Il lavoro e i sindacati
Fu verso la fine del 1920, dopo la sconfitta di Vrangel’ e la cessazione della guerra civile, che il fronte del lavoro, al pari degli altri settori dell’economia, cominciò a mostrare i segni dello sforzo cui era stato sottoposto. La “militarizzazione del lavoro” aveva perso quel carattere di emergenza che poteva aver avuto quando era in corso la lotta per la vita o la morte. I sindacati, ancora una volta, divennero la sede e l’occasione di aspri dissensi: dissensi all’interno del Consiglio Generale, dissenzi tra il Consiglio Generale e i sindacati stessi, e dissensi tra i sindacati e gli organi sovietici. I problemi in discussione, più che di principio, si presentavano spesso come problemi relativi alle particolari competenze dei vari organi; si discuteva se la principale funzione dei sindacati fosse quella di stimolare la produzione oppure di difendere gli interessi immediati e particolari dei loro iscritti; se era loro compito mobilitare e organizzare la mano d’opera con metodi coercitivi o esclusivamente con metodi volontari; e se dovevano prendere ordini dallo stato in sede politica o conservare un certo grado di indipendenza. Nessuno stretto legame esisteva tra la questione della 2militarizzazione del lavoro” e quella dei rapporti fra i sindacati e lo stato. Era, d’altra parte, naturale che chi considerava la coscrizione della mano d’opera un elemento permanente dell’economia socialista cercasse anche di assorbire i sindacati nella macchina statale, mentre coloro che sostenevano l’indipendenza dei sindacati muovessero dall’idea che il valore dei sindacati risiedeva nel carattere volontario della disciplina da essi imposta. La forte personalità di Trockij – incondizionatamente favorevole alla mobilitazione obbligatoria della mano d’opera e alla completa subordinazione dei sindacati allo stato – valse a inasprire il dibattito e a rendere più duri i contrasti; Tomskij, da parte sua, si presentò come il difensore della concezione “sindacalista” tradizionale.
Fu verso la fine del 1920, dopo la sconfitta di Vrangel’ e la cessazione della guerra civile, che il fronte del lavoro, al pari degli altri settori dell’economia, cominciò a mostrare i segni dello sforzo cui era stato sottoposto. La “militarizzazione del lavoro” aveva perso quel carattere di emergenza che poteva aver avuto quando era in corso la lotta per la vita o la morte. I sindacati, ancora una volta, divennero la sede e l’occasione di aspri dissensi: dissensi all’interno del Consiglio Generale, dissenzi tra il Consiglio Generale e i sindacati stessi, e dissensi tra i sindacati e gli organi sovietici. I problemi in discussione, più che di principio, si presentavano spesso come problemi relativi alle particolari competenze dei vari organi; si discuteva se la principale funzione dei sindacati fosse quella di stimolare la produzione oppure di difendere gli interessi immediati e particolari dei loro iscritti; se era loro compito mobilitare e organizzare la mano d’opera con metodi coercitivi o esclusivamente con metodi volontari; e se dovevano prendere ordini dallo stato in sede politica o conservare un certo grado di indipendenza. Nessuno stretto legame esisteva tra la questione della 2militarizzazione del lavoro” e quella dei rapporti fra i sindacati e lo stato. Era, d’altra parte, naturale che chi considerava la coscrizione della mano d’opera un elemento permanente dell’economia socialista cercasse anche di assorbire i sindacati nella macchina statale, mentre coloro che sostenevano l’indipendenza dei sindacati muovessero dall’idea che il valore dei sindacati risiedeva nel carattere volontario della disciplina da essi imposta. La forte personalità di Trockij – incondizionatamente favorevole alla mobilitazione obbligatoria della mano d’opera e alla completa subordinazione dei sindacati allo stato – valse a inasprire il dibattito e a rendere più duri i contrasti; Tomskij, da parte sua, si presentò come il difensore della concezione “sindacalista” tradizionale.
Il I Congresso Panrusso dei Sindacati aveva stabilito nel 1918 che i sindacati sarebbero dovuti diventare “organi del potere statale”; l’VIII Congresso del partito, tenutosi l’anno seguente, aveva dichiarato, nella relativa sezione del programma del partito, che i sindacati avrebbero dovuto “concentrare di fatto nelle loro mani l’intera amministrazione di tutta l’economia nazionale, come una sola unità economica”. Nel fervore della guerra civile, questi due punti di vista erano riusciti, in certa misura, a convivere; cessata la guerra, era inevitabile che si riproponesse il vecchio problema, se cioè le decisioni più importanti d’ordine politico spettassero ai sindacati o agli organi dello stato. L’occasione che fece risolvere definitivamente la controversia fu più o meno fortuita. Nell’inverno 1919-1920 le condizioni delle ferrovie erano divenute catastrofiche e la completa disorganizzazione dei trasporti minacciava di provocare il crollo dell’economia; Lenin telegrafò a Trockij, che si trovava negli Urali, pregandolo di prendersi cura della cosa. Dapprima si pensò di ricorrere ai soliti metodi di costrizione. Un decreto dello STO del 30 gennaio 1920 annunciò la mobilitazione per il servizio del lavoro di tutti i ferrovieri; una settimana più tardi un ulteriore decreto conferì ampi poteri disciplinari all’amministrazione delle ferrovie; in nessuno dei due decreti si faceva menzione dei sindacati. Ai primi di marzo del 1920 Trockij ottenne, in appoggio alla sua azione, la creazione di un nuovo organo del Commissariato del Popolo per le Comunicazioni (Narkomput), denominato “amministrazione politica centrale delle ferrovie” (Glavpolitput), il cui compito era di stimolare e rafforzare la coscienza politica dei ferrovieri. Uno degli scopi, o comunque uno dei risultati, della costituzione del nuovo organo era quello di eliminare il sindacato dei ferrovieri, che, fin dalle agitazioni delle prime settimane della rivoluzione, aveva difeso ostinatamente la propria indipendenza. Una speciale risoluzione del IX Congresso del partito, nel marzo 1920, richiamò l’attenzione sull’importanza fondamentale dei trasporti e additò “la ragione principale del ritardo nel miglioramento dei trasporti” nella “debolezza del sindacato dei ferrovieri”. La risoluzione diede il suo pieno appoggio al Glavpolitput, il cui duplice compito doveva consistere “nel migliorare urgentemente i trasporti, mediante l’azione organizzata dei comunisti più attivi … e, al tempo stesso, nel rafforzare l’organizzazione del sindacato dei ferrovieri, attraverso l’assorbimento dei migliori lavoratori, e nell’aiutare il sindacato stesso a creare una disciplina di ferro nella sua organizzazione, facendo così di esso uno strumento insostituibile per l’ulteriore miglioramento dei trasporti”. Ben presto sorsero delle rivalità e si giunse ad un vero e proprio conflitto fra il Glavpolitput e il sindacato dei ferrovieri. Esso giunse al suo culmine quando il comitato centrale del partito decise di rimuovere il comitato del sindacato dei ferrovieri e di sostituirlo con un nuovo comitato, conosciuto, nella successiva controversi, col nome di Cektran.
[Al X Congresso del partito Trockij affermò in due occasioni, senza essere contraddetto, che la decisione i creare il Cektran (suggerita presumibilmente dallo stesso Trockij) era stata presa dal comitato centrale del partito il 28 agosto 1920, con l’appoggio di Lenin, di Zinov’ev e di Stalin, nonostante le proteste di Tonskij]
La guerra polacca tuttora in corso e il nuovo intervento di Vrangel’ nel Sud sembravano giustificare ancora qualsiasi misura d’emergenza che servisse a far funzionare il servizio dei trasporti. Alla fine del settembre, tuttavia, i sindacati erano riusciti a riguadagnare parte del loro prestigio presso il comitato centrale del partito, il quale approvò una risoluzione in cui si deploravano “tutti i minuti controlli e le piccole ingerenze” negli affari dei sindacati stessi, prendendo atto che la situazione dei trasporti era “decisamente migliorata” e dichiarando che era giunto il momento di trasformare il Glavpolitput (e un corrispondente organo per i trasporti fluviali, denominato Glavpolitvod) in organi sindacali.
Quando, perciò, all’inizio del novembre 1920 venne convocata a Mosca una conferenza panrussa dei sindacati (non si trattava di un vero e proprio congresso), gli animi erano già tesi. L’armistizio con la Polonia era stato firmato e la guerra civile era pressoché finita, mentre la crisi dei trasporti poteva dirsi virtualmente superata. Come d’abitudine, i delegati bolscevichi si riunirono in anticipo per decidere la loro linea di condotta alla conferenza. Approfittando d’una discussione relativa alla produzione, Trockij diresse un attacco a fondo contro i sindacati, i quali, egli disse, necessitavano d’una “scrollata”. Tomskij (presidente del Consiglio dei sindacati e membro del Comitato centrale del partito) replicò all’attacco con asprezza. La polemica si svolse ai margini della conferenza, ed essa si accontentò di alcune tesi piuttosto generiche di Rudzutak sul ruolo dei sindacati nello sviluppo della produzione. [Tali tesi furono lodate da Lenin a da lui citate in extenso]
Ma la situazione all’interno del partito si era a tal punto inasprita da richiedere l’intervento del comitato centrale. Nel corso di una riunione svoltasi l’8 novembre 1920, Lenin e Trockij presentarono due schemi di proposte, e il giorno seguente, al termine di faticose discussioni, il comitato approvò con 10 voti contro 4 (l’opposizione era costituita da Trockij, Krestinkij, Andreev e Rykov) una risoluzione basata sullo schema di Lenin. La risoluzione distingueva accortamente tra “centralismo” e “forme militarizzate del lavoro”, che avevano tendenza a degenerare in burocrazia, tra “la gretta tutela dei sindacati” e “le forme sane della militarizzazione del lavoro”. In merito al punto essenziale, essa prescrisse che il Cektran (Comitato centrale dei trasporti) partecipasse al Consiglio centrale dei Sindacati, su base di parità con i comitati centrali dei principali sindacati, e decise di nominare un comitato con l’incarico di redigere nuove istruzioni generali sui sindacati. Ciò provocò una scissione all’interno del Cektran, e il 7 dicembre 1920 il comitato centrale tornò ad occuparsi della questione in un’atmosfera sempre più tesa. In tale occasione Lenin lasciò che Zinov’ev si misurasse con Trockij. Il comitato centrale si dimostrò, tuttavia, contrario ad entrambi, e Bucharin creò il cosiddetto “gruppo cuscinetto” (comprendente Preobrazenskij, Serebrjakov e Larin) e fece approvare con 8 voti contro 7 una risoluzione di compromesso che lasciava impregiudicate tutte le questioni fino al congresso del partito della primavera seguente. Il Glavpolitput, e la consimile organizzazione del Glavpolitvod, vennero ufficialmente disciolti, e il loro personale e i loro beni passarono ai sindacati. Il Cektran fu lasciato in vita a condizione che esso procedesse a nuove elezioni in occasione dell’imminente congresso dei lavoratori dai trasporti, nel febbraio 1921.[La risoluzione “cuscinetto” fu pubblicata nella Pravda del 14 dicembre 1920]
Da quel momento non fu più possibile rispettare la decisione presa in novembre di evitare la pubblica discussione delle divergenze sorte nel partito. [Il ritiro del divieto da parte di Zinov’ev, su ordine di Lenin, fu registrato da Trockij]
Nei tre mesi intercorrenti tra la riunione di dicembre del comitato centrale e l’apertura del X Congresso del partito, l’8 marzo 1921, un aspro dibattito sul ruolo dei sindacati imperversò nelle riunioni e nella stampa del partito.
[Per dare un’idea dell’eccezionale ampiezza del dibattito, possiamo ricordare alcuni momenti chiave: il 24 dicembre 1920 Trockij parlò ad una riunione di massa di sindacati e delegati all’VIII Congresso Panrusso dei Soviet: il suo discorso fu pubblicato il giorno dopo sotto forma di opuscolo; anche Tomskij ed altri parlarono alla stessa riunione. Il 30 dicembre 1920, a un’analoga riunione intervennero Lenin, Zinov’ev, Bucharin, Slipnikov e altri; i loro discorsi furono pubblicati in un opuscolo. Una settimana dopo Zinov’ev parlò ad un’assemblea a Pietrogrado. Per tutto il gennaio 1921, la Pravda pubblicò quasi giornalmente articoli di rappresentanti delle varie “piattaforme”. Il contributo di Stalin, una polemica contro Trockij, apparve il 19 gennaio, l’articolo di Lenin, La crisi del partito, il 21 gennaio. Alla fine di gennaio, Lenin riassunse il dibattito in un opuscolo intitolato Ancora sui sindacati, con il sottotitolo Sugli errori dei compagni Trockij e Bucharin. Prima dell’apertura del congresso, i principali documenti furono pubblicati per ordine del comitato centrale in un volume a cura di Zinov’ev. Che la parte sostenuta da Stalin dietro le quinte fosse molto più importante di quanto lasciasse supporre il suo unico articolo pubblicato, è evidente dalla battuta di un delegato al congresso del partito; tale delegato osservò che, mentre Zinov’ev lavorava a Pietrogrado, “quello stratega di guerra e arcidemocratico, il compagno Stalin” si dava da fare a Mosca, redigendo “rapporti in cui si sosteneva che questa o quest’altra vittoria era stata ottenuta su questo o quest’altro fronte, che tanti avevano votato a favore della tesi di Lenin, e soltanto sei per la tesi di Trockij … ecc. ecc.”]
Secondo Trockij e il Cektran,il sindacato dei ferrovieri intendeva comportarsi come un sindacato capitalista, relegando in sott’ordine il problema dell’organizzazione della produzione; a Tomskij si attribuiva la parte del “Gompers dello stato operaio”. Gli oppositori sostenevano invece che “l’apparato del Narkomprod stava inghiottendo quello dei sindacati, lasciando a quest’ultimi solo le corna e i piedi”. Una mezza dozzina di programmi, o “piattaforme”, vennero messi in circolazione. Quando il congresso si riunì, la situazione si era ormai, in una certa misura, chiarita da sé. Il “gruppo cuscinetto” di Bucharin, fallito il tentativo di promuovere un accordo generale, era venuto a patti con Trockij, e un progetto comune fu presentato al congresso a nome di otto membri del comitato centrale: Trockij, Bucharin, Abdreev, Dzerzinhij, Krestinskij, Preobrazenskij, Rakovskij e Serebrjakov. All’ala opposta si era venuto organizzando nell’inverno 1920-21 un gruppo di sinistra, detto dell’“opposizione operaia”. Il suo programma, vago ma lungimirante, comprendeva il controllo della produzione industriale da parte dei sindacati; e proposte in tale senso furono sottoposte dal gruppo al X Congresso del partito: i suoi esponenti erano Sljapnikov e la Kollontaj. Questo nuovo elemento favorì il gioco del gruppo Lenin-Zinov’ev, che poté così presentarsi come una forza di centro, moderatrice; il suo punto di vista venne presentato al congresso sotto forma di uno schema di risoluzione, detto “dei dieci”: Lenin, Zinov’ev, Tomskij, Rudzutak, Kalinin, Kamenev, Lozovskij, Petrovskij, Artem e Stalin. I gruppi minori si ritirarono nell’ombra prima del congresso o immediatamente dopo la sua apertura, cedendo il campo ai tre maggiori contendenti.
Al X Congresso del partito il vero e proprio dibattito si esaurì rapidamente; esso si limitò a una sola seduta e fu in gran parte intessuto di semplici recriminazioni. Quando i delegati furono chiamati ad esprimersi, le conclusioni erano già scontate. L’influenza personale di Lenin e il peso dell’apparato del partito bastarono a determinare l’esito del congresso. Tuttavia, le adesioni raccolte tra i delegati dagli altri programmi erano assai maggiori di quanto non trasparisse dai voti. Dalle tre principali “piattaforme” risultava chiaramente quali erano le questioni di principio in giuoco. L’“opposizione operaia”, come già in passato i sostenitori del “controllo operaio”, esprimeva una concezione essenzialmente sindacalista dello “stato operaio”, richiamandosi alla componente sindacalista della teoria del partito: al congresso Sljapnikov citò la previsione di Engels secondo la quale la società futura avrebbe “organizzato l’industria sulla base d’una associazione libera ed uguale di tutti i produttori”. (Lenin replicò che Engels stava parlando in quel caso di una “società comunista”.) In quanto i sindacati costituivano l’unica organizzazione che rappresentasse direttamente ed esclusivamente i lavoratori, era inconcepibile che essi venissero subordinati a qualsivoglia autorità politica. La direzione dell’economia nazionale avrebbe dovuto essere affidata, al vertice, ad un congresso panrusso dei produttori, e, al livello inferiore, ai sindacati. Ne derivava che le funzioni politiche avrebbero dovuto essere lasciate ai Soviet, i quali, come depositai del potere politico, erano destinati presumibilmente a scomparire. Per ciò che riguardava le questioni pratiche e immediate, l’“opposizione operaia” richiedeva la parificazione salariale, la distribuzione gratuita ai lavoratori dei generi alimentari a di prima necessità, e la progressiva sostituzione dei pagamenti monetari con pagamenti in natura. L’“opposizione operaia” aveva una concezione rigida della classe operaia ed era contraria, almeno in teoria, a qualsiasi concessione ai contadini. Essa, mentre da un lato respingeva tutto ciò che poteva riferirsi alla militarizzazione del lavoro, avallava d’altro canto le misure economiche e finanziarie più estreme del comunismo di guerra, mantenendo così la sua posizione all’ala sinistra del partito. L’opposizione operaia non aveva da offrire alcun rimedio alla crisi che stava di fronte al X Congresso, e raccolse solo 18 voti.
Il programma Trockij-Bucharin, che rappresentava di fatto il punto di vista di Trockij, sfumato in alcune delle sue più aspre formulazioni, si definì una piattaforma di “produzione” in opposizione a quella “sindacalista”. Essa chiedeva “la trasformazione dei sindacati in unità di produzione, non soltanto di nome, ma anche nella sostanza e nei metodi di lavoro”. Il programma del partito del 1919 aveva provveduto alla concentrazione nelle mani dei sindacali dell’“intera amministrazione di tutta l’economia nazionale, concepita come singola unità economica”. Ciò presupponeva, però, “la trasformazione pianificata dei sindacati in apparati dello stato operaio”. Per completare tale processo, era indispensabile una più stretta integrazione fra il Vesencha (Consiglio Supremo dell’Economia Nazionale) e il Consiglio Centrale dei Sindacati, mentre il Commissario del Popolo per il Lavoro avrebbe dovuto essere abolito del tutto. Il processo di “statizzazione” dei sindacati era ormai giunto, in pratica, a una fase assai avanzata, e non c’era apparentemente alcun motivo per non portarlo a definitivo compimento. Il programma Trockij-Bucharin possedeva una notevole coerenza logica. Tuttavia, il presupposto da cui muoveva, cioè che l’operaio industriale non poteva avere interessi diversi da quelli dello stato sovietico, tali da giustificare la protezione di sindacati indipendenti, se apparentemente poteva trovare una spiegazione in base al termine di “dittatura del proletariato”, nella realtà delle cose esso aveva scarso fondamento: se non altro perché lo stato in quel momento si fondava su un continuo compromesso tra l’operaio dell’industria e il contadino; inoltre, il programma Trockij-Bucharin prestava il fianco alla stessa critica che veniva rivolta all’“opposizione operaia”, seppure da un diverso punto di vista, cioè di ignorare la componente contadina nel potere sovietico. L’insuccesso del programma fu dovuto anche a una ragione più pratica, vale a dire il suo ben noto legame con la politica della mobilitazione forzata della mano d’opera, che costituiva in effetti una logica deduzione dalle sue premesse. Nonostante il nome influente dei suoi promotori, il programma Trockij-Bucharin ottenne al congresso solo 50 voti.
Il campo era aperto alla risoluzione dei “dieci”, che fu approvata con 336 voti contro i 50 e i 18 voti ottenuti rispettivamente dalle due correnti rivali. La principale critica che le venne mossa fu di non indicare una via d’uscita dalla crisi e, in sostanza, di lasciare le cose al punto in cui si trovavano. La risoluzione respingeva nettamente la proposta dell’“opposizione operaia” di un congresso panrusso dei produttori, la cui maggioranza, fece notare con franchezza Zinov’ev, “in questo grave momento sarebbe costituita da persone non appartenenti al partito, fra cui numerosi socialisti rivoluzionari e menscevichi”. Ma essa dichiarò anche, in opposizione a Trockij, che i sindacati svolgevano già alcune funzioni statali e che la loro “rapida ‘statizzazione’ … avrebbe costituito un grave errore”. L’essenziale era di “guadagnare sempre più allo stato sovietico l’appoggio di queste organizzazioni di massa, al di fuori del partito”. Il carattere distintivo dei sindacati era costituito dall’uso dei metodi persuasivi (sebbene la “costrizione proletaria” non fosse sempre esclusa); incorporarli nello stato avrebbe significato privarli di tale elemento a loro favore.
[Lenin insisté in modo particolare su questo punto nel suo breve discorso al congresso intorno alla questione sindacale: “Dobbiamo a ogni costo prima persuadere, e poi costringere”.]
la “piattaforma” dei “dieci” si basava su considerazioni di carattere pratico, piuttosto che su un contenuto teorico. Ma questa, appunto, era la sua forza. Sulle questioni particolari, i “dieci”, se da un lato accettarono come meta ultima l’uguagliamento dei salari, dall’altro si dimostrarono contrari a farne un obiettivo politico immediato, come voleva l’“opposizione operaia”; i sindacati avrebbero dovuto “usare il pagamento dei salari in denaro o in natura come mezzo per disciplinare la mano d’opera e incrementare la sua produttività (sistema di premi, ecc.)”. Inoltre, i sindacati avrebbero dovuto far rispettare la disciplina e combattere le diserzioni dal lavoro per mezzo di “tribunali operai di disciplina”.
Le proposte dei “dieci” adottate dal X Congresso del partito per risolvere la controversia sui sindacati non contenevano nessun elemento originale, ma avevano soprattutto un carattere pratico. Ciò nonostante, esse contribuirono ben poco a risolvere il problema fondamentale, quello, cioè, di conferire ai sindacati una funzione autonoma senza trasformarli in organi dello stato.
Al Congresso Trockij predisse che la risoluzione vincitrice non sarebbe “sopravvissuta fino all’XI Congresso”. La previsione si avverò in pieno. Una nuova crisi sopravvenne dopo solo due mesi; la linea del partito verso i sindacati sarebbe stata nuovamente e radicalmente modificata in base alla risoluzione del comitato centrale del gennaio 1922. Se i nuovi cambiamenti poterono essere realizzati in un clima meno polemico di quello che aveva caratterizzato l’inverno 1920-21, ciò fu dovuto a due fattori. In primo luogo, il giro di vite dato dal X Confesso alla disciplina del partito evitò il ripetersi delle aperte e astiose polemiche che avevano preceduto il congresso. In secondo luogo, la controversia sui sindacati nell’inverno 1920-21 si era svolta nel regime del comunismo di guerra e sulla base dei presupposti economici di quel sistema.
L’abbandono del comunismo di guerra e l’avvento della Nuova Politica economia ebbero ripercussioni sulla politica del lavoro: mentre la “piattaforma” di Trockij e quella dell’“opposizione operaia” risultarono sorpassate, il programma adottato dal X Congresso parve adeguarsi meglio alla nuova situazione e rappresentare in certo senso una continuazione dell’indirizzo espresso dal congresso stesso. La politica di Trockij della mobilitazione del lavoro da parte dello stato rispecchiava l’estrema tensione degli anni del comunismo di guerra e non poteva che essere seguita da un periodo di rilassamento. Ciò nonostante, essa dimostrò di possedere una validità più duratura di altri aspetti del comunismo di guerra: la politica del lavoro che venne adottata alcuni anni dopo, con i piani quinquennali, era assai più debitrice ai concetti esposti da Trockij in quell’epoca che alla risoluzione adottata dal X Congresso del partito.
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