domenica 14 novembre 2010

Laicità e cultura*- Alessandra Ciattini -

*intervento al III Festival Mediterraneo, 23 ottobre 2010

Questo intervento è articolato in vari punti, che indico per facilitare la comprensione. Prende spunto dalla scissione tra vita materiale e vita spirituale, che a mio parere caratterizza la società contemporanea. Cerca di mostrare perché si è prodotta tale scissione e ne descrive alcune significative manifestazioni. Tenta di dar sostanza alla tesi che solo l'approccio laico alle diverse manifestazioni sociali e culturali può ricomporre tale scissione. Infine, illustra come la laicità affronta il problema della morte, a cui generalmente si pensa possa dare una risposta efficace solo la religione. Sottolineo che considero le diverse religioni manifestazioni culturali, che differiscono dalle altre forme di concezioni del mondo per il loro riferimento al sovrannaturale.


1) La scissione tra vita materiale e vita spirituale.                                                                                 

Il mio breve intervento prende le mosse dall'analisi delle trasformazioni culturali e sociali innescate dal cosiddetto processo di mondializzazione, accompagnato come è noto da una sorta di revival religioso, che si manifesta nella diffusione dei Nuovi Movimenti Religiosi. Come si vedrà questa prospettiva è giustificata dal fatto che il risultato di questi profondi cambiamenti sembra riproporre la tradizionale dicotomia vita materiale / vita spirituale, che – come cercherò di mostrare – è del tutto inaccettabile dal punto di vista laico, così come lo intendo. 

La fine del socialismo est-europeo ha segnato ed ha accompagnato l'inizio di una nuova fase della società capitalistica, nella quale il mercato è divenuto lo strumento regolatore della vita sociale nella sua complessità e differenziazione, facendo saltare gradualmente tutte quelle misure e quelle tutele che ne limitavano il pieno funzionamento e ostacolavano il successo della ragione economica. Così, per esempio, sono stati ripensati i rapporti lavorativi, tenendo presente solo la logica del profitto e trascurando scientemente il rispetto di quei diritti (diritto al lavoro, ad un'adeguata retribuzione, alla salute, alla sicurezza) riconosciuti formalmente a livello internazionale e nazionale (la nostra Costituzione). Il risultato è stato l'abbassamento del costo del lavoro, l'incremento del lavoro precario e della disoccupazione soprattutto tra i giovani (si tratta di fenomeni internazionali e quindi non solo italiani). Si è cercato di dare un'altra organizzazione al settore dell'educazione e della conoscenza (scuola, università, enti di ricerca, istituzioni culturali etc.), che in nome della modernizzazione e della razionalizzazione, ha legato sempre di più queste istituzioni al mercato e alle imprese, professionalizzando i corsi di studio e subordinando la ricerca all'individuazione e produzione di innovazione tecnologica allo scopo di produrre oggetti competitivi sul mercato mondiale.

Questa trasformazione, che riguarda tutti i settori della vita sociale, porta con sé dunque la subordinazione della nostra vita alla ragione economica in nome dell'efficienza e della competizione internazionale, della quale poi si avvantaggiano e si avvantaggeranno solo coloro che nel mondo della produzione hanno un ruolo dirigente. Ciò è dimostrato dal fatto che, in questi ultimi anni, anche negli Stati Uniti la consistenza complessiva dei salari spettanti ai lavoratori dipendenti è diminuita rispetto alla ricchezza che finisce ogni anno nelle mani dei proprietari di rendite e degli azionisti delle imprese a livello sia nazionale che internazionale. Sono dati di fatto che hanno  spinto i nostri autorevoli opinionisti a parlare dello sviluppo di nuove povertà anche tra chi ha un lavoro, che a loro parere dovrebbero essere cancellate dagli stessi strumenti che l'hanno generate (il predominio incontrastato del mercato).

Il dominio della ragione economica si vede anche nel fatto che il potere economico gestito da singoli si è fatto sempre più aggressivo e pretende decidere delle nostre vite e del nostro futuro, stabilendo per esempio se un paese deve avere industrie o ne deve essere privato, perché è più conveniente produrre altrove dove maggiore è la remunerazione.

2) Senso della vita sta nella religione. 

Ma – come mostrano – numerosi studi sul cosiddetto revival religioso dei nostri giorni – una società in cui domina l'efficienza, l'individualismo asociale assoluto (secondo l'espressione coniata da Hobsbawm), il principio del “dai il meno possibile in cambio del più possibile” trascura consapevolmente o inconsapevolmente la questione del significato, del senso della vita umana, che non può esser collocato nei fini immediati dei nostri comportamenti.

Questo aspetto è messo bene in evidenza da Jean Baubérot, professore emerito di sociologia delle religioni alla Ecole pratique des hautes études di Parigi, il quale a proposito della politica portata avanti dal Presidente Sarkosy dichiara che per quest'ultimo lo Stato – inteso come un'azienda - avrebbe il compito di occuparsi della gestione economica della vita sociale, mentre spetterebbe alle religioni offrire agli individui la possibilità di cogliere il senso e il significato dell'opera dell'uomo nel mondo.

Baubérot coglie così la scissione che caratterizza la società capitalistica tra la dimensione economica e la dimensione etico-politica, tra materiale e spirituale, ma sottolinea anche il fatto che Sarkosy – come molti uomini politici del nostro tempo – ha una visione negativa della laicità, giacché la considera incapace di apportare principi e valori importanti per la convivenza, che invece in essa sono presenti, benché non faccia riferimento al sovrannaturale.

Non solo Baubérot è consapevole di questa scissione, che non è solamente un fatto formale, ma è anche una dolorosa lacerazione delle nostre vite, che sono così di fatto orientate da principi diversi e contraddittori. Altri studiosi – come per esempio il sociologo britannico Bryan R. Wilson – mettono in evidenza che la società contemporanea, dominata dall'individualismo di matrice liberale, ha inevitabilmente bisogno della religione, perché solo da essa deriverebbero i sentimenti altruistici, la solidarietà, il desiderio di andare al di là della soddisfazione immediata dei propri bisogni e desideri. Insomma, dalla religione e non dai principi, che regolano la vita economica, scaturirebbero quei sentimenti e quelle rappresentazioni collettive che stanno alla base di ogni forma di vita sociale e senza i quali ogni società entrerebbe in crisi fino a dissolversi.

Per questa ragione Wilson sottolinea la necessità di dare maggiore spazio alla religione nelle varie forme nella vita sociale, affinché apporti all'uomo un significato che trascenda le dinamiche egoistiche della vita materiale ed economica; spazio che sarebbe stato invece ridimensionato dal processo di secolarizzazione e di laicizzazione, in base al quale si è cercato con esiti diversi di separare la religione dalle istituzioni politiche, facendone un fatto privato, relativo alla coscienza dei singoli individui.

Queste considerazioni consentono a Wilson anche di spiegare la diffusione delle nuove forme di religiosità che caratterizzano la società contemporanea, come per esempio il pentecostalismo e neopentecostalismo, considerato da alcuni la religione del XXI secolo per la sua capacità di attrarre fedeli, stanchi delle religioni tradizionali, con le sue forme di ritualità coinvolgenti e con il carisma dei suoi leader.  Insomma, a parere di Wilson per esempio il mezzo miliardo di pentecostali nel pianeta troverebbero nella loro fede un rifugio, una consolazione, una compensazione ai mali del mondo identificati con i principi egoistici che regolano la vita materiale, con la perdita di importanza del singolo dovuta alla burocratizzazione della vita quotidiana, con l'isolamento tipico delle metropoli. In definitiva, anche Wilson prende atto della scissione tra vita materiale e vita spirituale – già osservata ed analizzata nell'Ottocento come fenomeno tipico della società capitalistica - ed auspica che quest'ultima trovi la sua ispirazione, i suoi fondamenti nella dimensione sovrannaturale.

Quanto alla Chiesa cattolica, scossa da una crisi profonda, mi pare che essa sia profondamente consapevole di questa scissione, la quale dal suo punto di vista le consente di rivendicare un ruolo sociale e politico, che in varie contesti aveva visto ridimensionato e messo in discussione. Dato il carattere universale della Chiesa, anche questa rivendicazione è un fenomeno internazionale e si manifesta in vari paesi (come Messico, Francia, Italia) e in varie forme, come per esempio l'esplicito riferimento alla propria fede religiosa fatto da leader politici di vari paesi, l'utilizzazione di simboli cattolici nelle attività politiche, il richiamo a concezioni teologiche che dovrebbero essere recepite nelle leggi degli Stati e quindi imposte a tutti credenti (anche di fedi differenti) e non credenti. In questa prospettiva, direi che la Chiesa cattolica, nonostante alcune critiche al capitalismo selvaggio fatte da Giovanni Paolo II, accetta la scissione di cui si diceva prima e assume ben volentieri il ruolo di dispensare ai cittadini angosciati della società contemporanea il significato spirituale contraddetto costantemente dalle dinamiche sociali, di orientare e consolare le loro anime indirizzandole verso l'ultraterreno e il trascendente.

Alcuni hanno individuato dietro questa strategia cattolica anche precisi obiettivi politici. Per esempio, la grande battaglia per ora perduta per ottenere che nella costituzione europea si faccia riferimento alle “radici cristiane” (mentre il preambolo parla genericamente delle “eredità culturali, religiose e umanistiche dell'Europa”) avrebbe il senso di fare dell'Europa un baluardo religioso contro la cultura islamica, di cui sono portatori gran parte degli immigranti che giungono nel nostro continente. E' assai probabile che, se si fosse ottenuto questo risultato, si sarebbero introdotti ulteriori motivi di conflitto tra gli europei e le comunità di immigranti e ciò avrebbe ostacolato il già complesso e difficile processo di convivenza e di integrazione.

E' stato osservato che il revival religioso degli ultimi anni è anche il frutto del ridimensionamento ruolo dello Stato, il quale proprio in virtù del processo di mondializzazione, di cui abbiamo parlato, ha perso o lasciato decadere molte sue prerogative. Infatti, come sottolinea Hobsbawm (2007: 69) lo Stato si trova a dover affrontare una serie di problemi che derivano dal mondo globalizzato (si pensi alla crisi economica, all'immigrazione) senza avere gli strumenti adeguati per farlo. Inoltre, come si è visto, la  funzione formativa ed educativa, esercitata dallo Stato-nazione nel Novecento è in decadenza per il processo di smantellamento della scuola e dell'università pubblica ed è anche fortemente indebolita dalle penetrazione capillare dei mass media, che sembrano essere la fonte principale del nostro modo di rappresentarci la realtà. Si dirà che non è del tutto morto il richiamo alla cosiddetta “religione civile” che fa dello Stato un'entità trascendente e della morte in guerra un sacrificio (termine non a caso religioso), ma mi chiedo fino a che punto essa sia condivisa a livello popolare. L'osservazione dei monumenti funebri retorici e stereotipati in onore dei caduti, apparsi in seguito all'immane tragedia della prima guerra mondiale (nove milioni di morti), farebbe pensare che questo culto non abbia radici profonde, nonostante gli uomini politici spesso si richiamino ad esso.

3) Superare la scissioneSpiritualismo e immanentismo. 

Come si è visto, fin qui ho parlato della scissione tra vita materiale e vita spirituale che a mio parere caratterizza la società contemporanea e che come cercherò di mostrare la laicità, se correttamente intesa e praticata, cerca di risolvere, fornendo anche una cornice di valori non sacralizzati e condivisibili, nella quale la differenza religiosa e culturale possa svilupparsi.

Per sviluppare questa seconda parte del mio intervento, devo fare un'analisi critica della stessa nozione di spiritualità. Essa nasce dall'interno della concezione dualistica dell'uomo, nel quale la dimensione materiale si opporrebbe a quella spirituale, così come il corpo si contrapporrebbe allo spirito. Tale concezione dualistica caratterizza il cristianesimo e tutte quelle filosofie, che nascono per reazione a certi aspetti dell'illuminismo e del positivismo e che fa del congiungimento con Dio, con l'assoluto il fine ultimo dell'uomo. In molti casi queste ultime si propongono di superare tale scissione con un ambiguo misticismo panteistico, che tuttavia la Chiesa cattolica considera contrario all'ortodossia religiosa.

Proprio per il fatto che il termine “spiritualità” porta con sé inevitabilmente la presa d'atto della scissione sia nell'uomo che nella società, proprio perché mi richiamo invece ad una concezione immanentistica – che si pone per obiettivo di superare tale lacerazione – ritengo che sia più fecondo parlare di cultura per indicare gli aspetti per così dire immateriali della vita sociale.

Sulla base della tradizione antropologica considero la cultura ogni produzione intellettuale degli uomini, il cui obiettivo è la rappresentazione complessiva della natura e della vita sociale elaborata per rispondere a specifiche domande che nascono dalle questioni, su cui ci si interroga in un certo contesto e in una certa epoca. In questa prospettiva la stessa nozione di sovrannaturale è frutto dell'elaborazione degli uomini, che in certi contesti e condizioni sono spinti a scindere in due diverse dimensioni tra loro comunicabili la loro stessa vita individuale e sociale.

A questo punto è anche opportuno chiarire cosa intendo per immanentismo e perché considero la laicità è immanentista. Per immanentismo intendo quella concezione del mondo e della storia che abbandona la ricerca del sovrumano e trova nel mondo stesso e nella storia il significato e il fine. Per questa ragione la laicità immanentistica stabilisce la separazione tra le istituzioni politiche e le varie Chiese ed organizzazioni religiose, per impedire che interferenze religiose o confessionali possano influenzare la vita sociale e politica, mettendo in discussione  l'effettiva uguaglianza dei cittadini riconosciuta dalle Carte fondanti. Ovviamente sono consapevole del fatto che non propongo certo qualcosa di originale, giacché già gli illuministi attribuivano agli uomini un fine immanente, invitandoli a trasformarsi  in attori consapevoli della loro storia, che dovrebbero costruire a partire dalle condizioni esistenti, cercando di realizzare progetti alternativi nel gioco delle relazioni di potere e della capacità di egemonia. Quindi, per l'immanentismo la partita che gli uomini si trovano a giocare è del tutto terrena e mondana e non può essere affrontata e vinta con il riferimento al sovrannaturale.

La laicità è immanentistica nel misura in cui si richiama a valori umani, frutto del processo storico e sociale e soprattutto non sacralizzati, quindi per questo criticabili, trasformabili ed adeguabili ai nuovi contesti storici e sociali. Bisogna osservare, tuttavia, che per esempio nel caso della Costituzione italiana si è parlato di rigidità, perché essa prevede un procedimento particolare di modificabilità e considera immodificabili taluni suoi principi. Il che naturalmente non significa che essi abbiano un fondamento assoluto. Proprio la rinuncia alla sacralizzazione dei valori, che caratterizza soprattutto la Chiesa cattolica la quale si richiama alla morale e al diritto naturale, rende possibile l'individuazione di valori condivisibili che possano essere recepiti da individui di orientamenti culturali e religiosi diversi all'interno di una società che garantisca il pluralismo. Diverso è l'atteggiamento delle Chiese protestanti per le quali l'etica scaturisce dalla fede e quindi non può essere imposta da chi non la condivide. Inoltre, esse stabiliscono un rapporto diretto con i fedeli diversamente da quanto fa la Chiesa Cattolica, la quale si fa mediatrice della relazione comunità / Dio. 

4) Valori della laicità immanentistica. 

Se analizziamo i documenti (come la Costituzione italiana, la Dichiarazione universale dei diritti etc.) che hanno lo scopo di indicare i principi su cui si dovrebbe fondare la convivenza nazionale e internazionale, individuiamo in essi una serie di valori, che possono essere anche oggetto di dibattito, come si può ricavare ad esempio dalle critiche mosse dai paesi africani, arabi ed asiatici al carattere individualistico della Dichiarazione universale dei diritti. Scopo di questi valori e principi è quello di rendere possibile e arricchente la convivenza tra culture e religioni diverse, che dal punto di vista antropologico sono anch'esse un fatto culturale. Tuttavia, il rispetto delle differenze religiose e culturali, presente ad esempio nella Costituzione italiana, a mio parere non deve trasformarsi necessariamente in un atteggiamento relativistico estremistico; infatti, la nostra Carta Fondante condanna quelle organizzazioni politiche che fanno dell'intolleranza e della violenza la loro bandiera, come si ricava dall'articolo XII delle disposizioni transitorie e finali. Quest'ultimo vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, norma ahimè largamente disattesa. Inoltre, il riconoscimento delle differenze religiose e culturali deve avvenire all'interno di un certo contesto, che non metta a rischio i principi su cui si basa la convivenza civile. In questo senso la nostra Costituzione stabilisce che l'esercizio dei diritti riconosciuti (per esempio la libertà di esprimere e praticare la propria fede religiosa, la Costituzione non fa menzione dei non credenti) non deve essere in contraddizione con l'ordinamento giuridico italiano.

Nella Costituzione italiana il riconoscimento della dignità della persona umana, non fondato su un'ipotetica scintilla divina presente in noi, si articola in una seria di norme che comprendono sia i diritti civili e i diritti sociali, come per esempio il diritto al lavoro, il diritto ad un'equa retribuzione del proprio lavoro, il diritto ad un'esistenza libera e dignitosa. Tutti diritti che hanno fondamento esclusivamente nella volontà di dare alla società una forma di organizzazione civile e politica in una certa misura partecipativa, il cui disegno è scaturito dallo sconvolgimento provocato dalla spaventosa  tragedia rappresentata dalla seconda guerra mondiale.

5) Formale e sostanziale. La negazione dell'immanentismo. 

E' opinione diffusa che la nostra Costituzione sia un documento molto avanzato e che, se messa compiutamente in pratica, renderebbe la nostra vita sociale più equa, più giusta, meno contraddittoria. E' importante soffermarsi su questo desiderio di rendere concreta la nostra Costituzione o la Dichiarazione universale dei diritti, perché esso mette in luce un'altra scissione ed un'altra contraddizione, che mettono in crisi la laicità immanentistica, di cui parlavo. Accade infatti spesso che le Carte fondanti contengano principi riconosciuti ed approvati da molti, ritenuti l'espressione più compiuta della nostra civiltà non solo giuridica; tuttavia, accade anche che questi principi restino lettera morta, vuote parole, cui ci si richiama stancamente e con scarsa convinzione per legittimare anche comportamenti di tutt'altro segno. Ad esempio, alcuni mettono sotto accusa i paesi europei, perché  la loro legislazione e il trattamento effettivo riservato agli immigrati, che sbarcano sulle nostre coste, violano i più elementari diritti umani, che pure sono scaturiti dalla stessa storia culturale e morale europea. In questo caso, si produce la scissione e la contraddizione tra quanto previsto dalle Carte fondanti, che vengono così poste in una dimensione altra rispetto la nostra vita civile e sociale, la quale non viene da esse riplasmata e sostanziata. A causa di ciò le Carte fondanti diventano trascendenti (no nel senso di sovrannaturali), ossia distanti e separate da quelle dinamiche politiche e sociali, che dovrebbero invece governare e vivificare.

Alcuni studiosi hanno individuato questo processo nella stessa società borghese europea, dalla quale sono scaturiti tutti quei principi e valori cui si ispirano le Carte fondanti di cui ho parlato, ma nella quale tali principi e valori non possono essere messi in pratica concretamente per le stesse caratteristiche  della nostra vita sociale e politica. Così, ad esempio, la nostra Costituzione all'art. 33 stabilisce che la scienza e l'arte sono libere, come ne è libero l'insegnamento. D'altra parte, il dominio della ragione e economica e del mercato, di cui abbiamo già parlato, impone una trasformazione delle università, nel governo delle quali avrà un ruolo importante il potere economico rappresentato da individui esterni ad esse e presenti nei Consigli di amministrazione. Potere economico che inevitabilmente subordinerà insegnamento e ricerca a suoi interessi, mettendo largamente in discussione i principi di libertà prima affermati. Tutto ciò è previsto dal lodato e criticato DDL Gelmini.

L'esigenza di concretare e sostanziare principi e valori con l'atteggiamento immanentistico è presente anche in ambito religioso. Mi riferisco alla cosiddetta Teologia della liberazione sviluppata in America Latina, la quale si è posta il problema della realizzazione del Regno di Dio in terra, anche se a suo parere quest'ultimo avrebbe ovviamente un fondamento divino. In particolare, mi sembra interessante il concetto sviluppato da Sergio Martinez Arce, un teologo protestante latino americano, che parla di “amore efficace” per indicare la volontà di incarnare in istituzioni sociali e politiche concrete il messaggio evangelico, che invita appunto ad amare il prossimo come noi stessi.

6) La morte per i laici. 

Vorrei concludere questa relazione spero non troppo noiosa, facendo riferimento al tema della morte, generalmente considerato il piatto forte delle religioni, proprio perché di fronte all'annullamento del sé l'uomo cercherebbe una via d'uscita e la troverebbe nella garanzia dell'immortalità prefigurata dal cristianesimo e non solo (naturalmente ci sono anche altri modi di affrontare il tema della morte).

Come si vedrà anche il pensiero laico ha da offrire una sua concezione e una via d'uscita al rischio di annullamento, che però non ha la pretesa di dissolvere completamente l'angoscia connessa all'idea della morte. Mi sono trovata ad affrontare questo problema non solo per motivi filosofici e antropologici, ma anche perché ho dovuto fare i conti con la morte di mio padre che era ateo e per il quale volevamo organizzare un funerale laico, rispettando così le sue volontà. Inoltre, qualche anno fa un mio studente, che aveva perso il padre prematuramente, mi chiese di poter fare una tesi su questi temi, toccando in particolare la questione del funerale laico e considerando correttamente la morte come un fatto sociale e culturale non meramente individuale.

Nel caso di mio padre, posso dire che la cerimonia funebre fu il risultato del comportamento spontaneo degli abitanti di un paesino della Maremma toscana, con cui negli anni la mia famiglia ed io abbiamo stabilito un rapporto profondo di amicizia e di solidarietà. Infatti, quando in una calda giornata di maggio nel primo pomeriggio arrivammo al paese con il feretro privo della tradizionale croce, trovammo tutta la gente in piazza ad aspettarci. Ci fermammo e gli uomini si avvicinarono alle macchine, presero la bara priva di simboli religiosi, nella quale stava mio padre, che non aveva indosso il tradizionale vestito scuro della festa, ma era avvolto in un lenzuolo bianco (come aveva chiesto richiamandosi ad usi funerari precristiani). In pochi  minuti fu organizzato il triste corteo che dalla piazza doveva giungere al cimitero del paese. Anche lì in maniera molto spontanea fu organizzata la commemorazione: tutti quelli che lo desideravano, dissero qualche parola che richiamava alla mente esperienze di rapporti diretti con mio padre, eventi che io stessa ignoravo.  

Tutto si era svolto in sintonia con quella che Comte ha chiamato immortalità soggettiva, senza che i partecipanti alla cerimonia ne fossero consapevoli. Per immortalità soggettiva si intende l'unica forma di immortalità disponibile dal punto di vista laico per gli esseri umani, la quale consiste nella possibilità di continuare a vivere nella memoria dei nostri simili, i quali ci ricorderanno per il contribuito che abbiamo dato al nostro vivere civile. Ovviamente si tratta di una possibilità che non si realizza eternamente, perché nell'alternarsi delle vicende storiche possiamo essere dimenticati per magari successivamente tornare a far parte della memoria collettiva. In questo senso, la stessa comunità umana è formata sia dai viventi che dai non viventi, i quali si perpetuano in quello che hanno costruito e nel modo in cui da vivi hanno influito intellettualmente ed affettivamente sui loro simili. Essi sono vivi nella misura in cui vivono in coloro che li hanno conosciuti, amati apprezzati.

Come si vede l'immortalità soggettiva ci radica profondamente nel tessuto sociale e ci consente anche di acquisire un ruolo nel quale riconoscersi e nel quale convogliare le incertezze e le inquietudini che travagliano inevitabilmente la nostra vita intima e personale. Essa è una risposta – non saprei dire quanto adeguata – al pensiero doloroso per tutti gli uomini, i quali temono l'idea di essere dopo la morte sepolti in un completo oblio, di non avere più nulla in comune con gli altri, di perdere ogni possibilità di influire su di loro.  Può sembrare bizzarro ma tale concezione non è tanto distante dalle religioni non escatologiche dei popoli extraoccidentali, per i quali l'aldilà non costituiva un premio da conquistare, ma rappresentava semplicemente il luogo dove andare per continuare a vivere anche se in una forma più felice di quella terrena.


Per concludere vorrei sottolineare che l'immortalità soggettiva è certo poca cosa rispetto a quella oggettiva, prefigurata da molte religioni, ma aggiungo che accetto il punto di vista di Freud, il quale distinguendo tra uomo religioso e uomo irreligioso osserva che il primo, a differenza del secondo, non reagisce al sentimento dell'impotenza e della piccolezza umana cercando una compensazione e un appoggio assoluto. Irreligioso è colui che si rassegna alla parte insignificante dell'uomo nel vasto mondo e punta solo sulle sue forze per affrontarla. 


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