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1. Il nuovo Stato.
Una situazione rivoluzionaria nella storia raramente ha trovato una immagine del futuro già pronta, come quella che prese forma all’interno della corrente bolscevica russa del marxismo. E qui dobbiamo pensare anzitutto ai lavori di Lenin e specialmente allo scritto, terminato nel settembre del 1917, dal titolo Stato e rivoluzione. Secondo il contenuto di quest’opera, la prima tappa della via che conduce al comunismo è l’instaurazione della dittatura del proletariato, che significa da un lato democrazia per la stragrande maggioranza del popolo, dall’altro violenta esclusione dalla democrazia per gli antichi oppressori del popolo.
Per quest’ultima tuttavia non ci sarà bisogno, o “quasi” non ci sarà bisogno, di un apparato speciale, perché sarà sufficiente l’organizzazione delle masse armate. Dapprima verrà eliminata solo quell’ingiustizia sociale derivante dal fatto che i mezzi di produzione sono di proprietà di singoli individui, mentre la distribuzione dei beni di consumo non avverrà ancora secondo i bisogni, bensì secondo il lavoro, nel senso che, non esistendo un altro diritto, sussiste ancora il “diritto borghese”; anche la tecnica inoltre esige la più severa attenzione, altrimenti la fabbrica si ferma e nascono disturbi nel funzionamento del macchinario. Lo Stato, proprio per la necessità di organizzare questi rapporti, continua a sopravvivere, sebbene abbia perso ormai la sua funzione oppressiva, perché deve difendere il suddetto ruolo di divisione dei prodotti e del lavoro. Ogni cittadino sarà il funzionario retribuito di questo potere, che allora veniva immaginato ancora come omogeneo, senza articolazione e funzionante come un “cartello” esteso a tutto il popolo. “L’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario”. (Lenin, Stato e rivoluzione, Roma 1966, p.178)
Il partito comunista acquistò all’interno dei soviet un’influenza decisiva e, giunto al potere con la rivoluzione d’Ottobre, si mise immediatamente all’opera per realizzare nella prassi la sua immagine del futuro. Tuttavia già i primi passi mossi verso l’edificazione del nuovo ordinamento sociale mostrarono come, anche se si prendevano le mosse dalla stessa base teorica, inevitabilmente si delineavano alcune alternative divergenti e non conciliabili. Nei primi anni comunque, a causa della guerra civile, non si accesero polemiche riguardo al nuovo ordinamento socio-economico. Le possibilità della polemica si dettero solo a partire dalla fine del 1920 e possiamo quindi considerare i pochi anni successivi come il periodo della scelta alternativa. Le polemiche e le lotte di partito, che ormai non erano più soltanto ideologiche, ma rispecchiavano contrasti i interessi creatisi nella nuova struttura sociale, si concentrarono soprattutto intorno ai seguenti problemi:
a) La valutazione del sistema di gestione economica e di istituzioni del periodo detto del “comunismo di guerra”. Era nato, questo, in seguito a una situazione di forza maggiore ingenerata dalla guerra o da una concezione teorica costruita sulla possibilità di una rapida transizione?
b) La polemica sul sindacato, che prese forma intorno al dilemma apparentemente pratico della “sindacalizzazione dello Stato” o della “statizzazione dei sindacati”, ma nascondeva dietro di sé uno dei problemi più importanti della nuova formazione socio-economica: come, in quali forme istituzionali, può essere garantita la partecipazione delle masse operaie alla direzione dell’economia?
c) La questione agraria, che praticamente si presentava come il problema di sostituire al prelievo delle eccedenze l’imposta in natura, ma nascondeva dietro di sé la questione fondamentale della sopravvivenza del nuovo potere; il rapporto con le masse contadine, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione, in un paese in cui nell’agricoltura erano presenti rapporti caratteristici dell’età feudale, di varie formazioni precapitalistiche e del capitalismo in lento sviluppo.
d) La definizione e la valutazione del carattere della Nep, dietro a ciò la questione della funzione dei rapporti di denaro e di mercato, in un paese in cui in precedenza né il denaro, né i rapporti di mercato avevano permeato completamente la vita economica e sociale.
e) Il carattere dello Stato che aveva appena preso forma, in un paese dove nel passato funzionava una delle burocrazie di tipo amministrativo e statale meglio organizzate d’Europa e che aveva importanza anche nella vita economica; essa era stata distrutta dalla rivoluzione e dalla guerra civile, ma funzionava ancora mediatamente come modello istituzionale. questa polemica concerneva propriamente la ragione d’essere e il futuro della burocrazia in una società che sopprime la proprietà privata dei mezzi di produzione. A ciò era connesso il concetto della vigilanza operaio-contadina, che offriva come alternativa possibile la creazione di un potere social superiore alla direzione specialistica che si stava sviluppando e funzionava essenzialmente come una burocrazia.
3. Il comunismo di guerra.
Le prime disposizioni prese dal potere sovietico dopo la rivoluzione d’Ottobre rivelano come si pensasse che la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione dovesse avvenire a gradi; è vero nei primi decreti si annunciavano estesissime nazionalizzazioni, ma si mirava anche al tempo stesso a sottoporre il capitale privato al controllo operaio, lasciando sussistere, almeno in linea di principio, il diritto dei capitalisti all’amministrazione e persino all’appropriazione. Nella pratica tuttavia il processo di espropriazione del capitale privato subì un’accelerazione: durante la guerra civile si rivelò illusoria l’ipotesi che sotto il potere sovietico i capitalisti rimanessero alla testa delle loro imprese e continuassero a dirigere la loro attività produttiva e commerciale. Nella grande maggioranza dei casi infatti essi fuggirono dalle regioni dominate dai bolscevichi e agli organi operai di controllo toccò anche il compito della gestione delle imprese.
Questa situazione accelerò al tempo stesso anche la statizzazione decretata centralisticamente, che si estese allora persino alle unità economiche che non si potevano far funzionare razionalmente al livello di medie o grandi imprese. Ciò è attestato dal fatto che, in base alle statistiche del 1920 relative all’industria, più dei due terzi delle imprese statizzate impiegava meno di quindici operai. Ancora più rapidamente avvenne la nazionalizzazione nel commercio, dove in capo a brevissimo tempo per il settore privato non rimase in sostanza che la possibilità del piccolo commercio di viveri, del “mercato nero”. Così per quel che riguarda l’industria e il commercio, si raggiunse l’obiettivo contenuto nel programma di Stato e rivoluzione: i mezzi di produzione furono sottratti alla proprietà privata dei singoli individui. Invece la soluzione del problema che fa seguito a ciò, vale a dire la trasformazione dei mezzi di produzione in proprietà di tutta la società, attraverso l’impiego di provvedimenti antiburocratici, si rivelò una delle questioni più difficili della nuova formazione socio-economica.
Sulla base della statizzazione dei mezzi di produzione si costituì un sistema di direzione dell’economia che andava prendendo una forma istituzionale sempre più definita. “Dopo la Comune di Parigi – ha scritto Kritsman – che creò per la prima volta nella storia dell’umanità un governo proletario, la rivoluzione russa con la costituzione di un apparato proletario di direzione dell’economia ha fatto un nuovo passo avanti in linea di principio”. Questo nuovo sistema di direzione dell’economia si trovava a dover risolvere un compito quasi incredibilmente grande. Tra i paesi che avevano partecipato alla prima guerra mondiale, la Russia fu colpita in modo particolarmente grave, specialmente nell’industria e nelle comunicazioni, e la situazione era stata ulteriormente aggravata dalla guerra civile. La centralizzazione – non tanto nell’organizzazione della produzione, quanto piuttosto nella distribuzione dei beni che erano a disposizione – era un’esigenza a un tempo dell’ideologia e della pratica.
Gli organi di direzione centrale della produzione immediatamente dopo la rivoluzione erano ancora di tipo corporativo, si componevano di rappresentanti dei sindacati, di delegati delle organizzazioni proletarie e delle associazioni di fabbrica. La loro funzione consisteva all’inizio piuttosto nell’esercizio del controllo, in quanto essi non svolgevano una vera e propria attività direzionale; più tardi tuttavia, per influsso della statizzazione e del passaggio all’economia di guerra, il loro compito principale divenne quello di dirigere il movimento della produzione e della distribuzione e così, di conseguenza della nazionalizzazione accelerata, diventava superata la presenza del capitalista. Si formarono delle direzioni generali articolate verticalmente sotto la conduzione di una sola persona, in cui il carattere collettivo sopravviveva solo formalmente. Questi glavki, nell’abbreviazione russa, erano le forme istituzionali più significative del sistema di gestione del comunismo di guerra. Il loro potere sull’ambito che stava sotto la direzione era quasi illimitato ed essi godevano di un’indipendenza relativamente grande anche nei confronti degli organi centrali del governo. Le direzioni generali, il cui numero nel giro di breve tempo salì a parecchie dozzine, erano le prime istituzioni di questa società in cui poté prendere forma il rapporto burocratico analizzato da Marx, come rapporto sostanziale. I glavki crearono una loro mitologia della centralizzazione e presentarono il sistema di gestione del comunismo di guerra come l’unica forma di direzione dell’economia possibile per la transizione al socialismo.
In questo sistema di gestione in parte per l’influsso dell’ideologia, in parte da un punto di vista pratico non si dava spazio ai rapporti di denaro e di scambio. La valutazione, la verifica, l’organizzazione centralizzata (sotto la direzione generale), la distribuzione, tutto avveniva in modo naturale. Una parte maggiore dei prodotti dell’industria veniva distribuita secondo i piani di utilizzazione elaborati dal centro e così anche i rapporti di scambio tra le varie unità economiche (per cui non era incondizionatamente necessaria la funzione mediatrice del denaro) si ridussero a uno spazio sempre più ristretto. I rapporti di mercato e di scambio diminuirono in misura molto considerevole anche in conseguenza del fatto che i lavoratori ricevevano i salari – del resto su base altamente egualitaria – per la maggior parte non in denaro ma nella forma di assegnazioni in natura. È degno di nota il fatto che la partecipazione al lavoro non era legata all’incentivo materiale costituito dalle assegnazioni in denaro o in natura, ma a tale proposito veniva attribuita un’importantissima funzione all’obbligo generale del lavoro, che veniva fatto rispettare con severi provvedimenti amministrativi. Tutto ciò corrispondeva pienamente all’immagine del futuro contenuta in Stato e rivoluzione, che prevedeva la realizzazione pratica della concezione marxiana della gestione centrale della forza-lavoro:
Ogni membro della società – scrive Lenin – eseguendo una certa parte del lavoro socialmente necessario, riceve dalla società uno scontrino
da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro. Con questo scontrino egli ritira dai magazzini pubblici di oggetti di consumo una corrispondente
quantità di prodotti.
da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro. Con questo scontrino egli ritira dai magazzini pubblici di oggetti di consumo una corrispondente
quantità di prodotti.
Il potere sovietico inoltre adottò una serie di provvedimenti che possiamo considerare, analogamente ai precedenti, come legati all’idea di un’accelerazione della transizione al comunismo. Essi sono i seguenti: il servizio postale gratuito, la distribuzione di pasti gratuiti per le fabbriche delle città, l’assegnazione di abiti gratuiti per i bambini delle scuole, ecc. naturalmente contribuì a che si prendessero provvedimenti del genere anche un certo stato di necessità creato dalla guerra, ma non è difficile dimostrare che essi sono parte integrante di una concezione mirante alla rapida transizione a un’economia naturale.
Nella stessa direzione procedeva anche la conformazione dei rapporti agrari. Il potere sovietico all’inizio tentò di rafforzare i rapporti di scambio fra città e campagna, fra agricoltura e industria, ma quasi esclusivamente senza servirsi del denaro. Tuttavia il potere sovietico non disponeva di un volume di merci sufficiente all’ampliamento dei rapporti di scambio e fu così costretto a confiscare ai contadini l’eccedenza della produzione, e ciò venne attuato con sempre maggiore rigore a causa della crescente mancanza di viveri. In conseguenza di ciò aumentò sì il raccolto del grano, ma ancora nel 1920 esso non raggiungeva il livello dell’anno precedente la rivoluzione, livello che il sistema di consegna introdotto dallo zarismo nel corso dell’economia di guerra, era riuscito ad assicurare alla distribuzione centrale. Contemporaneamente all’introduzione del prelievo senza compenso delle eccedenze, si stigmatizzò la circolazione dei prodotti agricoli sul mercato libero e la si limitò con severi provvedimenti amministrativi. “Il contadino – dice Lenin all’assemblea dei militanti dell’organizzazione moscovita del partito comunista russo – essendo un piccolo padrone, è per sua natura incline al libero commercio, che noi consideriamo un reato”.
Il sistema di gestione economica denominato comunismo di guerra può essere dunque considerato come un grandioso tentativo sociale di creare nel breve periodo un ordinamento sociale i cui lineamenti si sviluppano all’interno dell’immagine del futuro del marxismo, o almeno della sua corrente bolscevica russa, e come, il risultato della situazione pratica di forza maggiore creatasi in seguito alla pressione dell’economia di guerra.
4. Sindacati e Stato proletario.
Alla fine del 1920 giungono a termine contemporaneamente due processi che negli anni successivi alla rivoluzione d’Ottobre avevano fortemente determinato il carattere delle risposte date al problema dell’organizzazione sociale: la guerra civile termina con la vittoria dell’Armata rossa che controlla tutto il territorio del paese; Denikin si rifugia all’estero in marzo, Vrangel in novembre; le rivoluzioni europee quasi senza eccezione “si spengono” e i partiti comunisti devono riconoscere che almeno per il momento – non c’è da aspettarsi lo scoppio della rivoluzione mondiale. La deliberazione del III Congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi tra il 22 giugno e il 12 luglio 1921, constata ormai che
la potente ondata che ha fatto seguito alla guerra non ha spazzato via il capitalismo mondiale e neppure quello europeo … La guerra non è terminata immediatamente con la rivoluzione proletaria. E la borghesia può con un certo diritto registrare questo fatto come una sua vittoria.
Tutto ciò rese possibile lo sviluppo delle polemiche intorno alla scelta alternativa. E non è casuale che esso prendesse l’avvio dal protrarsi della polemica sui sindacati, giacché proprio questo sistema istituzionale era separato nel modo più palese dallo stato proletario.
Subito dopo la rivoluzione i sindacati avevano svolto ancora una funzione molto rilevante nella creazione della “dittatura economica del proletariato”. Allora le forme istituzionalizzate della direzione dei sindacati e la vita economica non si erano ancora separate né organizzativamente, né funzionalmente. Lenin in occasione del II Congresso dei sindacati, tenuto nel 1919, affermava ancora:
La statizzazione dei sindacati è inevitabile, la loro fusione con gli organi dello Stato è inevitabile, il trasferimento dell’intera edificazione della grande produzione nelle loro mani è inevitabile. (Rapporto al II Congresso dei sindacati di tutta la Russia)
In quel periodo – come dimostra questa citazione – la teoria non aveva ancora preso atto della contraddizione tra la “statizzazione dei sindacati” e la “sindacalizzazione dello Stato”, e questo perché non si erano ancora formate quelle istituzioni, i cui dirigenti e membri sarebbero stati legati all’una o all’altra soluzione dal loro modo di vedere improntato ai propri interessi e funzioni particolari.
Tuttavia alla fine del 1919 e soprattutto all’inizio dell’anno successivo riscontriamo segni sempre più evidenti della separazione tra l’organizzazione direzionale statale e i sindacati e non solo riguardo alle forme istituzionali, ma anche nella vita ideologica. Da un lato prese forma la concezione direzionale burocratica, detta poi glavkismo, che esigeva per la direzione statale un potere illimitato e indiviso, dall’altro, invece, nei sindacati acquistavano terreno modi di vedere che rivelavano un influsso della teoria anarco-sindacalista (in quei tempi lo stesso anarchismo prese fora nella vita politica e intellettuale sovietica).
Nella nuova situazione così formatasi il rapporto tra lo Stato e i sindacali si impostò in modo nuovo; ciò che fino ad allora era sembrato conciliabile ora molto rapidamente prendeva forma in due tesi contrapposte:
a) L’indipendenza dei sindacati nello Stato proletario non può essere ammessa; bisogna quindi partire dal presupposto che lo Stato è l’organizzazione rivoluzionaria della classe operaia e che, separati da esso, possono esistere soltanto interessi e movimenti controrivoluzionari o almeno conservatori.
b) Anche nello Stato sovietico, come in ogni Stato, si formano apparati direttivi specializzati e separati dai produttori immediati; se non si esercita sulla loro attività un’efficace vigilanza operaia, essi possono diventare delle “escrescenze burocratiche”, dei “pericolosi bubboni” sul corpo della società sovietica; bisogna quindi porre lo Stato sotto la direzione immediata dei sindacati.
Il rappresentante più autentico della prima concezione è Trockij; il capo dell’opposizione operaia, Sljapnikov, è il rappresentante più autentico della seconda. Trockij partiva dal presupposto che i sindacati, dopo la rivoluzione, si erano trovati in una situazione di crisi, che non era dovuta a una difficoltà di crescita, come molti sostenevano, ma a un’“agonia”, dovuta al fatto che avevano perso le loro antiche funzioni. Su questo stesso presupposto si basavano proposte come quella secondo cui i sindacati sarebbero dovuti scomparire e i loro compiti essere trasferiti alle istituzioni statali, che operavano con un’efficacia superiore alla loro. Nonostante la sua acuta e risoluta analisi della situazione, Trockij non si spingeva tanto oltre, ma partiva dal presupposto che i sindacati nello Stato proletario non potevano svolgere altra funzione se non quella stessa dello Stato; il sindacato degli operai metallurgici ad esempio doveva risolvere gli stessi problemi della Direzione generale dell’industria metallurgica e doveva servirsi degli stessi specialisti. Pur insistendo nel non considerare essenziale la “statizzazione” formale dei sindacati, esigeva che i sindacati, cambiando quella che era stata fino allora la loro funzione, diventassero effettivamente organi statali, tali da abbracciare tutta l’industria e da essere responsabili sia della produzione, sia dei produttori. Più tardi il programma redatto in comune da Trockij e da Bucharin sottolineerà lo stesso concetto, e cioè non tanto la statizzazione dei sindacati, quanto la fusione dei due sistemi organizzativi.
Sulla formazione di questa concezione di Trockij influivano anzitutto le esperienze da lui fatte in qualità di comandante dell’Armata rossa. Su questa base già al IX Congresso del partito aveva sollevato la questione della necessità della militarizzazione dell’organizzazione produttiva, attaccando duramente Smirnov che – richiamandosi non da ultimo al ruolo dei sindacati – ne metteva il dubbio l’opportunità. In Trockij dunque la negazione di un ruolo dei sindacati indipendente dalla direzione statale è parte di una concezione chiusa e ciò è attestato dal fatto che già a quel tempo egli sottolineava l’importanza del piano economico unitario, rimproverando al Consiglio supremo dell’economia nazionale di non dedicare ad esso l’attenzione dovuta. Parlando poi della responsabilità individuale, proponeva che alle mansioni esecutive fossero assegnati con maggiore risolutezza tecnici specializzati. Il suo punto di vista di conseguenza è improntato al centrodirigismo statale, nel quale, per definizione, non possono trovare posto i sindacati, ovvero lo possono solo nel caso che siano completamente amalgamati con le diverse istanze della direzione statale dell’economia.
In antitesi a queste posizioni, la piattaforma dell’opposizione operaia si appoggiava nella sua formulazione al programma del partito; questo proclamava infatti che la direzione dell’industria doveva passare a ogni livello nelle mani dei sindacati. La frase, tanto spesso citata nel corso della polemica, suonava così: “I sindacati debbono giungere a concentrare effettivamente nelle loro mani la gestione di tutta l’economia nazionale, considerata come un unico complesso economico”. (Il Congresso dei minatori di tutta la Russia)
Quando ebbe inizio la polemica sui sindacati questo programma era ancora in vigore e così quanti contrastavano l’opposizione operaia non potevano mettere in dubbio la giustezza di questo obiettivo. Lozovskij, ad esempio, rimproverava ad essa soltanto il fatto di avere considerato questo punto del programma come un compito tattico da mettere subito in pratica e non come un fine strategico, cioè di non avere preso in considerazione le circostanze concrete del 1920.
L’opposizione operaia tuttavia, in base alle proprie esperienze, giudicava la situazione tale che molti avevano ormai abbandonato quel punto del programma anche come obiettivo strategico; in effetti, di giorno in giorno, essa poteva sperimentare come crescessero e si moltiplicassero sopra di essa le istanze della direzione economica, le quali a poco a poco non solo si sottraevano al suo controllo, ma accettavano solo a malincuore i suoi consigli e le sue proposte di aiuto. La critica dell’opposizione operaia divenne sempre più acuta nei confronti degli organi statali preposti alla direzione dell’economia, considerati come organismi essenzialmente burocratici.
La vittoria sulla distribuzione sarà possibile e realizzabile – scriveva Sljapnikov – e le forze produttive potranno essere restaurate e fatte crescere solo se si realizzerà un mutamento radicale, che raggiunga l’essenza delle cose, nel sistema, nelle organizzazioni attuali e nella direzione dell’economia nazionale della Repubblica, che si appoggiano su un potente meccanismo burocratico da cui vengono represse l’autonomia dei produttori organizzati e l’iniziativa creatrice.
I rappresentanti dell’opposizione operaia richiedevano incessantemente che il partito confidasse di più nelle masse operaie, facendo assegnamento in maggior misura sulle loro proposte e sulle loro iniziative. A questa argomentazione si replicava che la classe operaia non era ormai più quella di un tempo, perché dei suoi migliori componenti che avevano partecipato alla guerra civile, molti erano morti, e i superstiti costituivano la spina dorsale delle istituzione del partito e dello Stato. Nello stesso tempo, in conseguenza dell’obbligo generale del lavoro, erano affluiti nelle fabbriche i più diversi elementi non operai, spesso per sottrarsi all’obbligo del servizio militare. Questi fatti erano difficilmente confutabili, ma non giustificavano il fatto che nell’ideologia il concetto di classe operaia, come generalizzazione concreta, si trasformasse in una generalizzazione sempre più astratta.
L’opposizione operaia non sviluppò un’immagine del futuro più precisa; la sua piattaforma politica si limitava in gran parte a fini tattici. Da quel poco che nei suoi scritti rimanda a concezioni connesse a un futuro più lontano, scaturisce una prospettiva che si rifà alla tendenza inarco-sindacalista. In base ad essa la società ideale si costruisce sulle unità autodirette dei lavoratori liberamente associati. Il suo sistema, organizzato “nel modo più semplice”, si fonda sulla valutazione statistica di tipo naturale – e quindi non espressa in denaro – dei bisogni e delle capacità produttive; le funzioni della distribuzione invece che allo Stato spetterebbero a un sistema istituzionale basato sui sindacati organizzati per categorie (il che corrispondeva sostanzialmente ai cartelli di categoria dell’anarco-sindacalismo) e sulle associazioni dei sindacati organizzati per rami di produzione (che avrebbero avuto sostanzialmente la stessa funzione delle federazioni di cartelli per rami della produzione.
Contro l’opposizione operaia si sente spesso ripetere l’accusa che essa avrebbe voluto affidare la guida dei vari rami dell’industria – le direzioni generali dell’industria e i centri dell’industria – alla massa degli operai esterni al partito, sparsi nei vari rami della produzione. Ciò forse è vero per quel che riguarda le sue concezioni relative al futuro più lontano – cosa che del resto non costituì mai l’oggetto della polemica – ma riguardo al futuro immediato essa non rivendicava il diritto di controllo economico per le masse, bensì per il sistema istituzionale – più o meno altrettanto burocratizzato – dei sindacati, giacché interveniva soprattutto come loro rappresentante.
Accanto ai due gruppi rigidamente contrapposti prese forma anche una terza importante piattaforma – che in ultima analisi risultò vincente – e che recava anzitutto l’impronta del nome di Lenin. Questi, che – come abbiamo visto – immediatamente dopo la rivoluzione di Ottobre si era pronunciato per la rapida fusione dei due sistemi istituzionali sindacale e statale, all’inizio del 1920, a differenza di Trockij, invitava ormai alla prudenza su tale questione. Secondo Lozovskij, Lenin già allora aveva scorto l’inevitabilità del periodo della Nep e si rendeva conto del fatto che se i sindacati si fossero assunti il peso e la responsabilità della direzione dell’economia, avrebbero cessato di essere sindacati, mentre i lavoratori, prima o poi, avrebbero dovuto darsi nuove organizzazioni di categoria. In quel periodo ormai evidente per lui che “c’è tutto un complesso sistema di ingranaggi, … non può esserci un sistema semplice” (I sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotsky), e proprio per questo, a suo parere, non si dovevano fondere le istituzioni statali con quelle sindacali, ma – conservando la loro indipendenza – era necessario sviluppare una giusta divisione del lavoro tra di esse.
Questo è quanto è enunciato nella piattaforma dei “dieci”, tra i cui autori troviamo, accanto a Lenin, Zinov’ev, Kamenev, Kalinin e Stalin; tale piattaforma partiva anzitutto dal problema di come fosse possibile garantire nel modo più efficace l’influenza dei comunisti, il che voleva ormai dire il ruolo direttivo di un partito che disponeva di propri apparati e che si era già trasformato in un sistema istituzionale. In polemica con Trockij, si affermava che i sindacati non erano in crisi, anzi si poteva dimostrare un loro deciso incremento sulla base della crescita del numero degli iscritti; al tempo stesso, però, non si metteva in dubbio che i sindacati, rispetto alle esigenze, fossero ancora deboli. Contro la posizione di Trockij, si osservava che “i sindacati devono restare la scuola del comunismo, gli organizzatori delle masse e assolutamente non devono diventare degli organi statali in senso stretto”. Nei sindacati “devono poter entrare operai che professano opinioni diverse e pensano in modo diverso, iscritti al partito e non iscritti al partito, che sanno scrivere e che non sanno scrivere, credenti e non credenti, ecc.”. La piattaforma riconosceva anche che i sindacati dovevano assumere sempre più funzioni statali, ma non dovevano tuttavia, a causa di queste, rinunciare alla loro indipendenza e alla loro forma di organizzazione di massa. Il loro compito principale continuava a essere quello dell’educazione delle masse al fine di sostenere la dittatura proletaria.
Quando queste tre piattaforme – e accanto ad esse un’altra mezza dozzina di meno importanti – vennero formulate, la direzione del partito prese posizione per il più ampio democratismo interno. Il 21 febbraio 1921 uscì la deliberazione del Comitato centrale che sottolineava l’importanza della “piena libertà di polemica”, in quanto “qualsiasi organizzazione di partito, qualunque sia la sua posizione nelle questioni dibattute, può difendere ed esprimere le sue posizioni davanti al partito, sui giornali, inviando dei relatori, scambiando dei relatori, ecc.”.
L’epoca delle libere polemiche non durò a lungo, ma l’alto livello e la maturità raggiunti nella formulazione delle varie alternative testimonia del fatto che la rivoluzione sovietica disponeva di una straordinaria forza intellettuale. La rivolta di Kronstadt e l’insoddisfazione dei contadini, che in diversi luoghi sfociò in insurrezioni armate, aprirono al riguardo una nuova epoca, in cui l’unità senza opposizioni del partito divenne un’esigenza sempre più unanime e primaria. Ma ciò si realizzò solo a gradi. Il X Congresso – che si tenne nel periodo della rivolta di Kronstadt – nella sua deliberazione attacca risolutamente le frazioni e le proibisce, ma al tempo stesso constata che “è assolutamente necessaria la critica alle carenze del partito, come pure ogni sorta di analisi della linea generale del partito e che al fine di favorire ciò vengano pubblicati degli “scritti di polemica”.
In quella data situazione storica, tuttavia, la concezione dell’opposizione operaia era in ogni modo condannata al fallimento. Per uscire da una situazione economica e politica estremamente grave fu necessario rafforzare l’apparato statale, e quasi a qualunque prezzo. Questa era la via più veloce e più a portata di mano che si offriva. Allora, tuttavia, tale necessità scaturiva ancora dalla povertà e dalla carestia e non da una determinata forma dell’accumulazione primaria del capitale, che verrà in primo piano solo alcuni anni più tardi, e che allora favorirà di nuovo solo il rafforzamento dello Stato. Inoltre il passaggio della gestione dell’economia ai sindacati avrebbe minacciato il rafforzamento del ruolo direttivo esercitato dal partito sopra un meccanismo statale che assumeva funzioni sempre più numerose e un potere sempre maggiore, il che in pratica avrebbe significato che il partito comunista avrebbe potuto dirigere gli apparati statali o quelli economici solo con la mediazione di un altro sistema istituzionale.
La deliberazione del X Congresso constata all’unanimità che “bisogna trasformare gradatamente i sindacati in organi ausiliari dello Stato proletario e non si deve procedere in senso inverso”. La deliberazione del Comitato centrale del partito del gennaio 1922 conclude la polemica sui sindacati, separando nettamente il sistema istituzionale dello Stato da quello dei sindacati. Da un lato afferma che “qualsiasi genere di intervento diretto da parte dei sindacati nella direzione delle imprese … va considerato dannoso e inammissibile”: se la deliberazione elenca poi minuziosamente le principali forme di partecipazione indiretta dei sindacati, gran parte di esse consiste solo nell’appoggio alle attività economiche direzionali di cui ormai erano responsabili singole persone. Dall’altro lato invece, per influsso della Nep ormai in formazione, essa afferma che
i sindacati devono assumersi l’obbligo di difendere l’interesse dei lavoratori e, per quanto è possibile, aiutarli ad accrescere il loro benessere materiale, correggendo gli errori e gli eccessi egli organi economici, che possono derivare dalla deformazione burocratica dell’apparato statale.
Gli stessi autori della deliberazione riconoscono la contraddittorietà della posizione dei sindacati e ne ritengono possibile il superamento solo “con il passare di molti decenni”. Sono convinti che da un lato il loro compito principale consiste nella difesa dell’interesse delle masse lavoratrici, nel senso più ristretto e immediato del termine; dall’altro essi non possono negare la loro partecipazione all’oppressione, in quanto condividono il potere dello stato e sono i costruttori dell’intera economia nazionale.
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