L'importante, nel loro horror di fronte alla caduta del saggio di profitto,
è però Ia sensazione che il modo di produzione capitalistico
nello sviluppo delle forme produttive incontri dei limiti,
che in sé e per sé non hanno nulla a che vedere con la produzione della ricchezza,
e questo limite peculiare testimoni la limitatezza
e il carattere soltanto storico di questo modo di produzione,
e il fatto che esso non è il modo di produzione assoluto
per Ia produzione della ricchezza, ma anzi giunto a un certo stadio
entra in conflitto con il proprio sviluppo ulteriore"
[Marx, Manoscritto del III libro del Capitale]
A quanto pare non è proprio possibile liberarsi di Marx. E dire che sembrava
fatta. Appena venti anni fa" con il crollo – più farsesco che tragico (le tragedie
sarebbero seguite a breve) - dei regimi dell'est europeo e la vittoria del
capitalismo in salsa thatcheriano-reaganiana, anche su Marx e le sue teorie sembrava
calato definitivamente il sipario. Sembrava che la pagina del marxismo
fosse stata definitivamente voltata e che gli scritti di Marx fossero ormai destinati
agli storici e ad un pugno di nostalgici fuori dal tempo. I volumi dell'edizione
delle opere di Marx ed Engels che nella ex Berlino est dei primi anni novanta
affollavano le bancarelle dei libri usati tra il disinteresse dei passanti sembravano
costituire la prova migliore di questo destino.
Purtroppo, però, per risolvere ed eliminare le contraddizioni del reale non
basta sostenere che esse non esistono. E questo vale per gli individui come per
le società. Anche per la società capitalistica dei nostri giorni, o "economia di
La peggiore dal 1929 in avanti. Questi anni ci mostrano quindi un volto del capitale
molto diverso da quello, tronfio e trionfante, del finire degli anni ottanta.
Con il risultato di incrinare molte delle certezze su cui erano state edificate la
visione del mondo e la filosofia della storia diffuse a livello di massa negli ultimi
decenni. Come si fa a non avere dubbi sull'efficienza del mercato" in una
situazione in cui viene distrutta ricchezza per migliaia di miliardi di euro, e nel
giro di pochi mesi 50 milioni di disoccupati (quasi I'intera popolazione italiana!)
si aggiungono in tutto il mondo ai 180 milioni già esistenti? Che "efficienza"
è questa? Come è possibile negare questo gigantesco sperpero di risorse
umane e materiali? E, soprattutto, come è possibile evitarlo?
ln fondo, sono questi dubbi e queste domande ad avere riportato Karl Marx
agli onori delle cronache. Con modalità semplicemente impensabili sino a pochi
mesi fa. La barba del filosofo di Treviri torna ad affacciarsi dalle pagine di giornali
e periodici: dalle pagine del Financial times, dalla copertna di Foreign po-
Iícy e addirittura da quella del "venerdì" di Repubblica. E ancora: il presidente
francese Nicolas Sarkozy che si fa fotografare mentre sfoglia Il capitale, o il
ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrùck che, bontà sua, concede che "ci
sono parti della teoria di Marx che non sono poi così sbagliate[1].
È fin troppo facile obiettare che queste riscoperte sono viziate da equivoci
(uno su tutti: vedere in Marx un teorico "pre-keynesiano" dell'importanza del-
I'intervento dello stato nell'economia). Su un punto, però, la rinnovata attenzione
nei confronti di Marx coglie nel giusto: sulla crisi attuale Marx ci dice di più
e meglio di legioni di economisti dei giorni nostri. Perché ci consente di inquadrarla
in una tendenza di lungo periodo della società capitalistica: la caduta del
saggio di profitto.
1. La legge
La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è tra gli aspetti
più discussi e fraintesi della teoria di Marx. Non entrerò nel merito di
questo dibattito, ma mi limiterò ad esporre le linee generali del pensiero
di Marx, quali emergono dal manoscritto del terzo libro del Capitale[2],
mettendole a confronto con quanto è accaduto negli ultimi anni.
Per Marx il valore di una merce è dato dal lavoro in essa incorporato. Soltanto
il lavoro umano (lavoro vivo) può creare valore e conservare quello incluso nei
macchinari (lavoro morto): e quindi esso a fornire al capitalista i suoi profitti, attraverso
lavoro non pagato (pluslavoro), ossia lavoro supplementare rispetto a
quello necessario per riprodurre la forza-lavoro (lavoro necessario); questo pluslavoro
produce un valore supplementare un plusvalore rispetto al valore della
forza-lavoro affittata dal capitalista all'inizio del processo di produzione. Proprio
a motivo di questa peculiarità del lavoro umano di creare nuovo valore Marx definisce
il capitale impiegato per comprare I'uso della forza-lavoro capitale variabile
e quello adoperato per acquistare macchinari e mezzi di lavoro capitale costante.
Ora, il problema è che con lo sviluppo del modo di produzione capitalista
!a luogo “una diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale
costante e quindi in rapporto al capitale complessivo messo in movimento”
Marx definisce questo fenomeno anche parlando di una "progressiva più elevata
composizione organica del capitale". Si tratta in realtà di un’altra espressione
dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale del lavoro, che si manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo del crescente uso di macchinari, capitale fisso, più materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotti
nello stesso tempo,ossia con meno lavoro".La diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante fa sì che, restando invariato il grado di
sfruttamento del lavoro, il saggio di profitto, ossia il rapporto tra il plusvalore
e il capitale complessivo anticipato (la somma di capitale variabile e capitale costante) diminuisca. Questa in sintesi,la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Il termine "caduta", con cui si traduce usualmente in italiano il
tedesco Fall, può essere fuorviante, in quanto dà I'idea di un "crollo" brusco e
improvviso. E in effetti la teoria marxiana ha dato origine ad alcune interpretazioni "crolliste". Queste interpretazioni sono sbagliate già a livello interpretativo (oltre ad essersi rivelate chiaramente erronee sul piano della diagnosi degli sviluppi del capitalismo): è infatti lo stesso Marx ad insistere sul carattere semplice di "tendenza", per di più non lineare, della legge (la qual cosa già esclude la subitaneità).E del resto lo stesso termine Fall (e I'aggettivo correlato); ha un significato che non è riducibile alla caduta improvvisa ed è in oltre sostituito di frequente da un sostantivo il cui significato dà più il senso della gradualità quale Abnahme (diminuzione).
2. Fattori di controtendenza
La diminuzione del saggio di profitto può essere in parte controbilanciata
dalla concentrazione dei capitali. Essa fa sì che, pur calando la proporzione del
capitale variabile rispetto a quello costante,un numero maggiore di lavoratori
lavori per un singolo capitalista e quindi "la massa dei profitti aumenti contemporaneamente e nonostante la caduta del saggio di profitto". È appena il caso
ricordare,a questo riguardo,che il processo di concentrazione dei capitali
ha fatto progressi da gigante negli ultimi anni, creando dei veri e propri colossi
A New York hanno creato anche un indice apposta per loro: i “Global titans”
che possono permettersi rendite da monopolio. In Certi settori la concentrazione
è così avanzata che ci troviamo di fronte à situazioni di quasi-monopolio da parte
di una singola impresa: si è ad esempio calcolato che oltre l'80% dei computer del mondo giri sui sistemi operativi della Microsoft.
Ma I'aumento della massa dei profitti non è sufficiente ad invalidare gli effetti della legge. È lo stesso Marx ad osservare che "se si considera I’enorme sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale ad es. soltanto degli ultimi anni rispetto a tutti i periodi precedenti, se si considera soprattutto I'enorme massa di capitale fisso che entra nel processo di produzione sociale complessivo in aggiunta al macchinario propriamente detto, al posto della difficoltà in cui si sono sinora dibattuti gli economisti, ossia quale spiegazione dare della caduta del saggio di profitto, subentra quella opposta: come si spiega il fatto che questa caduta non sia più grande o più rapida?".La risposta di Marx è questa: "devono
entrare in gioco fattori di controtendenza, che frenano e contrastano I'efficacia
della legge generale, dandole il carattere di una semplice tendenza, ragion per
cui anche noi abbiamo definito la caduta del saggio generale di profitto come
una caduta tendenziale”.
I principali fattori di controtendenza sono questi:
1) Aumento del grado di sfruttamento del lavoro, cioè accrescimento
del plusvalore, soprattutto attraverso il prolungamento del tempo di lavoro
(plusvalore assoluto) e I'intensificazione del lavoro (plusvalore relativo). E
quanto è avvenuto negli scorsi anni tanto nei paesi in via di sviluppo, in cui si
sono delocalizzati impianti industriali, quanto nei paesi a capitalismo avanzato.
Da questo punto di vista è assolutamente emblematico l'aumento dell'orario di
lavoro a parità di salario (cioè I'aumento del plusvalore assoluto) realizzato
qualche anno fa nelle aziende private di un paese quale la Germania.
L'accrescimento del saggio del plusvalore che così si realizza seppure non elimina
la legge generale della caduta del saggio di profitto, "fa sì che essa agisca
più come tendenza, cioè come una legge la cui completa realizzazione è paralizzata,
frenata, rallentata, indebolita da circostanze che agiscono in senso opposto”.
2) Compressione del salario al di sotto del suo valore. Secondo Marx
questa è "una delle cause più importanti che rallentano la tendenza alla caduta
del saggio di profitto". A questo proposito è importante osservare che il valore
della forza-lavoro è storicamente determinato. Sotto questo profilo, è indubbio
che la riduzione dei salari avvenuta negli ultimi anni, in parallelo ai processi di
precarizzazione della forza-lavoro, li collochi in molti casi nettamente al di sotto
del loro valore storico medio dei 2-3 decenni precedenti. Ciò è ancora più evidente
se si tiene conto anche dell'attacco alle varie componenti del salario indiretto
e differito (aumento del costo dei servizi pubblici, generalizzata diminuzione
della protezione sociale, privatizzazione dei sistemi pensionistici, ecc.).
Ma facciamo parlare le cifre. Negli Stati Uniti la disuguaglianza tra i redditi
ha raggiunto il punto più alto dagli anni venti. Lo stesso vale per la Gran Bretagna
dopo I'andata al potere dei laburisti di Blair nel 1997: anche qui, secondo
dati governativi pubblicati del maggio 2009, la forbice della disuguaglianza è la
più alta di sempre[3]. Ma la riduzione della quota del prodotto interno lordo che
va ai salari, e per contro la crescita della quota destinata ai profitti, è una tendenza che investe tutti i paesi a capitalismo maturo, come ha evidenziato una ricerca
della Banca dei regolamenti internazionali del 2007: in Italia " ad esempio,
dal 1983 aI 2005 i lavoratori hanno perso 8 punti percentuali, andati in maggiori
profitti (che infatti sono saliti nel periodo dal 23% al 31% del totale)[4]E la stessa
Commissione europea in Employment in Europe 2007 ha dovuto ammettere:
"nella maggior parte dei paesi Ue la quota distributiva del lavoro ha raggiunto
un picco nella seconda metà degli anni '70 e nei primi anni '80, successivamente
riducendosi a livelli inferiori a quelli antecedenti il primo shock petrolifero". Infine,
secondo una ricerca dell'lnternational labour office di Ginevra, i salari
medi mondiali nel 1995-2007 sono rimasti al di sotto della crescita del Pil. Nella
maggior parte dei paesi la quota del reddito andata ai salari è scesa ulteriormente
nel 2001-2007 rispetto al periodo 1995-2000. Nell'intero periodo considerato
essa è diminuita rispetto ai profitti[5].
3) Ribasso del prezzo degli elementi del capitale costante. Al riguardo
Marx osserva: "la stessa evoluzione che accresce la massa del capitale costante
in rapporto a quello variabile, riduce attraverso I'accresciuta forza produttiva
del lavoro il valore degli elementi del capitale costante, e quindi impedisce che
il valore del capitale costante - che pure cresce continuamente - cresca nella
stessa proporzione in cui cresce il volume materiale del capitale costante, cioè
I'entità materiale dei mezzi di produzione che sono messi in movimento dalla
Stessa forza lavoro". Ne consegue che in realtà il mutamento della proporzione
tra capitale variabile e capitale costante è nei fatti molto inferiore a quanto si potrebbe
desumere dall'aumento dell'entità materiale degli elementi (macchinari
ecc.) che compongono quest'ultimo.
4) La sovrappopolazione relativa Questo aspetto negli ultimi anni si è
manifestato in particolare sotto forma di pressione di un gigantesco esercito industriale
di riserva presente nei paesi emergenti, soprattutto in Asia, ma anche,
ad es., nell'Europa dell'est. Questo ha comportato una massiccia delocalizzazione
di produzioni industriali verso i paesi di nuova industrializzazione. Più in
generale, l'accentuata concorrenza di produzioni realizzate in paesi a minor costo
della forza-lavoro ha esercitato una fortissima influenza calmieratrice sui salari
dei paesi industrialmente più avanzati. Così si spiega il dato, solo apparentemente
controintutivo (ma certamente in controtendenza rispetto alla retorica
sui benèfici effetti della globalizzazione), che negli ultimi dieci anni i paesi in
cui il commercio estero è cresciuto in proporzione del Pil sono stati anche i paesi
che hanno conosciuto in media la maggiore diminuzione della quota del Pil
andata ai salari[6]. Con riferimento a questo fattore di controtendenza Marx osserva
tra I'altro come tra le conseguenze "del prezzo a buon mercato e della massa
di salariati disponibili, o messi in esubero", a loro volta determinati dalla sovrappopolazione relativa di lavoratori, vi sia il fatto che "in molti rami della
produzione perdura la sussunzione più o meno meramente formale del lavoro
sotto il capitale, e perdura più a lungo di quanto il livello generale dello sviluppo
a prima vista renderebbe possibile". Questo significa produzioni più arretrate
e a maggiore intensità di lavoro di quanto in astratto sarebbe consentito dallo sviluppo
tecnologico, dovute al fatto che il basso prezzo della forza-lavoro le rende
comunque convenienti. A questo proposito è interessante osservare ad esempio
che il tanto decantato ruolo dei servizi nel creare occupazione negli Stati Uniti dei
tardi anni novanta va ricondotto in massima parte ad occupazione a bassi salari e
bassa produttività del lavoro, resa possibile dalla disponibilità di molta mano d’opera in eccedenza[7] E un discorso analogo potrebbe essere fatto in relazione alla
riluttanza di molti industriali nostrani ad investire in innovazione tecnologica.
5) Il commercio estero. Secondo Marx questo fattore rappresenta un fattore
di controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto per vari motivi.
In primo luogo, grazie al commercio estero il volume della produzione si accresce
consentendo un ampliamento di scala della produzione e quindi una riduzione
dei costi unitari di produzione: questo "rende più a buon mercato tanto gli
elementi del capitale costante, quanto quelli che formano direttamente il capitale
variabile (mezzi di sussistenza necessari)".I n tal modo agisce in modo favorevole
all'aumento del saggio di profitto, per un verso accrescendo il saggio del
plusvalore (in quanto il valore della forza-lavoro cala, e quindi una maggior parte
della giornata lavorativa può essere rappresentata da lavoro non pagato) e per
un altro diminuendo il valore del capitale costante (ciò che rallenta I'aumento
della composizione organica del capitale). È indubbio il ruolo che questo fattore
ha giocato negli ultimi anni, in termini di bassa inflazione e di maggiori margini
di compressione dei salari.
ln secondo luogo, Ia superiorità tecnologica delle merci prodotte in un determinato
paese può consentire un sovrapprofitto nel fare concorrenza a merci
prodotte altrove con tecnologia meno avanzata: "i capitali investiti nel commercio
estero possono fruttare un saggio di profitto superiore" - osserva Marx a
questo riguardo - perché qui "si concorre con merci che sono prodotte da altri
paesi con condizioni di produzione meno favorevoli e così il paese più progredito
vende le sue merci al di sopra del loro valore, benché più a buon mercato dei
paesi concorrenti". A questo riguardo va osservato che, per quanto riguarda i paesi
a capitalismo maturo (o - come diceva Lenin - "più che maturo”), questo aspetto,
che per un lungo periodo ha giocato un ruolo molto importante(dando origine
a molte teorizzazioni sullo "scambio ineguale" come elemento permanente
del dominio dei paesi del "centro" capitalistico rispetto a quelli della "periferia'),
ha perso relativamente peso negli ultimi anni, grazie agli impressionanti progressi
tecnologici compiuti da paesi quali India, Cina e altri stati del sud-est asiatico.
ln terzo luogo, "per quanto d'altro lato riguarda i capitali investiti in colonie"
(ma potremmo agevolmente sostituire questo termine con "paesi emergenti"),
"essi possono fruttare saggi di profitto più elevati, perché in quei paesi il saggio
di profitto è in generale più elevato a causa del minore sviluppo e in secondo
luogo ... vi è un maggiore sfruttamento del lavoro. Non si vede proprio perché i
più elevati saggi di profitto, che i capitali in tal modo investiti in determinati
rami rimpatriano, non debbano qui ... rientrare nel livellamento generale del
saggio generale di profitto e quindi non debbano elevarlo di una determinata
quota". E facile vedere come questo aspetto si applichi perfettamente a molti
odierni investimenti diretti esteri effettuati in paesi emergenti o in "economie a
rapido sviluppo", come ormai si usa dire. Quanto sopra vale per il breve periodo.
Gli effetti di medio-lungo periodo del commercio estero, invece, non sono
così favorevoli al saggio di profitto. Infatti, come rileva Marx (con evidente riferimento
all'Inghilterra dei suoi tempi), "lo stesso commercio estero sviluppa il
modo di produzione capitalistico e quindi la diminuzione in patria del capitale
variabile rispetto a quello costante e produce d'altro lato sovrapproduzione in
rapporto all'estero, perciò ha di nuovo alla lunga I'effetto opposto".
Va però sottolineata una peculiarità della situazione attuale: l'ampliamento del
commercio è certamente stato negli ultimi decenni considerevole innanzitutto in
senso geografico (si pensi cosa ha significato I'apertura di mercati prima chiusi al
capitale quali quelli dell'Est europeo); ma esso deve essere in senso anche qualitativo.
In altri termini, esso va nel senso di un ampliamento della sfera del commercio,
ossia di ciò che è commerciabile e viene messo a profitto. Tra le contromisure
alla caduta del saggio di profitto vi è infatti la messa a profitto dei beni
comuni, ossia di valori d'uso sino a ieri gratuiti che si e cercato e si cerca di trasformare
in valori di scambio (si pensi alle risorse idriche), e I'ampliamento di ciò
che è coperto da brevetto (a questo riguardo si va ormai dal genoma, a determinati
tipi di piante, alla proprietà intellettuale). Da questo punto di vista, la tendenza è
quella della colonizzazione di ogni ambito dell'esistenza da parte del capitale.
6) Aumento del capitale produttivo dì interesse. Quest'ultimo fattore,
cui Marx si limita ad accennare è, la destinazione di una parte crescente del capitale
a capitale produttivo d'interesse, ossia all'investimento speculativo, ad es.
in obbligazioni o azioni. Come vedremo, si tratta di un fattore oggi di grande
importanza.
3. La caduta del saggio di profitto, I'antidoto del credito, il crack
Abbiamo esaminato i fattori di controtendenza alla caduta tendenziale del
saggio di profitto, ravvisandone la presenza negli sviluppi economici più recenti.
Ma come stanno le cose per quanto riguarda la stessa caduta del saggio di
profitto? Questa tendenza, nonostante I'agire dei fattori di controtendenza visti
sopra, è confermata dai dati in nostro possesso oppure no? La risposta è senz'altro
affermativa. E questo vale per un ampio arco di tempo. Nel periodo che va
dal1973 al 2003, il saggio di crescita del Pil pro capite è stato di poco superiore
alla metà del saggio di crescita registrato negli anni 1950 -1973. Se dal calcolo
si escludesse la Cina, esso sarebbe inferiore di quasi due terzi[8]. E all'interno di
questa stessa serie storica la crescita è sempre inferiore col passare degli anni.
La crescita mondiale negli anni novanta è stata mediamente inferiore a quella
dei decenni precedenti.[9]
E per quanto riguarda specificamente il saggio di profitto? La più approfondita
ricerca recente in materia dimostra una tendenza generale di lungo periodo
al calo del saggio di profitto negli ultimi decenni e il suo convergere verso il
basso e verso livelli simili nei principali paesi dell'occidente industrializzato,
sia pure con andamenti tra loro non uniformi. Particolarmente eloquenti i dati
riguardanti Germania, Francia e Italia, che evidenziano un dimezzamento del
saggio di profitto tra i primi anni sessanta e i primi anni del decennio in corso.[10]
Per quanto riguarda specificamente I'Italia il governatore della Banca d'Italia,
Mario Draghi, I'artefice delle privatizzazioni degli anni novanta, ha detto testualmente:
"negli ultimi vent'anni la nostra è stata una storia di produttività
stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte".[11] Il Giappone,
che muoveva da livelli relativamente più elevati del saggio di profitto, evidenzia
una diminuzione ancora maggiore dal 1970 ai primi anni del decennio
in corso. Stati Uniti e Gran Bretagna, che muovevano da livelli più bassi, sembrano
invece evidenziare una certa ripresa a partire dagli anni ottanta.[12] Ma è
una ripresa drogata per I'appunto da quella gigantesca bolla delle attività finanziarie
ed espansione del credito che è esplosa nell'estate del 2007.
Come abbiamo già ricordato su queste pagine [cfr. no.125], questa superfetazione
della finanza e del debito ha avuto una triplice funzione:
1) mitigare le conseguenze della riduzione dei salari e consentire un sostanziale sganciamento della dinamica dei consumi da quella dei redditi grazie allo sviluppo del credito al consumo e all'effetto ricchezza prodotto da un susseguirsi di bolle speculative
(ultime in ordine di tempo la bolla della new economy e quella immobiliare);
2) allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione nell'industria
(tipico il caso del settore automobilistico, in cui le vendite sono state artificialmente
gonfiate per anni con un uso estremamente spinto del credito rateale
per I'acquisto delle autovetture, su cui erano praticati tassi prossimi allo zero);
3,) consentire al capitale in crisi di valorizzazione nel settore industriale un'elevata
redditività in attività finanziarie e speculative [per un'esposizione dettagliata
di questi tre aspetti cfr. ancora no.l25]. Particolarmente eclatante il caso degli
Stati Uniti, in cui nei primi anni ottanta il settore finanziario vantava il l0% dei
profitti totali, mentre nel 2007 tale proporzione è salita al 40%. Inoltre, tra il
2002 il 2007, all'incirca la metà della crescita del Pil Usa è stata trainata dal
settore immobiliare. E con tutto ciò, se si considerano i profitti medi delle imprese
americane prima delle tasse dopo il 1940, si osserva comunque una costante
diminuzione: dal l94l al 1956 il saggio di profitto era del 28%, dal 1957
al 1980 è stato del 20%, per scendere ancora al l4% nel periodo l98l-2004.[13]
Nell'ultimo di questi periodi il livello di utilizzo degli impianti industriali è
sempre stato inferiore all' 82%[14]
Poi è venuta Ia resa dei conti. Quella in atto è una vera e propria crisi generale,
attraverso la quale si sta verificando su scala mondiale una enorme distruzione
di capitale, necessaria al fine di ripristinare condizioni più elevate di redditività
del capitale.
Marx al riguardo scriveva:
"Nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione
che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a
circostanze e sterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è
la forma più incisiva in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che
deve far posto a un livello superiore di produzione sociale"[15] Sembra difficile
dargli torto.
[1] Der Spiegel, 29 settembre 2008
[2] Le citazioni sono tratte dalla mia traduzione della parte sulla caduta del saggio di profitto del manoscritto del III libro del Capitale, di prossima pubblicazione in un volume contenente gli scritti di Marx sulla crisi che uscirà presso l’editore “Derive Approdi”
[3] J. Plender, Mind the gap. Why business may face a crisis of legittimacy, in Financial Times, 8 aprile 2008. Sulla situazione Britannica vedi M. Engels, A Faustian pact that backfired spectacularly, in Financial Times, 26 maggio 2009
[4] L. Ellis – K. Smith, The global upward trend in the profit share, Bank for International Settlements, luglio 2007. La ricerca è stata ripresa in un ottimo articolo di M. Ricci, Il declino degli stipendi, in la Repubblica, 3 maggio 2008. Vedi anche M. Mucchetti, Torna il tema della redistribuzione, in Corriere della Sera, 24 agosto 2008.
[5] Global Wage Report 2008/9, International Labour Office, Geneva, novembre 2008. Si vedano in particolare le pagine XIII, 20, 59. Ma tutta la ricerca è di estremo interesse.
[6] Global Wage Report 2008/9, cit., p. 22
[7] Sul punto vedi N. Colajanni, Il miracolo americano: un modello per l’Europa?, Milano, Sperling & Kupfer, 2000, p. 30 sgg.
[8] A.Kliman, The destruction of capital and the current economic crisis, 15 gennaio 2009.
[9] In proposito vedi i dati riportati in J. Halevy, Stagnazione e crisi: Usa, Asia nippo-americana e Cina, in L. Vasapollo (a cura di), lavoro contro capitale. Precarietà, sfruttamento, delocalizzazione, Jaca Book, Milano 2005, pp.181 sgg.
[10] M. Li, F. Xiao, A. Zhu, Long waves, institutional changes, and historical trends: a study of the long-term movement of the profit rate in the capitalist world economy, in Jousnal of World-Systems Research, vol. XIII, n. 1, 2007, pp. 33-54, partic. Pp. 38-40
[11] Considerazioni finali, Banca d’Italia, 29 maggio 2009
[12] M. Li, F. Xiao, A. Zhu, cit.
[13] A. Kliman, cit.
[14] J. Bellamy Foster, F. Magdoff, Financial Implosion and stagnation, Back to the real economy, in Monthly Review, dicembre 2008.
[15] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it. di g. Backhaus, ora in K. Marx, F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 137
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