lunedì 7 febbraio 2011

Marxismus und Philosophie* - von Thomas Metscher -

*Da:    “Marxismo e filosofia”, pubblicato in Marxistische Blätter, n. 6 – 2010. Parte 1.

 Nel suo nocciolo concettuale, il marxismo è una forma, flosoficamente fondata, di coerente sapere comprensivo (begrifflich), che mira ad un tutto prospettico della conoscenza del mondo. Il suo scopo ultimo è il cambiamento del mondo - <cogliere nel pensiero il tutto di un mondo, allo sopo di mutare il tutto di un mondo>, cambiamento con lo scopo di pervenire ad un mondo a misura umana.

Son da rifiutare tutti i rapporti di annichilimento, di sofferenza e di asservimento. ‘Filosoficamente fondato’  è questo pensiero, pochè riflette sui propri presupposti, perché si svolge con coerenza metodologica e perviene ad un tutto della conoscenza, in quanto i suoi ragionamenti derivano ‘dai fondamenti’. E’ il concettualizzare di una totalità relazionale, sostanzialmente non metafisica (esistente oggettivamente), ma pensata come qualcosa di radicalmente storico.: come totalità di un mondo storico particolare, che può sempre essere concepito  in una prospettiva storica. 

Solo in via approssimativa, il tutto del processo storico, in  quanto successione di mondi storicamente umani, così come la serie dei processi naturali,  hanno il proprio fondamento nella storia dell’uomo. La rappresentazione di una totalità relazionale nel senso della metafisica tradizionale –come totalità dell’essente- è per il pensiero marxista da abbandonare. Tale pensiero, infatti,va inteso –e nel modo più radicale- come post-metafisico. La conoscenza della totalità delle connessoni è impossibile al di fuori della rottura storico-speculativa –come conoscenza della realtà ‘in sé’- . Non è possibile, almeno, senza un rinnovamento dei presupposti metafisici. 

domenica 6 febbraio 2011

Il significato di mito. - Stefano Garroni -

Nel numero 5-2010 di Marxistische Blätter, il compagno R. Steigenwald interviene sulla problematica del mito, con un articolo dal titolo Che cosa falsi e autentici miti dovrebbero raccontarci?
E’ interessante che il compagno inizi il suo scritto con una citazione da Thomas Mann, che riecheggia motivi freudiani: “Profondo è il pozzo del passato. Non si dovrebbe dire che è insondabile?[1]
Steigenwald si richiama ad Alfredo Bauer[2], -comunista di estrazione ebraica, che riuscì a sfuggire alla persecuzione nazi-fascista, rifugiandosi in Argentina-, per affermare che “oggi ed ora, siamo circondati da miti. Difficilmente ci troveremmo a nostro agio nel mondo, in mancanza di miti. L’insieme dei miti riporta a noi il passato. Poiché, appunto questo sono i miti: storie, che ci riportano il passato e, con ciò stesso, ci rendono comprensibile il nuovo. Le ‘scene del mito’ mostrano i  nostri dei, eroi e sapienti come essi sono e come divennero ciò, che sono per noi”. Ma cosa dobbiamo intendere col termine <mito>?
“Una pluralità di eventi e di situazioni –difficilmente riconducibili all’univocità di una definizione- si annoda nelle ramificazioni dei significati generati dall’uso del termine, la cui comparsa nelle fonti greche costituisce un avvenimento epocale: l’irruzione di un segno linguistico capace di mostrare, da una parte, la forza creatrice insita nel processo di costruzione semantica dei mondi rappresi nelle forme del pensiero orale e, dall’altra, il delinearsi, nel contesto delle loro articolazioni, di orizzonti di esperienze emblematiche, che risultano  irriducibili ai paradigmi                                                                                                 del pensiero analitico e lineare della civiltà della cultura alfabetica.” [3] 

Hegel e Feuerbach. - Stefano Garoni-


Nelle parti fin qui svolte della nostra ricerca, ci siamo imbattuti in alcune difficoltà, in qualche punto, che abbisognano di maggior chiarezza. Ad es., abbiamo visto accostare la critica, che Marx muove allo  Hegel a quella, che lo stesso muove a Feuerbach, in relazione al tema (religione e) feticismo. Il risultato di ciò è che rischia di falsarsi il senso di quelle pagine giovanili, in cui Marx fa i conti sia con la Fenomenoogia hegeliana, che col pensiero di Feuerbach appunto. Entriamo nel merito. 

sabato 22 gennaio 2011

Come si determinano il salario "giusto" e il "giusto" lavoro* - Friedrich Engels

Tradotto in italiano e trascritto, direttamente dagli articoli originali in lingua inglese presenti sul MIA, da Dario Romeo, marzo 2001

 Sul finire degli anni Settanta dell'Ottocento, la pace tra le classi inglesi iniziava a traballare. La Grande Depressione, avvenuta durante il decennio, aveva colpito tutto il mondo occidentale ed era stata, come sempre, particolarmente dura per gli operai. Il ciclo capitalistico discendente rimetteva in moto i familiari attacchi della classe capitalista contro i compromessi riformisti ch'erano stati effettuati entro la società capitalistica.
George Shipton, Segretario del Consiglio sindacale inglese, faceva anche da editore per il Labour Standard, l'organo dei sindacati inglesi. Egli chiese a Engels di contribuire ad una discussione sul riformismo e sul movimento operaio stesso.
Engels accettò e, tra il maggio e l'agosto 1881, scrisse 11 articoli, tutti apparsi in editoriali anonimi. Egli utilizzò problematiche contemporanee per elaborare principi economici di base sul socialismo scientifico e sulla natura del capitalismo. Evidenziò in questi articoli l'inevitabilità del conflitto tra capitalisti e proletariato - tale lotta non è un'aberrazione, è una caratteristica centrale del capitalismo. I capitalisti saranno sempre interessati ad abbassare i salari e le condizioni di vita della massa delle persone prive di proprietà, semplicemente perché ciò è nel loro interesse.
Egli attaccò la visione dei sindacati come difensori quotidiani del proletariato in tale battaglia. Nel suo primo articolo suggerì al movimento operaio di abbandonare l'insignificante slogan "Una paga equa per un equo lavoro" - in quanto la natura intrinseca del capitalismo impedisce ai capitalisti di essere "equi" con gli operai, i cui salari essi devono sempre tentare di abbassare - e di sostituirlo con lo slogan: "Possesso dei mezzi di produzione - materie prime, fabbriche, macchinari - agli operai stessi!"
Nell'articolo "Un partito degli operai", Engels sottolinea come i sindacati da soli non possono liberare la gente dal ciclo ininterrotto della schiavitù salariale. Questa deve unirsi in partito politico indipendente. L'assenza di tale partito in Inghilterra tiene la classe operaia sotto il giogo del "Grande Partito Liberale". E ciò crea confusione e demoralizzazione.
Da diverse lettere (a Marx, 11 agosto; a George Shipton, 10 e 15 agosto; a Johann Philipp Becker, 10 febbraio 1882) apprendiamo che egli smise di scrivere per tale giornale a causa della crescita di "elementi opportunisti" all'interno del suo comitato di redazione.
·

Una paga equa per un equo lavoro
Scritto: 1-2 maggio 1881
Pubblicato: fondo No. 1, 7 maggio 1881, come articolo di fondo

Questo è stato il motto del movimento operaio inglese negli ultimi cinquant'anni. Esso ha svolto un buon servizio nel periodo della crescita sindacale avvenuta dopo l'abrogazione delle infami Combination Laws [Leggi sull'associazionismo] avvenuta nel 1824 [1]; esso ha svolto un servizio ancora migliore all'epoca del glorioso movimento cartista, quando gli operai inglesi marciavano alla testa della classe operaia europea. Ma i tempi scorron veloci, e molte cose che risultavano desiderabili cinquanta, o addirittura trent'anni fa, oggi non sono più adeguate e sono completamente fuori posto. Anche tale parola d'ordine, onorata dal tempo, appartiene a queste cose.

Una paga equa per un equo lavoro? Ma cos'è una paga equa, e cos'è un equo lavoro? Come vengono determinati dalle leggi d'esistenza e di sviluppo della società contemporanea? Per rispondere a tale quesito non dobbiamo affidarci alla scienza della morale o alla legge dell'equità, né ad alcun sentimento d'umanità, giustizia o persino di carità. Ciò che è moralmente equo, ciò che è equo per la legge, può esser assai lontano dall'esser socialmente equo. L'equità o iniquità sociale sono decise da una sola scienza - la scienza che si occupa dei fatti materiali della produzione e dello scambio, la scienza dell'economia politica.
Ora, cosa intende l'economia politica per paga equa e per equo lavoro? Semplicemente il saggio salariale e la lunghezza ed intensità della giornata lavorativa determinati dalla concorrenza di datori di lavoro e lavoratori nel libero mercato. E cosa sono queste cose, quando sono determinate in tal modo?

Una paga equa, in condizioni normali, è la somma necessaria a procurare al lavoratore quei mezzi di sussistenza che, secondo lo standard di vita del proprio paese, gli servono a mantenersi in buono stato per lavorare e per riprodurre la propria razza. Il saggio salariale reale, a causa delle fluttuazioni del commercio, può essere ogni tanto al di sopra o al di sotto di tale livello; ma, sotto condizioni eque, esso dovrebbe essere una media tra tutte le oscillazioni.
Per equo lavoro si intendono quella lunghezza della giornata lavorativa e quell'intensità di forza-lavoro reale che impiegano l'intera energia lavorativa giornaliera dell'operaio senza sciupare le sue capacità per i giorni seguenti.

La transazione, allora, può esser descritta nel modo seguente: l'operaio dà al capitalista l'intera forza-lavoro giornaliera; cioè, tutto ciò che egli può dare senza che sia resa impossibile la continua ripetizione della transazione. In cambio egli riceve giusto quanto è necessario a far replicare il medesimo accordo giorno dopo giorno, e nulla più. L'operaio dà tanto, ed il capitalista tanto poco, quanto consente la natura dell'accordo. Questa è una sorta di equità molto particolare.
Ma guardiamo questo fatto in modo un po' più approfondito. Dal modo in cui, secondo gli economisti, i salari e la giornata lavorativa vengono stabiliti dalla concorrenza, sembra che l'equità richieda un paritetico punto di partenza per entrambe le parti. Ma ciò non corrisponde alla situazione reale. Il capitalista, se non riesce a raggiungere un accordo con il lavoratore, può permettersi di aspettare, e vive facendo affidamento sul proprio capitale. Il lavoratore non ha questa possibilità. Egli non ha che il salario per vivere e deve quindi prendere il lavoro quando, dove e nei termini in cui gli viene offerto. Il lavoratore non dispone di un equo punto di partenza. Egli è posto, dalla fame, in una terribile condizione di svantaggio. Eppure, secondo l'economia politica della classe capitalista, questo è il massimo dell'equità.

Ma tutto ciò è ancora una mera inezia. L'applicazione dell'energia meccanica e delle macchine nei nuovi settori industriali, e l'estensione ed il miglioramento dei macchinari nei settori ad essi già soggetti, continua a rimuovere dal lavoro sempre più "mani"; e ciò avviene ad un tasso assai più alto di quello con cui le "mani" soppiantate vengono assorbite dalle, e trovano impiego nelle, manifatture del paese. Queste "mani" soppiantate formano un vero esercito industriale di riserva ad uso del Capitale. Se il commercio non tira, esse posson solo morire di fame, chieder l'elemosina, rubare, o ricorrere alle Case di lavoro [2]; se il commercio tira, invece, esse sono a portata di mano per espander la produzione; e finché l'ultimo uomo, donna o fanciullo di quest'esercito di riserva non avrà trovato lavoro - cosa che accade solo in periodi di frenetica sovrapproduzione - fino a quel momento la sua concorrenza terrà bassi i salari, e così, con la sua sola esistenza, rafforzerà il potere del Capitale nella sua lotta contro il Lavoro. Nella sua corsa contro il Capitale, il Lavoro non solo parte in posizione svantaggiata, esso deve anche trascinarsi dietro una palla di cannone legata ai suoi piedi. Eppure ciò è equo secondo l'economia politica Capitalista.

Ma andiamo ad indagare con quali fondi il Capitale paga questi assai equi salari. Dal capitale, certamente. Ma il capitale non produce valore. Il lavoro, affianco alla terra, è l'unica fonte di ricchezza; il capitale in sé non è altro che lavoro accumulato. Così che i salari del Lavoro sono pagati dal lavoro, e l'operaio è pagato da ciò che egli stesso ha prodotto. Secondo ciò che potremmo chiamare senso comune di equità, i salari del lavoratore dovrebbero consistere nel prodotto del suo lavoro. Ma ciò non sarebbe equo secondo l'economia politica. Al contrario, il prodotto del lavoro dell'operaio va al Capitalista, e l'operaio ottiene da esso non più dello stretto necessario al suo sostentamento. E così il punto d'arrivo di questa insolitamente "equa" corsa concorrenziale è che il prodotto del lavoro di coloro che lavorano si accumula inevitabilmente nelle mani di coloro che non lavorano, e diviene nelle loro mani il più potente mezzo per assoggettare gli uomini che lo hanno prodotto.
Un equo salario per un equo lavoro! Molto si potrebbe dire anche a proposito di un'equa giornata lavorativa, l'equità della quale è esattamente uguale a quella dei salari. Ma ciò dobbiam lasciarlo per un'altra occasione. Da ciò che si è detto è perfettamente chiaro che la vecchia parola d'ordine ha fatto i suoi giorni, e difficilmente sarà ancora utile. L'equità dell'economia politica, che stabilisce le leggi che governano la società reale, tale equità pende tutta da un lato - il lato del Capitale. Lasciate, allora, che il vecchio motto venga seppellito per sempre e rimpiazzato con un altro: POSSESSO DEI MEZZI DI PRODUZIONE: MATERIE PRIME, FABBRICHE, MACCHINARI AGLI OPERAI STESSI!

Il sistema salariale
Scritto: 15-16 maggio 1881
Pubblicato: No. 3, 21 maggio 1881, come articolo di fondo

In un precedente articolo abbiamo esaminato un vecchio e glorioso motto, "un equo salario per un equo lavoro", e siamo giunti alla conclusione che il più equo salario, date le attuali condizioni sociali, è necessariamente pari all'assai iniqua divisione del prodotto del lavoro umano, la cui più vasta porzione entra nelle tasche del capitalista, mentre il lavoratore deve accontentarsi di quanto basta per mantenersi in condizione di lavorare e per riprodurre la propria specie.
Questa è una legge dell'economia politica, o, in altre parole, una legge della presente organizzazione sociale della società, che è più potente di tutti gli statuti e di tutte le leggi della Camera dei Comuni inglese messe assieme, incluse quelle della Court of Chancery [3] [Corte di giustizia]. Ma la società è divisa in due classi opposte - da un lato i capitalisti, monopolizzatori di tutti i mezzi di produzione, della terra, materie prime e macchinari; dall'altro i lavoratori, operai deprivati di ogni proprietà dei mezzi di produzione, padroni di nient'altro che della loro forza-lavoro. Finché sussiste tale organizzazione sociale, la legge del salario resterà in pieno vigore, e continuerà a fissare, giorno dopo giorno, le catene con le quali l'operaio è reso schiavo del proprio prodotto - monopolizzato dal capitalista.

I sindacati di questo paese hanno per oltre sessant'anni lottato contro questa legge - con che risultati? Sono riusciti a liberare la classe operaia dalla schiavitù in cui il capitale - il prodotto delle sue stesse mani - la tiene? Hanno permesso ad una sola sezione della classe lavoratrice di superare la schiavitù salariale, di divenir proprietaria dei propri mezzi di produzione, delle materie prime, attrezzi e macchinari necessari alla loro attività, e così di divenir padrona del prodotto del proprio lavoro? È ben risaputo che essi non solo non ci sono mai riusciti, ma anche che non ci hanno mai provato.

Lungi da noi l'affermare che i sindacati, per questo motivo, sono inutili. Al contrario essi, in Inghilterra tanto quanto in ogni paese industrializzato, sono una necessità per le classi lavoratrici nella loro battaglia contro il capitale. Il saggio medio di salario è pari alla quantità di denaro sufficiente a riprodurre la specie degli operai in un certo paese, secondo lo standard di vita abituale di quel paese. Lo standard di vita può essere assai differente per diverse classi di lavoratori. Il grande merito dei sindacati, nella loro battaglia per alzare il saggio salariale e per ridurre l'orario di lavoro, è che essi tendono a far salire lo standard di vita. Ci sono molte attività nei quartieri orientali di Londra il cui lavoro non è meno qualificato ed è tanto duro quanto quello dei muratori e dei loro operai, eppure in queste attività si guadagna difficilmente la metà del salario di questi ultimi. Perché? Semplicemente perché una potente organizzazione permette agli uni di mantenere un relativamente alto standard di vita; mentre gli altri, disorganizzati e privi di potere, devono sottomettersi non solo all'inevitabile, ma anche all'arbitraria usurpazione di coloro che li impiegano: il loro standard di vita viene gradualmente ridotto, essi imparano a vivere con salari sempre più bassi, ed i loro salari cadono naturalmente a quel livello che essi stessi hanno imparato ad accettare come sufficiente.

La legge del salario, allora, non è di quelle che seguono una linea categorica. Non è, entro certi limiti, inesorabile. C'è in ogni momento (escluse le grandi depressioni) ed in ogni attività una certa libertà entro la quale il saggio salariale può esser modificato dai risultati della battaglia tra i due gruppi contendenti. I salari sono in ogni caso fissati dalla contrattazione, e nelle contrattazioni colui che resiste più a lungo e meglio, ha maggior possibilità di ottenere di più di ciò che gli è dovuto. Se l'operaio isolato cerca di condurre la trattativa con il capitalista, egli verrà facilmente battuto e dovrà arrendersi all'arbitrio del capitalista; ma se un'intera categoria di operai forma una potente organizzazione, raccogliendo fondi che le permettano, se necessario, di sfidare i loro datori di lavoro e di mettersi così in condizione di poter trattare con i datori come forza unitaria, allora, e solo allora, essa avrà la possibilità di ottenere persino quella miseria che, secondo la costituzione economica della società presente, può esser chiamata come un equo salario per un equo lavoro.

La legge dei salari non viene rovesciata dalle battaglie sindacali. Al contrario, essa è rafforzata da queste lotte. Senza i mezzi di resistenza sindacali, l'operaio non riceve neppure ciò che gli è dovuto secondo le regole del sistema salariale. È solo con la paura dei sindacati innanzi ai suoi occhi che il capitalista può esser costretto a tener conto dell'intero valore commerciale della forza-lavoro del suo operaio. Volete una prova? Guardate i salari pagati ai membri dei grandi sindacati, e poi guardate i salari pagati in quelle innumerevoli piccole attività di quella pozza di stagnante miseria che sono i quartieri orientali di Londra.

Così, i sindacati non attaccano il sistema salariale. Non sono l'altezza o la bassezza dei salari ciò che costituisce la degradazione economica della classe lavoratrice: tale degradazione è compresa nel fatto che, anziché ricevere per il suo lavoro l'intero prodotto del suo stesso lavoro, la classe operaia deve accontentarsi di quella porzione della propria produzione chiamata salario. Il capitalista intasca l'intera produzione (e con questa paga il lavoratore) perché egli è il proprietario dei mezzi del lavoro. E, perciò, non c'è riscatto reale per la classe lavoratrice finché essa non diviene proprietaria di tutti i mezzi di produzione - terra, materie prime, macchinari, ecc. - ed in questo modo anche la proprietaria DELL'INTERO PRODOTTO DEL PROPRIO LAVORO. 

[...] 

domenica 16 gennaio 2011

Sulla formazione storica del capitale e del lavoro salariato.*- Karl Marx

*Da (Forme di produzione precapitalistiche, 1858)
Leggi anche:   http://www.controappuntoblog.org/2012/09/08/il-capitalelibro-i-sezione-vii-il-processo-di-accumulazione-del-capitale-la-cosiddetta-accumulazione-originaria-capitolo-24/


Se si considera il rapporto tra capitale e lavoro salariato non come rapporto che già domina la totalità della produzione, ma nella sua genesi storica, se si considera cioè la trasformazione originaria del denaro in capitale, il processo di scambio tra il capitale che esiste soltanto potenzialmente da una parte e liberi lavoratori che esistono potenzialmente dall'altra, allora si impone naturalmente quella semplice osservazione su cui fanno tanto chiasso gli economisti: che la parte che si presenta come capitale deve possedere le materie prime, gli strumenti di lavoro e í mezzi di sussistenza affinché I'operaio possa vivere durante la produzione, prima cioè che la produzione sia compiuta.

(...) Di conseguenza la formazione del capitale non deriva dalla proprietà fondiaria (in questo caso al massimo dal fittavolo nella misura in cui commercia in prodotti agricoli), e nemmeno dalle corporazioni (sebbene esista una possibilità), ma dal patrimonio derivato dal commercio e dall'usura,

Ma questo però trova le condizioni per acquistare lavoro libero solo quando quest'ultimo è separato, attraverso il processo storico, dalle sue condizioni oggettive di esistenza. Solo allora esso trova anche la possibilità di acquistare queste stesse condizioni.

Nelle condizioni del regime corporativo p. es., il semplice denaro che non è esso stesso della corporazione, ma del maestro, non può comprare i telai per farvi lavorare altre persone; è prescritto quanti telai una persona può lavorare ecc. In breve, lo strumento è ancora talmente fuso con lo stesso lavoro vivo (si presenta come dominio del lavoro) che esso in realtà non circola.

Ciò che rende capace il patrimonio monetario di diventare capitale è il fatto che esso trova da una parte lavoratori liberi; in secondo luogo la presenza dei mezzi di sussistenza e dei materiali, ecc. ormai liberati e alienabili, mentre erano un tempo in un modo o nell'altro proprietà delle masse ormai private delle condizioni oggettive. 

Ma l'altra condizione del lavoro - una certa abilità, lo strumento come mezzo di lavoro ecc. in questo primo periodo iniziale o primo periodo del capitale, esso lo trova già esistente, da un lato come risultato del sistema corporativo urbano, dall'altro come risultato dell'industria domestica o dell' industria connessa come accessorio dell'agricoltura.

La formazione primitiva del capitale non avviene nel senso che il capitale accumuli, come si pensa, mezzi di sussistenza, strumenti di lavoro e materie prime, in breve le condizioni oggettive del lavoro umano. Non avviene nel senso che il capitale crea le condizioni oggettive del lavoro. La sua formazione primitiva avviene invece semplicemente per il fatto che i valori esistenti sotto forma di patrimonio monetario, attraverso il processo storico di dissoluzione del vecchio modo di produzione, viene messo in grado di acquistare le condizioni oggettive del lavoro, dall'altro di ottenere in cambio di denaro lo stesso lavoro vivo degli operai diventati liberi.

Tutti questi fattori sono presenti; la loro separazione stessa é un processo storico, è un processo di dissoluzione, ed è questo processo che permette al denaro di trasformarsi in capitale. Il denaro in quanto agisce con e accanto alla storia, è tale solo in quanto collabora alla creazione di lavoratori liberi, privi delle condizioni oggettive, spogliati; indubbiamente però, non perché crei per loro le condizioni oggettive della loro esistenza, ma in quanto contribuisce a creare la loro separazione da queste condizioni, la loro mancanza di proprietà. 

Quando p. es., i grandi proprietari fondiari inglesi licenziavano i loro retainers*, che insieme a loro consumavano il plusprodotto della terra; quando a loro volta i fittavoli cacciavano i piccoli contadini pigionali, ecc., in questo modo si gettava sul mercato del lavoro in primo luogo una massa di forze-lavoro vive, una massa che era libera da un duplice punto di vista: libera dagli antichi rapporti di clientela e di servitù e di prestazione, e libera di ogni avere e da ogni forma di esistenza oggettiva. libera da ogni proprietà; ridotta a trovare l'unica fonte di guadagno nella vendita della sua forza lavoro, oppure nella mendicità, nel vagabondaggio e nella rapina. Storicamente in un primo momento essi hanno tentato quest'ultima via e da questa sono stati però spinti, mediante la forca, la berlina, la frusta, sulla stretta via che conduce al mercato del lavoro, e qui i governi, p. es., Enrico VII, VIII, ecc., figurano come condizioni del processo storico di dissoluzione e come creatori delle condizioni di esistenza del capitale.

* retainers: servi della gleba 


mercoledì 22 dicembre 2010

Sulla "Vorrede" Hegeliana - Stefano Garroni -



 Lo scopo, che mi propongo, è mostrare come, nella prospettiva dialettica di Hegel (e di Marx, il quale, sia pure con certe modifiche, la riprende e continua), la dimensione oggettiva del movimento storico non solo non si oppone al momento della soggettività, ma addirittura fa di quest´ultimo una sua componente essenziale.

 In questo senso dobbiamo riconoscere che brevi scritti del giovane Lukàcs - come il suo Lenin e l´altro saggio intitolato Cos´è il marxismo ortodosso-, in contrapposizione a quel marxismo oggettivista e scientista, che andò progressivamente imponendosi nella Terza Internazionale, segnando -per qualche aspetto-  una sorta di rivincita di Plachanov su Lenin, son capaci ancora oggi di indicarci una prospettiva di ripresa della riflessione dialettica, particolarmente adeguata ai problemi del tempo, che viviamo.

 Per far ciò mi servo di un noto ed importante testo di Hegel, ovvero della sua Prefazione/Vorrede alla Fenomenologia dello spirito; nel corso della cui analisi parziale, cercherò di mostrarne anche essenziali consonanze con le posizioni di Marx. Due ultime precisazioni.

 In realtà, non esamineremo la totalità del testo hegeliano, né quindi tutta la ricchezza dei temi, in esso trattati: ci limiteremo piuttosto a chiarire (a cercar di chiarire) cosa qui Hegel intenda per comprensione della filosofia e come quest´atto -questo comprendere- impliciti la mediazione di logica e storia, di soggettivo ed oggettivo.

giovedì 2 dicembre 2010

Introduzione al Seminario sullo Stato - Stefano Garroni -

Introduzione al Seminario sullo Stato
Martedì 16 novembre 2010
Trascrizione dell’intervento del Prof. Stefano Garroni.
(Ci scusiamo per eventuali  errori o refusi nel testo, dovuti alla difficoltà di riportare in forma scritta un intervento orale )


Sono ..come dire…un pochino imbarazzato… nel senso che mi vado convincendo sempre di più della assoluta miseria in cui noi viviamo quotidianamente, per cui qualunque ragionamento che abbia un minimo di spessore, sembra una cosa dell’altro mondo, che non ha senso. E questo comporta evidentemente una enorme difficoltà, perché qualunque argomento tu vai ad affrontare, o lo affronti abbandonando il punto di vista che questa società ti propone, dell’interesse immediato, della tua piccola vita, del tuo piccolo mondo, o abbandoni questo, ed entri in un’altra dimensione, la dimensione dei problemi, dell’analisi obbiettiva dei problemi, del punto di vista universale dei problemi, oppure, se non fai questo salto, non capisci nulla, tutto diventa assurdo. E allora l’imbarazzo è proprio questo… 

mercoledì 17 novembre 2010

Kritik der politischen Oekonomie, Religionskritik und Humanismus der Praxis - Franz Hinkelammert -


Problemi dell’umanesimo oggi.

Traduciamo l'articolo di Franz Hinkelammert -apparso col titolo Kritik der politischen Oekonomie, Religionskritik und Humanismus der Praxis. nel numero 2 del 2010 della rivista comunista tedesca Marxistische Blaetter-, perché ha segnato l'inizio di un dibattito, apparso successiamente sulla stessa rivista, e che  ci sembra di notevole interesse nell'attuale fase politica e culturale. Ovviamente, in seguito, daremo conto dell'intero dibattito.


Una precisazione/obiezione (anche se è dubbio, che possa resistere ad una critica sensata): Hinkelammert afferma che a ben vedere il paradigma marxiano della critica alla religione vale piuttosto come un criterio per differenziare quest’ultima, non come un attacco contro la relligion, anche se invece Marx se ne serve per dimostrare che, in certe condizioni storiche, la religione in quanto tale diviene superflua. Dunque, il paradosso a cui Hinkelammert perviene, da un lato, è la sostanziale accettazione della valutazione di Marx sulla religione; nello stesso tempo, però, da ciò egli non ne ricava la sostanziale storicità o caducità. (Stefano Garroni) 



Nelle crisi in  cui oggi viviamo e che si annciano per il futuro, è senza dubbio necessario discutere che cosa, oggi, può significare l’umanesimo. Intendo presentare al proposito alcune tesi. Ma prima di far ciò, vorrei rapidamente analizzare che cosa l’umanesimo ha significato nella modernità. Intendo far ciò molto rapidamente e dunque abbordare un momento chiave della nostra storia, che è strettamente legato a ciò che, oggi, l’umanesimo può significare. Questo momento chiave è la Rivoluzione francese. Essa avviene in un momento, in cui il mercato mondiale si è costituito come mercato capitalistico. L’umanesimo della Rivoluzione francese è ancora per lo più (äußerst) ridotto ad un umanesimo dell’uomo astratto, il quale è visto come proprietario. Ma questa stessa Rivoluzione francese, che sbocca in una pura rivoluzione borghese, nello stesso tempo fonda le categorie, partendo dalle quali è possibile fondare un nuovo umanesimo.

domenica 14 novembre 2010

Laicità e cultura*- Alessandra Ciattini -

*intervento al III Festival Mediterraneo, 23 ottobre 2010

Questo intervento è articolato in vari punti, che indico per facilitare la comprensione. Prende spunto dalla scissione tra vita materiale e vita spirituale, che a mio parere caratterizza la società contemporanea. Cerca di mostrare perché si è prodotta tale scissione e ne descrive alcune significative manifestazioni. Tenta di dar sostanza alla tesi che solo l'approccio laico alle diverse manifestazioni sociali e culturali può ricomporre tale scissione. Infine, illustra come la laicità affronta il problema della morte, a cui generalmente si pensa possa dare una risposta efficace solo la religione. Sottolineo che considero le diverse religioni manifestazioni culturali, che differiscono dalle altre forme di concezioni del mondo per il loro riferimento al sovrannaturale.


1) La scissione tra vita materiale e vita spirituale.                                                                                 

Il mio breve intervento prende le mosse dall'analisi delle trasformazioni culturali e sociali innescate dal cosiddetto processo di mondializzazione, accompagnato come è noto da una sorta di revival religioso, che si manifesta nella diffusione dei Nuovi Movimenti Religiosi. Come si vedrà questa prospettiva è giustificata dal fatto che il risultato di questi profondi cambiamenti sembra riproporre la tradizionale dicotomia vita materiale / vita spirituale, che – come cercherò di mostrare – è del tutto inaccettabile dal punto di vista laico, così come lo intendo. 

La fine del socialismo est-europeo ha segnato ed ha accompagnato l'inizio di una nuova fase della società capitalistica, nella quale il mercato è divenuto lo strumento regolatore della vita sociale nella sua complessità e differenziazione, facendo saltare gradualmente tutte quelle misure e quelle tutele che ne limitavano il pieno funzionamento e ostacolavano il successo della ragione economica. Così, per esempio, sono stati ripensati i rapporti lavorativi, tenendo presente solo la logica del profitto e trascurando scientemente il rispetto di quei diritti (diritto al lavoro, ad un'adeguata retribuzione, alla salute, alla sicurezza) riconosciuti formalmente a livello internazionale e nazionale (la nostra Costituzione). Il risultato è stato l'abbassamento del costo del lavoro, l'incremento del lavoro precario e della disoccupazione soprattutto tra i giovani (si tratta di fenomeni internazionali e quindi non solo italiani). Si è cercato di dare un'altra organizzazione al settore dell'educazione e della conoscenza (scuola, università, enti di ricerca, istituzioni culturali etc.), che in nome della modernizzazione e della razionalizzazione, ha legato sempre di più queste istituzioni al mercato e alle imprese, professionalizzando i corsi di studio e subordinando la ricerca all'individuazione e produzione di innovazione tecnologica allo scopo di produrre oggetti competitivi sul mercato mondiale.

domenica 10 ottobre 2010

V. GIACCHE': caduta tendenziale del saggio di profitto

L'importante, nel loro horror di fronte alla caduta del saggio di profitto,
è però Ia sensazione che il modo di produzione capitalistico
nello sviluppo delle forme produttive incontri dei limiti,
che in sé e per sé non hanno nulla a che vedere con la produzione della ricchezza,
e questo limite peculiare testimoni la limitatezza
e il carattere soltanto storico di questo modo di produzione,
e il fatto che esso non è il modo di produzione assoluto
per Ia produzione della ricchezza, ma anzi giunto a un certo stadio
entra in conflitto con il proprio sviluppo ulteriore"
[Marx, Manoscritto del III libro del Capitale]

A quanto pare non è proprio possibile liberarsi di Marx. E dire che sembrava
fatta. Appena venti anni fa" con il crollo – più farsesco che tragico (le tragedie
sarebbero seguite a breve) - dei regimi dell'est europeo e la vittoria del
capitalismo in salsa thatcheriano-reaganiana, anche su Marx e le sue teorie sembrava
calato definitivamente il sipario. Sembrava che la pagina del marxismo
fosse stata definitivamente voltata e che gli scritti di Marx fossero ormai destinati
agli storici e ad un pugno di nostalgici fuori dal tempo. I volumi dell'edizione
delle opere di Marx ed Engels che nella ex Berlino est dei primi anni novanta
affollavano le bancarelle dei libri usati tra il disinteresse dei passanti sembravano
costituire la prova migliore di questo destino.
Purtroppo, però, per risolvere ed eliminare le contraddizioni del reale non
basta sostenere che esse non esistono. E questo vale per gli individui come per
le società. Anche per la società capitalistica dei nostri giorni, o "economia di
mercato" che dir si voglia. E così, nel 2007, è arrivata la crisi che dura tuttora.

Dello storicismo... -Stefano Garroni- Parte prima:

La storia dalla religione alla laicità.
Dalla trascendenza alla immanenza politica.

Diciamo che <storicismo> si può usare almeno in due accezioni: (1) quella illuministica, il cui senso sta nel ricercare sempre la ragione degli accadimenti –anche se, secondo certa critica, questa stessa ragione illuministica era di per sé astorica; (2) l’accezione ottocentesca, per la quale valeva la dicotomia tra ragione e storia e, quindi, risultava negata la dimensione storico-filosofica del pensiero illuministico: tuttavia, tale dimensione aveva, invece, già dato segno di sé nella Querelle circa la superiorità degli antichi o dei moderni, senza la quale, per altro, non si sarebbe data alcuna enfatizzazione della modernità e del progresso.

domenica 3 ottobre 2010

Brecht, Lode della dialettica

L'ingiustizia oggi cammina con passo sicuro.
Gli oppressori si fondano su diecimila anni.
La violenza garantisce: Com'è, così resterà.
Nessuna voce risuona tranne la voce di chi comanda
e sui mercati lo sfruttamento dice alto: solo ora io comincio.
Ma fra gli oppressi molti dicono ora:
quel che vogliamo, non verrà mai.

Chi ancora è vivo non dica: mai!
Quel che è sicuro non è sicuro.
Com'è, così non resterà.
Quando chi comanda avrà parlato,
parleranno i comandati.
Chi osa dire: mai?
A chi si deve, se dura l'oppressione? A noi.
A chi si deve, se sarà spezzata? Sempre a noi.
Chi viene abbattuto, si alzi!
Chi è perduto, combatta!
Chi ha conosciuto la sua condizione, come lo si potrà fermare?
Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani
e il mai diventa: oggi!

domenica 26 settembre 2010

Il testamento politico e filosofico di Stalin - Hans Heinz Holz-

IL TESTAMENTO POLITICO E FILOSOFICO DI STALIN
Intervento presentato al convegno da Hans Heinz Holz

Lenin ha sempre affermato che il marxismo non è un sistema dogmatico di proposizioni rigide: al contrario, il marxismo, nella sua riflessione teorica, segue il mutamento dei rapporti reali e ne ricava conseguenze mirate alla prassi. La dialettica è quella forma di teoria che descrive, nella varietà dei suoi elementi e momenti, la connessione dell’insieme, che muta nel tempo, quale fondamento del loro svolgimento regolare. Il materialismo dialettico, per i suoi presupposti ontologici generali, è necessario per produrre interpretazioni nuove della realtà. Ogni teoria, infatti, è l’interpretazione di uno stato di fatto descritto (1).

I due scritti tardi di Stalin, compresi tra il 1950 e il 1952, ("Il marxismo e i problemi della linguistica" - "Problemi economici del socialismo nell’URSS") vanno esaminati appunto in questa prospettiva: dalla riflessione contemporanea su uno stato di fatto reale, quegli scritti elaborano una nuova situazione, sia economico-sociale che ideologica e storico-scientifica. Poichè poco dopo morì, Stalin non ebbe la possibilità di tradurre nella prassi il suo pensiero e così gli scritti in questione risultano essere, per così dire, il suo testamento teorico.

sabato 25 settembre 2010

ermanno: Venezuela... verso il socialismo?...

ermanno: Venezuela... verso il socialismo?...: "http://www.giannimina-latinoamerica.it/archivio-notizie/603-tra-successi-e-difficolta-la-rivoluzione-bolivariana-alla-prova-delle-elezioni-p..."

mercoledì 22 settembre 2010

nessuna opposizione entro le maglie del capitalismo, ma si opposizione al capitalismo...

Nessuna opposizione entro le maglie del capitalismo, ma sì opposizione al capitalismo
Hans Heinz Holz  (Marxistiche Blätter, n. 5 – 2007).
(traduzione di Stefano Garroni).

In autunno, commemoreremo un grande evento: la Rivoluzione d’Ottobre, la quale d’un sol colpo cambiò la faccia del mondo. Ora è febbraio: ma il febbraio contiene il nocciolo, che conduce all’ottobre. Nella storia, i Kerenski hanno solo il ruolo dei personaggi di passaggio e i menscevichi erano statisti scoraggiati su un palcoscenico, in cui si svolgeva il dramma della rivoluzione e, come grande protagonista, era indicato Lenin.
Nel dramma della storia, le azioni non hanno la forma armoniosa, che hanno nelle opere artistiche. Gli interludi possono durare a lungo oltre la norma.  Su questo dovremmo riflettere,