30% (2009); nello stesso periodo, i detentori di un reddito compreso tra 10 e 50 dollari giornalieri (la cosiddetta “classe media”) sono cresciuti passando dal 20% al 30%, mentre i “vulnerabili” (con reddito compreso tra 4 e 10 dollari al giorno) sono passati dal 30% al 40%. Gli indici di miglioramento dei più poveri si collocano però al di sotto dell´aumento del PIL regionale. La povertà estrema (12%), d´altro canto, è in crescita negli ultimi anni. La concentrazione dei redditi (polarizzazione sociale) si è mantenuta stabile, e in alcuni casi, come quelli di Messico e Colombia, è addirittura aumentata, riconfermando l´America Latina come regione con la maggior disuguaglianza sociale del pianeta. Un dato significativo è il calo della crescita demografica, che registra 1,8 figli per donna in paesi come Brasile o Cile (negli Stati Uniti l´indice è di 1,9), collocandosi al di sotto del tasso di stabilità della popolazione. In America centrale l´indice di fertilità femminile è passato dal 6,0 del 1960 all´attuale 2,2, un calo che in Europa e negli USA si è registrato in oltre un secolo.

L´arretramento della povertà è stato particolarmente significativo in Brasile, dove i programmi “focalizzati” hanno permesso una significativa diminuzione della povertà assoluta, che tuttavia coesiste con una non altrettanto rilevante alterazione della concentrazione dei redditi, e allo stesso tempo con una diminuzione del reddito medio, della remunerazione media del lavoro salariato, e con un grande incremento delle fonti di reddito non vincolate al lavoro, negli strati più poveri. Si è verificata un´espressiva formazione di riserve internazionali, in decorrenza dei saldi commerciali ottenuti da un aumento dei prezzi delle commodities, ed anche dal fatto che il tasso basico di interesse, base di remunerazione dei titoli pubblici, è molto elevato. Ciò ha generato l´interesse degli investitori esteri, che con i titoli del debito pubblico hanno fatto affari. Tra il 2003 e il 2007 l´America Latina ha registrato un volume record di investimenti esteri, che hanno superato i 300 miliardi di dollari. Le sue multinazionali si sono lanciate in altri mercati comprando importanti attivi, anche nei paesi sviluppati. Il processo ha alimentato un balletto finanziario: ha prodotto eccellenti risultati il captare risorse all´estero, a tassi più bassi, investendole successivamente, a tassi più elevati, nel debito pubblico latinoamericano. Il governo Lula ha permesso la detrazione dalla dichiarazione dei redditi dei fondi istituzionali esteri qualora essi siano applicati in titoli pubblici. Con ciò, è aumentata l´entrata di valute, che ha fatto crescere le riserve. Ma ad un costo finanziario elevatissimo: la remunerazione dei creditori è del 12% [SDB1] reale (scontata l’inflazione) annuo, un carico di interessi crescente e impagabile.

Nella fase iniziale della crisi mondiale, nonostante si moltiplicassero le dichiarazioni ottimistiche dei governi, i dati dell´economia latinoamericana cominciavano a cambiare drasticamente. L´America Latina ha affrontato la crisi mondiale avendo oltre il 75% del PIL regionale classificato a rischio di credito all´interno del “grado di investimenti”. Nel 2008, la regione presentava solvibilità finanziaria, con il 70% del debito coperto da riserve internazionali – standard molto al di sopra degli indici dell´Est europeo. È stata sbandierata la riduzione dei debiti espressi in dollari. Ma ciò ha occultato la natura del processo economico, inserita nella valorizzazione monetaria, e favorita dalla “stabilizzazione”. Il debito estero è stato “azzerato” perché le riserve internazionali hanno superato il suo montante, il che ha creato il miraggio del superamento della dipendenza finanziaria estera. Ma l´indebitamento di un paese con libero movimento di cambio valutario da parte di imprese straniere e nazionali non può essere misurato solo sul debito estero in titoli e contratti di governo. Con l´apertura finanziaria si assiste anche ad un´accelerata denazionalizzazione delle imprese, i cui profitti e dividendi sono stati in misura crescente trasferiti all´estero. Con la riduzione dei prezzi delle importazioni e con le esportazioni meno competitive, i risultati dei conti esteri hanno cominciato a mostrare una flessione significativa già nel 2007. Il Brasile è tornato a registrare un deficit nelle transazioni correnti nel 2008, per un valore di 4 mld di dollari.

Il debito reale, in moneta convertibile, deve essere considerato nel contesto complessivo del debito interno in titoli pubblici, e del debito estero privato. Un titolo pubblico brasiliano, che scade nel 2045, offre il 7,5% di interesse al di sopra dell´inflazione, lo stesso titolo in Giappone paga solo l´1% o meno; prendere in prestito a Tokio e investire a San Paolo è diventato il grande affare delle banche che operano in Brasile. Le cadute spettacolari che hanno colpito la Borsa di San Paolo rappresentano la manifestazione della vulnerabilità finanziaria del paese. La demolizione dei “mercati emergenti” è iniziata. La crisi mondiale ha meccanismi diretti di trasmissione vincolati alla contrazione della domanda mondiale.
Anche durante il boom commerciale, la dipendenza della regione dagli USA e dall´Europa ha continuato ad essere pesante. Più del 65% delle esportazioni latinoamericane sono dirette verso queste due aree, ed il restante va verso l’Asia e i soci regionali. Con la frenata cinese, si calcola che in 2-3 anni gli USA rioccuperanno il posto di maggior importatore di prodotti brasiliani, scalzando la Cina, attualmente detentrice del primato. Alcuni paesi latinoamericani sono più esposti al commercio unilaterale: il commercio del Messico è totalmente dipendente dagli USA (che consumano più dell´85% delle sue esportazioni). Nel caso brasiliano, economia più “indipendente” del continente e dotata della maggior area industriale, l´avanzo commerciale (2003-2013) con il Mercosud è stato di 46 mld di dollari; con gli USA-UE, quasi il doppio, 90 mld di dollari (17,8 mld con gli Stati Uniti e 71,6 mld con l´UE). Le economie latinoamericane hanno continuato ad essere molto dipendenti dalla vendita delle materie prime, che rappresentano più del 60% delle esportazioni. Tra l’altro la situazione del mercato mondiale rende sempre più difficile un nuovo ciclo di indebitamento. Il flusso di capitali, applicazioni e investimenti diretti sono in discesa.

Le esperienze dei governi nazionalisti hanno fallito tanto nel tentativo di strutturare uno Stato nazionale indipendente, quanto in quello di avviare un processo di industrializzazione capitalistica autonomo che passasse per la distruzione della supremazia del capitale finanziario. Non hanno creato una borghesia nazionale, e tanto meno hanno strutturato una fase di transizione sotto l´egemonia dello Stato. Al contrario, hanno creato una “boliborghesia” (i “boligarchi” del Venezuela), o un “capitalismo degli amici” dei Kirchner, attraverso la burocrazia di governo (che ha dissanguato finanziariamente lo Stato). Nelle nazionalizzazioni, i capitalisti (esteri e interni) hanno ricevuto forti compensazioni, addirittura superiori ai valori quotati in borsa dei capitali “espropriati”. In nessun caso è stata rivoluzionata la gestione economica attraverso il controllo o la gestione collettiva della proprietà nazionalizzata. Le nazionalizzazioni non hanno toccato le banche, base della gestione capitalistica dell´economia. L´uso delle risorse fiscali straordinarie per compensare i capitali nazionalizzati ha finito per bloccare la possibilità di uno sviluppo economico indipendente. Il capitale estero, forzato ad uscire dalla sfera industriale, è ritornato sotto forma di capitale finanziario, usando gli indennizzi ottenuti dall´acquisto del debito pubblico. In Venezuela il petrolio è formalmente nazionalizzato, ma la PDVSA (la Compagnia petrolifera statale venezuelana) registra una crisi di costi e di indebitamento, che la rende dipendente dagli accordi di partecipazione con i monopoli internazionali per lo sfruttamento del Bacino dell´Orinoco. Il Venezuela ha subito, sotto Chavez, un arretramento industriale significativo (dissimulato dal rendimento differenziale del petrolio del Paese) e attualmente si trova costretto ad importare il 70% del suo fabbisogno alimentare.

In questo contesto, nel maggio del 2013, Messico, Cile, Colombia e Peru, paesi che hanno siglato trattati di libero commercio con gli USA, hanno dato vita all´“Alleanza del Pacifico” (Costa Rica e Panama partecipano in qualità di membri osservatori), eliminando il 90% delle loro tariffe sulle importazioni (e prevedendo l´eliminazione del restante 10% entro il 2020), e mettendosi di traverso ai progetti di integrazione continentali portati avanti dal Brasile (i quattro paesi del Pacifico hanno una popolazione di 210 milioni di persone contro i 200 milioni del Brasile; un PIL di 2mila miliardi di dollari, contro i 2,4mila miliardi del Brasile). L´iniziativa si colloca nell’ambito delle negoziazioni promosse dagli USA a favore della TPP (Associazione Transpacifica) con i paesi asiatici (tranne la Cina), Oceania e America che affacciano sul Pacifico, ignorando gli accordi commerciali regionali di questi paesi. I nove paesi del progetto TPP (che includono Cile e Peru) posseggono un PIL di 18mila mld (l´85% appartiene agli USA) che oltrepasserebbe i 28mila mld di dollari qualora fossero incorporati Messico, Canada e Giappone.

La “movida” di ispirazione yankee ha chiaramente sfruttato la non riuscita e l´arretramento dei progetti di “unione latinoamericana” agitati dal nazionalismo sudamericano. Il Venezuela chavista ha abbandonato la CAN (Comunità Andina delle Nazioni) nel 2006 – che è rimasta limitata a Colombia, Peru, Bolivia ed Ecuador – e la sua successiva incorporazione al Mercosud, concomitante con il golpe che ha spodestato il governo Lugo e prodotto la momentanea esclusione del Paraguay dal blocco, ha beneficiato principalmente le imprese brasiliane, che avevano già ottenuto l´”Accordo di Complementazione Economica” (ottobre 2014), che si colloca al di sopra delle istituzioni e degli accordi del Mercosud ed è favorevole esclusivamente al Brasile. L´ingresso del Venezuela potrebbe essere interessante per l´America Latina qualora permettesse accordi bilaterali, di scambio di fonti energetiche con prezzi bassi rispetto a quelli internazionali, investimenti industriali su vasta scala, con prestiti economici e di lungo periodo. Ma questa è una prospettiva al di fuori delle possibilità delle borghesie nazionali, per le loro rivalità e per la pressione esercitata dal capitale finanziario internazionale.

I governi bolivariani si vanagloriano di una cosiddetta integrazione senza precedenti nella storia continentale, ma il torrente di parole è privo di sostanza, come dimostra l´arretramento del Mercosud, invischiato in dispute commerciali (dal 2011 l´Argentina applica tariffe non automatiche di importazione a 600 prodotti). Il proposito del blocco, creato nel 1991, era quello di ottenere una maggiore capacità di negoziare l´integrazione dei paesi che lo componevano al mercato mondiale, e si è concluso con un fallimento (è stato firmato appena un accordo di libero commercio… con Israele). Brasile e Argentina hanno incorporato il Venezuela al Mercosud, ma si è trattato di un atto privo di contenuto: la postulata integrazione energetica del blocco si è rivelata un´illusione. Le crisi mondiali presentano un´opportunità per i paesi il cui sviluppo è arretrato a patto che ci sia una politica indipendente della borghesia nazionale, costretta ad attuare sotto la pressione della crisi a causa della sua dipendenza dal capitale internazionale. Più che mai le economie dell´America Latina dipendono da una manciata di materie prime, agricole e minerarie. L´integrazione latinoamericana che rappresenta una sicurezza soprattutto per il Brasile, riflette gli interessi delle grandi imprese di costruzione che attuano nelle opere di infrastrutture, vincolate agli investimenti di capitali provenienti dalle miniere internazionali e in stretta relazione con il capitale dei macchinari pesanti degli USA.

Il nazionalismo non è riuscito a superare i suoi limiti localistici e la concorrenza tra le borghesie del continente. La proposta di “integrazione degli eserciti” è reazionaria: le caste militari (e i servizi di intelligence ad esse vincolati) non sono altro che un corpo refrattario a qualsiasi controllo sociale, e a qualsiasi controllo reale da parte delle cosiddette istituzioni rappresentative. Nei paesi favoriti dalle esportazioni di combustibile (gas e petrolio) il nazionalismo ha usato le nazionalizzazioni non per trasformare i lavoratori in classe dominante, ma per impedire una loro organizzazione indipendente, e per sottomettere le loro organizzazioni alla tutela dello Stato. La COB boliviana è sottomessa al governo di Evo Morales, la cui stabilità economica e politica poggia sulla vendita di gas al Brasile e all´Argentina, e sull´aumento del 32% delle tasse e royalties che le imprese straniere produttrici devono pagare allo Stato dal 2006. In Venezuela, il governo si è impegnato a statizzare il movimento sindacale. In generale, le nazionalizzazioni parziali e gli aumenti di riscossione sono serviti come pretesto, in settori sindacali e della sinistra, per abbandonare l´indipendenza di classe e sommarsi allo Stato nazionalista. Assoggettate allo Stato nazionalista-caudillo, le nazionalizzazioni e le “isole di autogestione” (che devono competere commercialmente con le imprese capitaliste) hanno finito per rafforzare il capitalismo e lo sfruttamento. Il Venezuela post-Chavez, colpito dal calo del prezzo del petrolio, è affondato in un´inflazione annua del 65% accompagnata dalla recessione, che proietta l´ombra di un default finanziario. Le manovre golpiste dell´opposizione inciampano nelle divisioni interne, che riflettono la divisione stessa dell’imperialismo yankee (estremisti repubblicani vs Obama-democratici) a proposito delle politiche da seguire, considerando l´identità chavista delle Forze Armate.

La nazionalizzazione integrale delle risorse naturali ed energetiche è la precondizione per un´integrazione latinoamericana che non sia strumento di competizione tra monopoli (come la fallita ALCA o lo stesso Mercosur). Senza tale condizione, i progetti di unificazione (come il gasdotto del sud) non hanno possibilità di esistere. Le nazionalizzazioni sono state condizionate positivamente dall´aumento dei prezzi del combustibile e dei minerali, e cioè dalla possibilità di distribuire il reddito differenziale tra capitale estero e Stato. C´era (addirittura avanzava) denaro da far felici tutti. Ma ciò non è servito a modernizzare lo sfruttamento di risorse naturali, ed il capitale investito è stato consumato improduttivamente. Attraverso il ricorso a risorse straordinarie, Venezuela e Bolivia hanno stimolato significative campagne a favore della salute e dell´educazione, ma non hanno fatto passi avanti per consolidare le basi economiche dell´autonomia nazionale, per sostenere nel lungo periodo i piani e programmi sociali. Hanno concluso dilapidando gli eccezionali rendimenti della produzione delle miniere, credendo che i prezzi internazionali non sarebbero mai caduti, ma il prezzo internazionale del petrolio, che ha toccato i 150 dollari, è caduto attestandosi a poco più di 50.
La caduta dei prezzi degli idrocarburi, conseguenza della crisi mondiale, ha provocato la crisi delle nazionalizzazioni in corso, ed ha aperto la strada ad una nuova fase di concessioni ai monopoli multinazionali. Il ciclo di riscossione fiscale si sta concludendo. Le limitate riforme fiscali, ottenute attraverso l´aumento delle imposte sul petrolio e sul gas estratti dalle multinazionali, hanno reso un vantaggio passeggero che si colloca nel contesto di elevati prezzi internazionali. La crisi mondiale minaccia soprattutto il governo nazionalista dell´Ecuador, il cui petrolio finanzia non solo l´economia nazionale ma la stessa dollarizzazione, che si mantiene ancora oggi. Di fronte alla crisi del nazionalismo, la burocrazia sindacale latinoamericana mostra di non avere indipendenza politica, seguendo le politiche di salvataggio del capitale praticate dai governi. Non ha un programma proprio, proponendo, per esempio, la nazionalizzazione e il controllo operaio delle imprese fallite. I sindacati sudamericani si sono limitati a chiedere ai capi di Stato della regione che esigessero la garanzia della manutenzione dei posti di lavoro nelle imprese che hanno ricevuto il sostegno del governo.

Nei paesi andini, dove il movimento bolivariano ha avuto maggior ripercussione internazionale, la peculiarità del nazionalismo è l´indigenismo, il protagonismo delle masse rurali che si sono spostate verso le città, dove hanno occupato il posto occupato precedentemente dal proletariato industriale. Le ideologie indigeniste comprendono un ventaglio di posizioni che va dal ritorno all´incaismo alla preservazione delle comunità rurali originarie a partire dalle sue basi produttive (la piccola proprietà). Ma è stata la piccola borghesia urbana ad imporre alla massa indigena il suo programma, il cosiddetto “capitalismo andino”, che postula l´integrazione delle forme agricole precapitalistiche al capitalismo “globale”, attraverso la mediazione dello Stato. Sono state così frustrate le promesse di una rivoluzione agraria.

Divisi ed addirittura in opposizione tra loro, i progetti capitalistici “latinoamericani” sono entrati in crisi. La moneta comune Brasile-Argentina non riesce ad essere più di un espediente per compensare i saldi dei pagamenti esteri. L´autonomia dell´ALBA è smentita dai compromessi simultanei dei paesi che ne fanno parte con altri accordi internazionali. Il processo capitalista opera per la disintegrazione dell´America Latina. Il Brasile ha rafforzato l´alleanza finanziaria con gli USA e ha ridotto il consumo ed il prezzo del gas boliviano. L´UNASUL è un progetto della borghesia brasiliana per “integrare” un´industria militare regionale sotto il suo controllo, e per far crescere le spese in infrastrutture per le sue imprese di costruzione private. La CELAC (Comunitá degli Stati Latinoamericani e Caraibici) è appena un luogo di discussione, che non riesce neanche a pronunciarsi contro i golpe (Paraguay o Honduras), contro l´embargo yankee a Cuba, o per il ritiro delle truppe straniere ad Haiti, e men che mai per il ritiro delle basi militari (Washington aumenterà il contingente militare in Peru da 125 a 3.200 soldati a partire dal 1 settembre), o contro le manovre navali nordamericane. Le bandiere dell´“integrazione” sono via via divenute fiction politica. Il nazionalismo borghese fallisce di nuovo come nel passato, ora nel contesto di una crisi mondiale inedita.

Con l´impatto della crisi mondiale (e con l´elezione di Obama) è stata insistentemente rivendicata la “fine della guerra fredda in America Latina”. La pacificazione tra USA e Cuba, la normalizzazione tra Cuba e EU sono servite a stabilizzare politicamente l´America Latina opponendo l´integrazione politica di Cuba alla rivoluzione latinoamericana, offrendo in cambio la fine dell´isolamento di Cuba. Il destino di Cuba è più che mai inserito nel contesto latinoamericano e nella sua stessa crisi politica interna, contesti che il governo di Raul Castro tenta di “navigare” proponendo una sorta di “via cinese”, con un ruolo centrale delle Forze Armate (che controllano più del 60% dell´economia cubana). Il contesto per una transizione al capitalismo, come quella che si è verificata in Russia e Cina, però, è cambiato nel piano internazionale: il mercato mondiale è diventato troppo stretto per ammettere un nuovo competitore (benché piccolo, come Cuba). Il contesto ideologico internazionale non è più quello della “fine del comunismo”, come nel 1989-1991. Rivendicare la fine dell´ embargo nordamericano ed il riconoscimento incondizionato all´autodeterminazione nazionale cubana (a cominciare dalla restituzione di Guantanamo e dalla ritirata delle truppe yankee dall´isola) potrebbe mettere Cuba in contatto diretto con le lotte sociali latinoamericane, non solo con il capitale mondiale.

Le FARC colombiane sono diventate un fattore di crisi politica internazionale, che ha provocato una mobilitazione bellica nella regione. Prima di morire, Chavez ha appoggiato lo “scambio umanitario” di ostaggi ed ha riconosciuto il ruolo di forza belligerante alle FARC, per poi chiedere il disarmo e la liberazione incondizionata degli ostaggi, spingendo per il disarmo unilaterale della guerriglia. L´esperienza della lotta armata delle FARC (che sono arrivate a controllare quasi un terzo del territorio colombiano) è politicamente esaurita, ma ciò è usato per assegnare la vittoria politica ai paramilitari colombiani entrati al governo nel tentativo di cancellare il loro passato criminale e di riciclarsi nello “Stato di Diritto”. I negoziati di pace che si stanno portando avanti a Cuba, sotto il patrocinio del governo castrista, si inseriscono in questo solco reazionario. In America centrale, le guerriglie (FSLN e FMLN) hanno abbandonato le armi per aggiungersi alla “politica istituzionale” (borghese) e gestire lo Stato capitalista.

Nel gigante dell´America del Sud, il quarto mandato presidenziale del PT è iniziato sotto il segno: a) della crisi economica e politica; b) del tentativo di orchestrare un attacco strutturale alle conquiste del lavoro e alle condizioni di vita dei salariati brasiliani con l´obiettivo dell´”equilibrio fiscale” e della riduzione del “costo Brasile” (ossia del recupero del saggio di profitto) per generare una nuova corrente di investimenti esteri e interni. Le esportazioni dei manifatturati (base principale della produzione industriale) si sono attestate nel 2014 ad un valore di 6 mld di dollari più basso rispetto al 2008, un arretramento assoluto del 17%. La bilancia commerciale ha registrato un deficit di 3,93 mld di dollari, il primo da quattordici anni. Il deficit commerciale in beni industriali (importazioni/esportazioni di beni manifatturati) è salito al 150% in cinque anni (solo l´Arabia Saudita ha registrato un dato peggiore nell´economia mondiale). La riconversione in un´economia basata sull´esportazione di materie prime sta presentando il conto, economico ed anche ambientale: l´estrazione sfrenata di minerali, la produzione di soia e pollo compromettono irrimediabilmente gli ecosistemi, in particolare quello acquifero. Gli indicatori industriali di produzione sono tutti in caduta. L´industria automobilistica brasiliana opererà quest´anno ed il prossimo, al 50% della sua capacità massima di produzione. Nel bilancio economico dei primi quattro anni di Dilma Rousseff la crescita accumulata del PIL è caduta dal 19,6% al 7,4% (una diminuzione del 60% in relazione ai due governi Lula); la percentuale di inflazione accumulata è aumentata dal 22% al 27% (un aumento del 20%); il deficit accumulato in conto corrente è saltato da 98,2 a 268 mld di dollari, un aumento del 170%.

Dilma Rousseff ha cercato di assorbire la pressione dei “mercati”, la cui principale preoccupazione è che il Paese riesca ad onorare il pagamento del debito estero e ad aumentare gli “incentivi” affinché il capitale speculativo non fugga. Tra gli “incentivi” non compaiono solo il congelamento dei salari e la riduzione della spesa sociale. Un posto importante è occupato dalla liberalizzazione del commercio estero e dal cambiamento della politica sul petrolio. Gli sforzi del governo per arrivare a siglare un accordo di libero commercio con l´Unione Europea, per debilitare il Mercosud e “liberare” la politica brasiliana dall´Argentina, sono stati finora bloccati dai governi di Argentina e Uruguay. Riguardo alla questione del petrolio, il governo Dilma ha ceduto alla pressione esercitate sulla Petrobras perché essa rispondesse agli interessi dei suoi azionisti privati (aumento del prezzo della benzina e politica di più alti profitti e distribuzione di dividendi). Il debito pubblico del Brasile è del 60% superiore al PIL; peggiore è la situazione del debito privato, che è vicino al 100% del PIL. Nonostante gli avanzi primari abbiano totalizzato tra il 2002 ed il 2013 ed in valori correnti 1082mila mld di reali, il debito interno è balzato a quasi tremila mld di reali (1200mila mld di dollari). In questo quadro, l´entrata di capitale speculativo per approfittare della differenza dei tassi di interesse brasiliani rispetto a quelli dei mercati internazionali è stata forte in questi ultimi anni, ma ora affronta un´inversione di tendenza. La fuga di capitali ha significato una considerevole svalutazione del real, di oltre il 30%.

Lo scandalo di corruzione della maggior impresa del Paese, la Petrobras, ha acquisito dimensioni impreviste, colpendo anche i conti pubblici: l´impresa (il cui prezzo di mercato è caduto dai 410 mld di reali del 2011 ai 160 mld di reali attuali) è responsabile del 10% dell´introito fiscale del Paese. Secondo la Merril Lynch, lo scandalo costerà lo 0,86% del PIL. Il sistema di tangenti miliardarie per la concessione di contratti pubblici coinvolge le nove maggiori imprese costruttrici del Paese (Camargo Correa, Engevix, Galvão, Mendes Júnior, IESA, OAS, Odebrecht, Queiroz Galvão, UTC). La banca Morgan Stanley, ha calcolato che le perdite dell´impresa petrolifera causate dal sistema di corruzione corrisponderebbero a 21 mld di reali (circa 8 mld di dollari). Attorno alla Petrobras si muove l´industria della costruzione navale, l´industria pesante ed altri segmenti dell´economia brasiliana. Le nove imprese che hanno partecipato al progetto corrotto (il “cartello”) hanno fatturato nel 2013 33 mld di reali attraverso contratti pubblici, hanno finanziato candidati a deputato per 721 mld di reali e candidati a senatore per 274 mld di reali; il 70% dei parlamentari eletti nel 2014 ha ricevuto contributi dalle grandi imprese. Più della metà dei membri della commissione parlamentare di inchiesta (CPI) sul petrolão ha ricevuto contributi miliardari da parte di imprese attualmente nel banco degli imputati. Il “club” aveva 16 soci fissi e sei imprese “occasionali”. In una dimostrazione di “sovranità”, il Procuratore Generale del Brasile, Rodrigo Janot (minacciato di morte), ha cercato l´aiuto, durante le indagini, della FBI americana. Le voci che rivendicano la completa privatizzazione della Petrobras già si sono fatte sentire. Non ancora quelle che rivendicano la totale statizzazione sotto il controllo operaio.

La caduta del prezzo internazionale del petrolio sarebbe, secondo alcuni analisti, la grande opportunità per una riattivazione dell´economia mondiale, ma quel che si annuncia è un periodo di arretramento per i paesi che sopravvivono grazie ai profitti provenienti dall´estrazione mineraria. Il prezzo del barile di petrolio era salito fino a toccare i 150 dollari, prima di sprofondare a 50-55 dollari. La caduta dei prezzi internazionali ha poca ripercussione sui prezzi interni, essendo innocua per la riattivazione del consumo finale. La maggior parte dei governi ha bisogno di imposte sui combustibili per far fronte al pagamento del debito pubblico e al salvataggio delle banche. L´impatto negativo sul saggio di profitto delle compagnie petrolifere è forte, e si deve all´aumento di costi che ha accompagnato l´aumento dei prezzi, alla distribuzione del reddito tra tutti i settori che intervengono nella produzione, all´incorporazione dei giacimenti che esigono processi più costosi, o all´incremento degli investimenti. La caduta mondiale del prezzo del petrolio corrisponde a quella di tutte le materie prime, dei minerali e degli alimenti. Questa sterzata modifica il corso della crisi economica mondiale perché investe in pieno la periferia nello stesso momento in cui la crisi si acuisce in Europa e Giappone.

La caduta del prezzo internazionale del petrolio è stata attribuita alla caduta della domanda di Cina e Europa, al forte aumento della produzione di combustibili non convenzionali negli USA e al recupero della produzione in Libia e in Irak. La crisi di sovrapproduzione della Cina è decisiva, perché il paese è un fattore fondamentale per l´espansione del mercato mondiale. Il profitto del settore petrolifero aveva già aperto il campo alla produzione di gas e petrolio non convenzionali negli USA. Nel mercato nordamericano il prezzo del gas è caduto al limite della redditività del suo sfruttamento. La diminuzione del prezzo della benzina – e quello del gas per l´industria e per il riscaldamento – è annullata dalla chiusura dei giacimenti, la cui produttività è in declino. Il boom dei combustibili negli USA è stato spinto dai bassi tassi di interesse, che hanno permesso di finanziare investimenti che sarebbero stati proibitivi con tassi maggiori. La strategia saudita di aumentare la produzione per impedire nuovi investimenti ha significato l´interruzione di buona parte dello sfruttamento nordamericano del petrolio di scisto, scartando i nuovi investimenti e provocando il licenziamento di decine di migliaia di lavoratori. Gli anelli deboli della crisi petrolifera internazionale sono Brasile, Russia e Venezuela. I costi della Petrobras e della PDVSA superano i prezzi internazionali attuali del petrolio; a questi livelli entrambe le imprese non avrebbero possibilità di attuare. Il problema è che, oltre a ciò, posseggono debiti enormi e sono fonti di finanziamento di Stati che hanno debiti ancora più alti. Le azioni della Petrobras sono quotate a meno della metà della sua media storica.

In Brasile il deficit pubblico è arrivato al 5% del PIL nel 2014, il più alto livello dal 2003. Il deficit commerciale e in conto corrente sono i peggiori dei dodici anni di governo del PT. Il deficit dei conti esteri ha raggiunto il 3,7% del PIL, 83,56 miliardi di dollari, un livello che non si toccava dal 2001-2002 (periodo della crisi argentina). Vasti settori del grande capitale brasiliano per questo hanno cominciato a proporre un cambiamento dell´asse economico esterno. Luiz Alfredo Furlan, rappresentante dell´agribusiness (ed ex ministro di Lula) ha proposto apertamente l´uscita del Brasile dal Mercosud e la sigla di accordi bilaterali con gli USA e l´UE. Il 10% più ricco della popolazione continua ad essere detentore del 60% delle entrate; lo 0,5% della popolazione detiene il 20% del reddito nazionale. La disuguaglianza sociale si è mantenuta stabile nell´era Lula-Dilma, presentando una lieve tendenza all´aumento. Ma è sufficiente darsi uno sguardo intorno per costatare le pessime condizioni di vita dell´immensa maggioranza della popolazione brasiliana che negli ultimi decenni non è progredita, ma che, al contrario, in materia di risanamento basico, salute o educazione, ha subito un logorio che è stato il detonatore delle giornate di lotta del giugno 2013.

L´annuncio dell´equipe economica del nuovo governo ha ricevuto il benvenuto del grande capitale. Joaquim Levy, tra il 2010 e il 2014, è stato presidente del Bradesco Asset Management, che amministra oltre 130 mld di dollari. È stato discepolo, all´Università di Chicago, di Milton Friedman, il padrino dei Chicago Boys e padre dichiarato del neoliberismo mondiale. Come responsabile politico del Fondo Monetario Internazionale (tra il 1992 e il 1999), Levy è stato avvocato ed esecutore di programmi di austerità in diversi Paesi. Durante il governo di Fernando Henrique Cardoso, Levy ha attuato come stratega economico, coinvolto nella privatizzazione di imprese pubbliche e nella liberalizzazione del sistema finanziario, che ha facilitato la fuga di 15 mld di dollari annui. Levy è membro eminente dell´oligarchia finanziaria del Brasile. In un altro ministero strategico, quello dell´agricoltura, Katia Abreu afferma che il latifondo in Brasile non esiste. È stata dirigente della Confederazione Nazionale dell´Agricoltura ed è rappresentante della lobby della soia, altro settore in caduta libera a livello mondiale.

Riguardo alle questioni che interessano il lavoro, il sussidio di disoccupazione, la pensione per morte del coniuge e altri benefici sociali basici saranno molto più difficili da ottenere. Gli sgravi fiscali nel pagamento di salari e stipendi, praticata dal 2008 non ha invertito la politica di licenziamenti, al contrario, la ha accentuata. Facendo una verifica incrociata dei dati, è stato dimostrato che i settori imprenditoriali hanno pagato 5,5 mld in meno (il 23,1% del montante di imposizione fiscale di 23,8 mld sull´industria), e più che assumere hanno licenziato dal 2012. E Levy propone non solo il mantenimento degli sgravi, ma anche l´inserimento di nuove norme che facilitino i licenziamenti. La capacità di produzione dell´industria ha toccato il suo peggior livello di uso medio dal 2009, spinta verso il basso dal settore siderurgico, le cui industrie si attestano al 68,6% della loro capacità produttiva. All´inizio del nuovo anno, i lavoratori della Volkswagen dell´area industriale di San Paolo sono entrati in sciopero a tempo indeterminato per il reintegro di 800 lavoratori licenziati. L´impresa non ha rispettato l´accordo siglato nel 2012, che prevedeva la stabilità dei lavoratori fino al 2016. Altri 244 operai sono stati licenziati alla Mercedes Benz. Il 12 gennaio i metalmeccanici delle industrie di San Paolo hanno realizzato una grande manifestazione: più di 20mila tra lavoratori della Volks, della Mercedes e della Karmann Ghia hanno occupato l´autostrada Anchieta. I metalmeccanici hanno mantenuto la protesta fino al ritiro, da parte delle organizzazioni padronali, dei licenziamenti (il sindacato ha comunque accettato un piano di licenziamenti volontari). A São José dos Campos, uno sciopero di sei giorni degli operai della General Motors è riuscito a sbarrare la strada ai licenziamenti.

In Messico, nella notte del 2 settembre 2014 ad Iguala, nello Stato di Guerrero, 43 studenti del combattivo Magistero di Ayotzinapa, che avevano tra i 18 e i 21 anni, sono stati massacrati dopo l´attacco della polizia partito su ordine del sindaco ora detenuto. Narcotrafficanti hanno confessato e sono stati arrestati ma si tratta di una confessione alla quale non hanno creduto, in mancanza di prove, i genitori delle vittime. L´episodio ha suscitato un vasto movimento di condanna a livello nazionale, che la repressione non è stata in grado di fermare. Dopo quasi un mese e mezzo, la Procura Generale messicana ha voluto chiudere il caso accettando la confessione dei tre capri espiatori offerti dal narcotraffico, nonostante l´evidente coinvolgimento della polizia ed anche dell´esercito nel massacro. La mobilitazione non si ferma e sta mettendo in crisi il governo del PRI (Peña Nieto) e la sua compiacente opposizione, destabilizzando l´immenso paese che confina con l´intero sud degli Stati Uniti, dove la maggioranza della popolazione è di origine messicana o latinoamericana. Il salario minimo del Messico, integrato all´economia degli USA attraverso il NAFTA, è, proprio per questa ragione, il più basso del continente. A giugno ci saranno le elezioni: la crisi politica messicana è appena iniziata, ottenendo una proiezione internazionale esplosiva. Ed essa ha effetti anche sul suo vicino del sud, il Guatemala, governato dal generale genocida Otto Pérez Molina, che governa attraverso una serie di stati d´assedio regionali (e di omicidi di leader contadini e indigeni) per consentire il mantenimento del 60% delle terre coltivabili del Paese nelle mani di imprese multinazionali.

All´altro estremo dell´America Latina, in Argentina, la morte del procuratore di Stato coinvolto nel processo AMIA (l´attentato del 1994 contro l´associazione mutualista giudaica che fece oltre 400 feriti ed 87 morti), sistematicamente coperta dai governi degli ultimi venti anni, mostra la decomposizione assassina dei servizi segreti ereditati dalla dittatura militare, che la “democrazia” ha lasciato intatti, e la loro complicità con i servizi segreti stranieri (principalmente CIA e Mossad) configurando una crisi nella spina dorsale dello Stato. Nella crisi politica e istituzionale si proietta politicamente il Fronte di Sinistra, guidato dal Partido Obrero, un´alternativa di carattere classista e rivoluzionario, una proiezione confermata dai recenti comizi elettorali di Mendoza e Salta (le elezioni nazionali sono fissate per ottobre di quest´anno). L´Argentina rispecchia una situazione in cui le condizioni oggettive (economiche, sociali e politiche) del continente, nel solco della crisi mondiale, aprono la possibilità di costruzione di un´alternativa di sinistra rivoluzionaria. 

Nessun commento:

Posta un commento