* Da: Automazione e disoccupazione tecnologica http://contropiano.org/ (Relazione
di Francesco Piccioni al Forum “il piano inclinato degli imperialismi”,
organizzato dalla Rete dei Comunisti a Bologna il 7 marzo 2015)
I primi tre articoli:
http://contropiano.org/documenti/2017/01/15/automazione-disoccupazione-tecnologica-divario-
I cento anni più veloci della Storia
A 100 anni quasi esatti dall’Imperialismo di
Lenin un aggiornamento, anche a livello delle categorie, appare necessario, ma
decisamente non facile. Lo chiede la realtà che abbiamo di fronte, che riesce
sempre più difficile descrivere nei soliti modi. Bisogna ricordare, infatti,
che la dialettica materialistica non è per nulla una
particolare griglia di lettura da sovrapporre ai dati empirici, ma è interna
alla cosa stessa. Va insomma riconosciuta nel suo tratto
fondamentale per cogliere ciò che – nella trasformazione continua – resta
stabile e ciò che invece svanisce. Vale il paragone con le leggi che regolano
la fisiologia umana: sono in linea generale decisamente stabili, ma cambia
molto – soprattutto nella pratica quotidiana – se l’organismo si trova più
vicino alla nascita oppure alla morte.
Al tempo de L’imperialismo erano passati
appena trenta anni dalla morte di Marx, caratterizzati dalla stagnazione e poi
dalla crisi della prima globalizzazione, e già Lenin individuava –
sulla scia di altri studi contemporanei – una forma capitalistica decisamente
“nuova”, tale da cambiare molti parametri decisivi per la lotta di classe e soprattutto per la lotta politica rivoluzionaria.
Difficile pensare che i 100 anni più veloci della storia
dell’umanità siano trascorsi senza effetti tali da dover essere riconosciuti
anche su piano teorico. Eppure i marxismi del ‘900 sono stati particolarmente
immobili su questo fronte – sostanzialmente fermi alle dinamiche descritte dal
primo libro de Il Capitale e inchiodati alla necessità di
giustificare teoricamente le scelte tattiche dei diversi partiti comunisti –
lasciando alla fin fine il compito dell’innovazione ad avventurieri del
pensiero, eretici di assai diversa onorabilità, pezzenti a caccia di abiti
rubati.
Ma da quale punto di osservazione si deve procedere?
Si parte sempre dal ricordare, giustamente, che imperialismo
è una fase di sviluppo del capitalismo, e non ha nulla a che vedere
con l’“aggressività militare”delle potenze capitalistiche (anche se,
certamente, contribuisce a “eccitarla”, specie in periodi di crisi come
l’attuale). Questo significa che una fase è a sua volta fatta di passaggi, di
transizioni, in cui emergono sul proscenio figure del capitale
che prima esistevano solo come potenzialità interna, mentre configurazioni che
sembravano perenni decadono lasciando il posto alle successive.
Rispetto ad allora abbiamo di fronte almeno due
differenziazioni forti. La prima, evidente già da quaranta anni, è la ridotta
forza degli Stati davanti a conglomerati imprenditoriali di dimensioni globali.
Anche gli Stati Uniti, per dire lo Stato apparentemente più forte,
intrattengono un rapporto ambivalente con le multinazionali “basate” o
originarie di quel paese; ed è difficile dire fin dove “lo Stato” imponga le
sue regole (per esempio: fiscali) e fin dove invece subisca le “pressioni”
delle multinazionali, o meglio fin dove ne assecondi i desiderata.
La stessa Unione Europea, di là della retorica, appare come una costruzione
funzionale a fare dell’area una “riserva di caccia” dei capitali più forti, con
notevoli ambizioni nella competizione globale.
Molti paesi, invece, la quasi totalità, non possiedono più
strumenti con cui “normalizzare” l’operare di gruppi industriali o finanziari
che arrivano, chiedono, investono e disinvestono a proprio totale arbitrio.
Basterà ricordare che uno solo di questi finanzieri globali, George Soros, ha
per esempio ammesso di aver sborsato cinque miliardi per il golpe in Ucraina.
Ed è stata una cifra sufficiente a raggiungere il risultato.
La seconda differenza è ancora più evidente, ma non molto
inquadrata a livello teorico – se non per apodittiche “svolte epocali” sempre
fumose e molto malleabili – per quanto riguarda l’impatto che ha lo sviluppo
tecnologico sul piano concreto, ovvero su come la tecnologia
incide sulla situazione materiale, sui profitti, sulla composizione e
l’autopercezione delle classi (e soprattutto del lavoro dipendente), sulla dimensione delle
figure sociali che ne risultano, sulla dinamica stessa del conflitto di classe.
Eppure bastano poche notizie spot per cogliere la portata di
un rovesciamento – questo sì “epocale” – di prospettiva.
Non è semplice addentrarsi nell’analisi globale di questa
dinamica, poiché i dati sono spesso dispersi o aggregati su base nazionale
oppure ancora per singoli settori; comunque a distanza temporale considerevole
dall’inizio dei processi. Le note che seguono sono dunque alquanto
“impressionistiche”, con poche cifre. Ma mi sembrano sufficienti ad aprire un filone
di ricerca senza il quale è difficile procedere alla costruzione di un blocco
sociale adeguato alla visione e alla dimensione dell’avversario.
Sul piano della tecnologia produttiva,
appunto, 100 anni fa Henry Ford aveva da pochissimo (1908) ingegnerizzato la
sua prima catena di montaggio, rendendo finalmente tangibile per tutti il
concetto marxiano di «sussunzione del lavoro al capitale». Era il lavoro
manuale, l’unico serializzabile ai tempi, quando le concentrazioni umane con a
disposizione energia elettrica e caldaie a vapore erano alquanto rare sul
pianeta, la rivoluzione industriale fondata sul petrolio metteva appena le sue
basi, la produzione di beni durevoli di consumo per un pubblico di massa era
limitata a ben poca roba, ancora grande era il ruolo della produzione
artigianale, delle “cose fatte a mano”.
Ford aveva però messo a punto il concetto fondamentale del
capitalismo novecentesco, nonché il meccanismo produttivo capace di renderlo
realtà quotidiana “normale”: produrre merci che potevano essere
acquistate dall’operaio che le produceva. Non solo per il rapporto tra
prezzo e quantità di reddito, ma anche come rafforzamento del legame reciproco
tra impresa e classe operaia all’interno di un determinato territorio chiamato nazione.
Lo sviluppo tecnologico era dunque strettamente legato all’immagine di un paese
particolare, era un suo elemento propulsivo, il collante di una popolazione, la
giustificazione delle sue pretese egemoniche.
L’immagine delle prime catene “fordiste” è però rimasta
nella storia, per esempio del cinema, anche per altre ragioni: esse
introducevano per la prima volta la possibilità di dare al processo di
produzione un ritmo totalmente inumano, tale da distruggere
fisicamente la forza lavoro degli uomini messi alla catena. Diventavano esempi
di dove poteva arrivare lo sfruttamento capitalistico, andavano a costituire
pezzi d’immaginario anticapitalista, ma erano tutto sommato indicativi di
settori particolari, di “pezzi di mondo” da cui si poteva restar lontani oppure
in cui tentare di infilarsi per scatenare conflitto. Il “fuori” da quei mondi
era comunque infinitamente più grande. Quasi confortevole.
Oggi abbiamo – già da alcuni anni, peraltro – catene di
montaggio che prescindono quasi completamente dal lavoro umano, ridotto a mera
funzione di controllo a monte e a valle, o di eventuali blocchi e guasti.
Proprio nel settore automobilistico – merce-pivot dello sviluppo industriale
del ‘900 – questo sviluppo appare quasi una precondizione perché i produttori
possano “competere”. Come spiegava Sergio Marchionne nel 2009, ancora prima di
adottare il modello Pomigliano, “il costo del lavoro rappresenta
ormai il 5-6% dei costi industriali”. Come dire che non incideva già quasi per
nulla sul fatturato, che comprimerlo era in fondo questione marginale. Come si
è visto, ciò non significava escludere che si potessero adottare strategie
industriali miranti a ridurlo ancora, magari solo per ottenere una manodopera
più “addomesticata”.
Diciamo che oggi si può produrre un numero infinitamente
superiore di automobili, ma gli operai necessari sono infinitamente meno. Il
limite assoluto di questa tendenza – produrre merci senza operai,
destinate a un pubblico generico e senza alcuna connotazione, né sociale né
nazionale, anonimo – è già realtà in alcuni segmenti della
filiera produttiva (nel caso dell’automobile: in carrozzeria, verniciatura,
presse). Il legame circolare produttore-lavoratore-consumatore è
definitivamente rotto con riferimento a un territorio comunque
esteso.
Girano molte immagini, ormai, di queste catene di montaggio
totalmente automatizzate (INSERIRE foto della Kia Motors di Zelina, in
Slovacchia). Ma forse è ancora più indicativa la dichiarazione fatta nello
scorso ottobre dal capo del personale della Volkswagen, Horst Neumann: «Nei
prossimi 15 anni andranno in pensione 32mila persone; non verranno rimpiazzate».
Un robot fa lo stesso lavoro, con maggiore precisione, a velocità superiore,
non si stanca, non protesta, non sciopera. Al massimo si rompe, ma questo
accade assai più spesso all’essere umano. Soprattutto costa meno.
«Nell’industria automobilistica tedesca il costo del lavoro è superiore ai 40
euro all’ora, nell’Europa dell’est sono 11, in Cina 10», scrive Neumann. «Oggi
il costo di un sostituto meccanico per lavori di routine in fabbrica si aggira
intorno ai cinque euro. E con la nuova generazione di robot diventerà
presumibilmente ancora più economico. Dobbiamo essere in grado di
sfruttare questo vantaggio economico».
Altro esempio: alla Elektronikwerke Siemens di Amberg, in
Boemia, le catene di montaggio scorrono all’interno di teche di vetro, al
riparo da polvere e altri “accidenti” fortuiti, per stampare centraline di
controllo utilizzate poi per guidare altri processi produttivi automatizzati,
compreso quello della stessa Elektronikwerke. Dalle linee escono 50.000 pezzi
al giorno, 12 milioni l’anno, grazie a pochissimi lavoratori in camice, quasi
tutti ingegneri, che lavorano usando AutoCad al computer. Le centraline,
infatti, possono essere personalizzate sulle necessità del cliente e sul tipo
di processo produttivo, agendo su un numero non infinito di parametri già
previsti e programmati. E va tenuto nel debito conto il fatto che questi
milioni di pezzi sono il cuore del controllo automatico su altrettante linee di
montaggio, impacchettamento, trasporto. L’indice di errore, con questo tipo di
linea produttiva, è stato ridotto da 500 a 11 casi per milione di operazioni.
Il lavoro umano è qui ristretto alle funzioni di progettazione e controllo,
oppure amministrazione e marketing.
I tecnici elettronici di 50 anni fa, nello stesso tipo di
fabbriche, maneggiavano transistor delle dimensioni di un ragno, ne saldavano
le “zampe” a circuiti stampati dal disegno visibile ed elementare. Oggi se ne
stampano alcune decine di milioni su chip delle dimensioni di un centimetro o
anche meno. A ogni salto in avanti dimensionale – di transistor per millimetro
– basta cambiare la macchina.
Potremmo andare avanti a lungo, ma questi casi bastano a
tracciare le linee fondamentali: il “vantaggio economico” spinge l’automazione
dei processi produttivi, l’aumento della capacità di output quotidiana,
l’eliminazione di lavoro umano. Si possono produrre miliardi di pezzi di
qualsiasi tipo con poco o nulla personale. Ma la riduzione generalizzata e universale
del personale riduce al contempo anche la massa dei candidati acquirenti di
quelle merci. È inutile però chiedere conto al singolo imprenditore di questa
contraddizione sistemica: per lui “il mercato” sono tutti gli altri fuori dalla
sua linea produttiva. È insomma un presupposto dato, non il risultato di una
evoluzione che dipende anche da lui. È il punto di vista del singolo capitale,
non del capitale.
Il limite teorico si vede già qui: si possono
produrre merci senza la forza lavoro umana, ma le merci vanno vendute su un
mercato fatto di esseri umani.
Henry Ford aveva risolto il problema di standardizzare la
prestazione lavorativa individuale su una media dettata dalla velocità della
macchina (quasi mai tirata oltre il limite costituito dalla fragilità della
forza lavoro umana, peraltro).
Il passo avanti epocale è stato fatto: l’uomo non
serve più in molte fasi della produzione fisica e ora anche intellettuale.
E’ ancora indispensabile, invece, ma in misura proporzionalmente sempre più
ridotta, per tutte le fasi a monte (progettazione, ingegnerizzazione, scrittura
di un software dedicato, ecc) e a valle (stoccaggio, packaging, distribuzione,
vendita, manutenzione, pubblicità). La velocità del ciclo produttivo, al tempo
del just in time, risente quasi soltanto dei tempi tecnici di
lavorazione semiautomatizzata di merci fisiche. Pesano di più, insomma, i
saliscendi della domanda, i tempi e le modalità di trasporto, che non i limiti
fisiologici dell’essere umano (compresa la sua residua capacità conflittuale).
Dal punto di vista marxiano non si nota alcuna grande novità
teorica: è la funzione del progresso tecnologico, ovvero dell’aumento
esponenziale e inarrestabile della composizione organica del
capitale. L’investimento viene speso in proporzione sempre
maggiore in direzione del capitale costante (macchine,
energia, materie prime e componenti semilavorati), sempre meno per assumere
lavoratori dipendenti (capitale variabile, asintoticamente
tendente a zero).
Si noti anche la conseguenza di questo processo
sull’estrazione di plusvalore per unità di prodotto: l’industria
più avanzata ne estrae sempre meno dai propri dipendenti, e il
saggio del profitto cala in modo pauroso. Solo lo scambio sui mercati – tra
merci prodotte da un capitale ad alta composizione organica e altri prodotti
con modalità tecnologiche più arretrate – fa sì che il plusvalore complessivo
estratto venga ripartito in modo squilibrato e asimmetrico anche tra
capitalisti, premiando le filiere produttive più efficienti, veloci, massive,
anche se meno produttive di plusvalore per unità di prodotto. L’esempio del
rapporto tra la Germania attuale i paesi dell’Unione Europea definiti Piigs
dovrebbe essere sufficiente.
Si noti, infine, anche la conseguenza occupazionale: sempre
meno lavoratori dipendenti dalle grandi imprese in proporzione al capitale
investito e al profitto ricavato.
Quel che cambia, dunque, non è la formulazione astratta, ma
il fatto che oggi ci troviamo non all’inizio del suo operare nella realtà, ma
molto più vicini al punto limite; oltre l’eliminazione della
forza lavoro umana, infatti, c’è solo la “semplificazione” interna al sistema
della macchine, ma a quel punto la formula della composizione organica dà
sempre lo stesso risultato, visto che dal lato del capitale variabile c’è
sempre uno zero o una cifra tendente a zero.
Non tutti i processi lavorativi sono automatizzabili,
certamente, e quindi la forza lavoro umana sarà ancora ampiamente usata in
molti settori “ancillari” rispetto alla produzione di merci. Ma quelli che non
lo sono – a parte le operazioni “creative”, sul piano scientifico o artistico –
spesso sono anche economicamente non serializzabili (quasi
tutto il settore della ricezione turistica, la sanità, ecc).
Ciò che va tenuto d’occhio e indagato è dunque la dimensione su
cui questi concetti si esercitano. E, ricordiamo sempre, dal punto di vista
della dialettica materialistica la quantità si
trasforma in qualità, e viceversa. Non è insomma vero che,
se passiamo da cento casi a dieci miliardi, “praticamente non cambia niente”.
Se ti si avvicina un cane randagio gli lanci un pezzo di pane e quello
scodinzola contento. Se se ne avvicinano cinquanta, è meglio che tu abbia un
albero robusto su cui arrampicarti…
Informatica, comunicazione, automazione
Questa è insomma l’origine della “disoccupazione
tecnologica”, una costante del procedere del capitale che generò a suo tempo
addirittura una corrente di pensiero operaio (il luddismo). Ma sappiamo anche
che il modo di produzione capitalistico ha più che compensato – nel corso
dell’ultimo secolo – questa relativa minor occupazione nella grande industria
sviluppando altri settori produttivi a getto continuo. La “seconda rivoluzione
industriale”, che ha sancito il passaggio a un’economia trainata
fondamentalmente dal petrolio anziché dal carbone (a far data da Henry Ford,
grosso modo), oltre che dalla chimica e dall’elettricità, ha cancellato milioni
di posti di lavoro, creandone però un numero enormemente più alto man
mano che il modo di produzione capitalistico conquistava nuove aree. Lo
stesso è accaduto con la meccanizzazione dell’agricoltura, a far data dal
secondo dopoguerra, che ha spinto o sta finendo di spingere miliardi di esseri
umani verso le città e altre occupazioni, spesso meno faticose e in media
meglio pagate.
I problemi veri sono iniziati con la terza
rivoluzione industriale, incentrata su comunicazioni e informatica.
Quest’ultima ha aperto la via alla rapida sussunzione
del lavoro intellettuale da parte delle macchine. Il che ha
bruciato anche la possibilità di creare nuovi lavori, perlomeno in una
dimensione sufficiente a coprire almeno le “perdite”.
Riassumiamo brevemente modalità e diffusione di questa sussunzione:
a) il lavoro intellettuale umano è scomponibile
essenzialmente secondo due modalità principali: 1) l’applicazione di procedure
già elaborate, grosso modo secondo lo schema dei processi deduttivi,
per l’affrontamento di problemi già noti e risolti e 2) la risoluzione di
problemi nuovi o irrisolti, con l’obiettivo di formulare nuove procedure
operative, secondo lo schema dei processi induttivi.
b) la stragrande maggioranza del lavoro intellettuale umano,
ovvero nella stragrande maggioranza degli esseri umani e comunque nella quasi
totalità delle operazioni intellettuali quotidiane, è dedicata
all’apprendimento o applicazione di procedure già note (dal campo tecnologico a
quello amministrativo); un’area immensa che si estende man mano che il
progresso scientifico (compresa ovviamente la “scienza dell’organizzazione”)
risolve nuovi problemi o elabora soluzioni migliori di quelle già note.
c) la totalità delle operazioni di
applicazione di procedure può essere ridotta ad algoritmi di qualsiasi
complessità in base a tre sole operazioni logiche: sequenza,
iterazione, selezione; in altri termini a istruzioni basate su un
ordine successivo di operazioni (sequenza), ripetute fino al raggiungimento di
un obiettivo x (iterazione), con scelte predeterminate delle strade da prendere
in presenza di certe condizioni (“se… allora…”).
d) la scrittura di algoritmi basati su queste tre operazioni
costituisce tutto il lavoro dell’informatica.
e) ogni attività seriale – sia di
tipo classicamente industriale, sia nel lavoro una volta detto “di concetto”
(impiegatizio, amministrativo, ecc) è stata negli ultimi 30 anni riscritta
dalle applicazioni informatiche; e il processo non è affatto concluso (si pensi
a quante decine di milioni di dipendenti pubblici potranno essere sostituiti in
tutto il mondo una volta che l’informatizzazione delle pubbliche
amministrazioni sarà effettivamente completata, con la messa al lavoro di una
(frazione minima di) generazione “nativa digitale”, senza dunque problemi di
adattamento a modalità di lavoro del tutto informatizzate.
f) ogni attività lavorativa, dunque, ha
visto drasticamente ridotta la quantità
di lavoro umano per unità di prodotto, incrementando quindi i livelli
di disoccupazione per ragioni tecnologiche.
Altrettanto centrale è stato lo sviluppo delle tecnologie
della comunicazione, strettamente interconnessa peraltro con
lo sviluppo informatico per quanto riguarda l’evoluzione dell’automazione.
Questo sviluppo è andato in almeno due direzioni fondamentali, con corollari
interessanti:
a) centralizzazione e secretazione delle
tecnologie top di gamma e delle modalità stesse con cui vengono sviluppate. Per
un lato, si tratta di una evoluzione “normale” nella storia del capitalismo,
visto che la dimensione minima degli investimenti nel settore cresce in modo
esponenziale di anno in anno (non sembra un caso – ad esempio – che gli unici
sfidanti credibili per i big della telefonia mobile, Apple e Samsung, siano
aziende cinesi come Xiaomi e Huawei, mentre ex primedonne come Nokia e Motorola
hanno perso persino la visibilità del marchio, assorbite rispettivamente da due
software house come Microsoft e Google). Per quanto riguarda invece la
secretazione, non si tratta soltanto della normale “difesa dei brevetti dallo
spionaggio industriale”, ma di una vera e propria sottrazione militare delle
conoscenze fondamentali alla disponibilità persino delle università. Per
capirci, sempre più spesso docenti universitari in materie tecnologicamente
rilevanti, di frontiera, sperimentali, ecc, vengono “sussunti” dal Pentagono
(negli Usa) e da organismi equivalenti in altri paesi.
b) la diffusione universale dei device e
dei linguaggi relativi ha creato una palesemente falsa percezione di “autonomia
e padroneggiamento” delle tecnologie proprio quando invece si è stati ridotti
sotto controllo totale, 24 ore su 24, sia nei contenuti delle nostre
comunicazioni che negli spostamenti, fino al nostro stesso modo di ragionare.
In una parola: quanto più gli strumenti tecnologici sono il
risultato prodotto da un investimento scientifico e finanziario di alto
profilo, tanto meno “la massa” conosce i principi di funzionamento di ciò che
usa. E quindi ne viene usata. Ancora una volta possiamo far
venire in soccorso l’esempio automobilistico. Cinquant’anni fa un qualsiasi
guidatore possedeva anche un minimo di conoscenze meccaniche utili a trarlo
d’impaccio in caso di problemi; oggi siamo a un passo dall’“auto che si guida
da sola”, monitorata (controllata) per via di gps, centraline e sensori, col
passeggero – non più guidatore, a quel punto – che in caso di panne può solo
chiamare il soccorso. Anzi, neanche quello.
Il circuito interrotto
La tendenza alla sostituzione di lavoro umano con le
macchine non è mai stata affatto in contraddizione con il dato empirico per cui
gli addetti all’industria aumentavano. Localmente si potevano verificare crisi
occupazionali anche gravissime, mentre si metteva in moto il passaggio da una
modalità produttiva all’altra o la delocalizzazione da un territorio all’altro;
ma nel complesso del “mercato globale” l’occupazione andava aumentando.
Nell’arco dell’ultimo trentennio (dagli anni ‘80 all’inizio della crisi
finanziaria attuale) gli “attivi nell’industria” sono praticamente triplicati
(da 200 a 600 milioni circa). Una esplosione occupazionale “specificamente
capitalistica” che è stata resa possibile solo da un cataclisma geopolitico –
il crollo del “socialismo reale” – e quindi dalla messa a disposizione di quasi
due miliardi di esseri umani da tempo sottratti all’analfabetismo, quindi
“ri-occupabili” in tempi brevi, anche per funzioni produttive medio-elevate (e
fin lì non contabilizzati tra le “forze di lavoro” per conto del capitale). In
parte fenomeno reale, dunque, che ha prodotto un’esplosione nell’estrazione di
plusvalore assoluto e relativo, in parte “fenomeno statistico”, perché una
buona parte di questi neoindustrial workers erano già addetti
alla produzione, ma in un altro sistema andato distrutto come per effetto di
una guerra vera e propria. La distruzione creatrice ha quindi fatto rinviare di
un trentennio la resa dei conti tra il capitale e i suoi limiti interni e, per
la prima volta nella storia, anche esterni.
Una curiosità “culturale”: mentre avveniva questa epocale
trasformazione di centinaia di milioni di contadini o “operai socialisti” in
operai industriali nel capitalismo, qualcuno – qui da noi – teneva banco
parlando di scomparsa della classe operaia, interpretando la
diminuzione relativa alle nostre latitudini (dovuta in gran parte alla
delocalizzazione verso aree “emergenti”) come fenomeno universale.
Sono gli stessi che hanno capito al contrario la rivoluzione
informatica inventando la presunta centralità del “lavoro cognitivo” proprio
mentre questo veniva meccanizzato, frantumato, in definitiva “sussunto” per
tutta la sua componente non creativa.
Si potrebbe ironizzare sull’abbaglio perenne di questi
teorizzatori del mantra “il capitale lavora per noi, lasciamolo fare”, se non
ci toccasse constatare quanto abbiano contribuito a lobotomizzare le capacità e
le energie cognitive dei movimenti antagonisti degli ultimi trenta anni,
praticamente uccidendoli nella culla ogni qual volta ne appariva al proscenio
uno nuovo.
Più di trent’anni dopo, il combinato disposto tra
informatizzazione e comunicazione non conosce soste e supporta la spinta alla
più completa automazione della produzione, sia materiale che
virtuale o presuntamente “immateriale”. Ma sta disegnando un nuovo confine.
Quello tra quantità di forza lavoro presente in settori che diventano
tecnologicamente superati e quantità di forza lavoro occupabile in nuovi
settori.
Difficile dare cifre globali, converrà concentrarsi su
singoli studi che illustrano la dinamica in un ambiente tutto sommato
ristretto, come un paese avanzato e non avviato alla decadenza. Un recentissimo report,
relativo alla sola Gran Bretagna, è stato prodotto dall’università di Oxford e
dalla società Deloitte (http://www2.deloitte.com/uk/en/pages/press-releases/articles/deloitte-one-third-of-jobs-in-the-uk-at-risk-from-automation.html )
per dare al governo inglese scenari attendibili sul “fabbisogno formativo” nei
prossimi venti anni.
La Gran Bretagna è un paese relativamente fortunato, sul
piano occupazionale, visto che – con una popolazione complessiva pressoché
identica a quella italiana – può vantare 30 milioni di occupati contro i meno
di 22 milioni e mezzo del nostro paese. La previsione dello studio è abbastanza
semplice: per effetto dell’aumento dell’automazione in generale, nei prossimi
venti anni oltre 10 milioni di persone (35% degli attivi) vedrà svanire il suo
tipo di occupazione. Soltanto il 40% delle attuali occupazioni è considerato a
basso rischio (il 51% a Londra, per effetto della più grande piazza finanziaria
d’Europa). In compenso, già ora il 73% delle aziende prevede di aumentare
l’organico complessivo, visto che i progressi tecnologici richiedono nuove
competenze e grandi cambiamenti nel tipo di lavoro.
La domanda è in fondo semplice: il totale delle
nuove assunzioni può eguagliare il totale dei licenziamenti?
Lo studio si preoccupa di indicare quali competenze andranno
perdendo utilità (“lavori che richiedono servizi di lavorazione ripetitivi,
impiegatizi e di supporto”, ovvero “lavoro d’ufficio e in genere
amministrativo; vendite e servizi; trasporto; costruzione ed estrazione
mineraria o petrolifera; produzione in genere”). E individua alcune skills del
prossimo futuro, in modo da facilitare il governo inglese nella programmazione
dei sistemi formativi adeguati: “ruoli che richiedono competenze digitali,
gestione e capacità creative”.
Vaghi, eh? Necessariamente, bisogna ammettere, perché nella
loro descrizione dei cambiamenti produttivi è prevista una notevole rotazione delle
“professionalità” ricoperte nell’arco di una sola vita. Al punto che il tempo
indispensabile a formarsene una può essere tanto lungo da veder svanire nel
frattempo il settore di applicazione. Un esempio? Inutile apprendere come
fabbricare oggetti che presto saranno producibili con stampanti 3D, meglio
specializzarsi nella manutenzione delle stampanti stesse.
La domanda che ci punge la lingua è semplice: quanti posti
di lavoro sono effettivamente creabili in questi settori "completamente
nuovi"? E in quanti anni? Quei dieci milioni di
persone che nei prossimi dieci-venti anni perderanno
il lavoro (solo in Gran Bretagna, alcune centinaia di milioni nel pianeta),
dunque la possibilità di sopravvivere in un mondo competitivo e senza
disponibilità di disporre autonomamente di mezzi di produzione, che
fine faranno? Sono certamente persone di scarsa specializzazione, oggi
anche over-30 o 40, impossibili da "reinventare" come
"creativi" dell’informazione o della finanza. Che fine
faranno i loro figli, che certo non potranno essere mandati nelle
università che preparano a quei "mestieri del futuro" (le rette
aumentano dappertutto, specie in Gran Bretagna, sollevando proteste e
manifestazioni studentesche)?
La disoccupazione tecnologica è qui, e aumenterà a
dismisura. I "nuovi lavori" non potranno coprire la disoccupazione
crescente per almeno tre motivi sostanziali.
Il salto reso possibile dalla "automazione integrale
della produzione" non è neppure paragonabile, per quantità di lavoro umano
risparmiato, alla "meccanizzazione dell’agricoltura" (che è fenomeno
di questo dopoguerra, non di "due secoli fa"). Le dimensioni della
"liberazione dal lavoro" sono perciò di dimensioni
colossali. E non ci sembra realistico un futuro fatto di miliardi di
informatici, avvocati, artisti, finanzieri, infermieri, ecc. Basta fare un
piccolo raffronto storico. Negli Stati Uniti e in qualunque altro paese
capitalistico avanzato, per tentare di uscire dalla “Grande Depressione”, negli
anni Trenta furono finanziate gigantesche opere infrastrutturali (ferrovie,
strade, aeroporti, porti, dighe, ecc). Ogni paese metteva così al lavoro
milioni di sterratori dotati di pala e piccone, qualche migliaio di artificieri
muniti di esplosivo per aprirsi la strada nelle o sotto le montagne, ecc. Oggi
le stesse operazioni si possono fare con qualche “talpa”, alcune decine di
macchine per il movimento terra, un po’ di ingegneri… Al massimo qualche
migliaio di persone. Anche la ricetta keynesiana (“scavare buche per riempire
buche”) non può più funzionare.
La seconda ragione è più immediata. Se anche questa
"sostituzione" fosse realistica sui tempi medio-lunghi, in ogni caso
gli addetti ai "vecchi mestieri" – che nonsono affatto,
in genere, anche "lavoratori anziani" – non saranno riciclabili nei
nuovi. E l’arco della vita umana è indubbiamente più lungo dei tempi di
applicazione della tecnologia alla produzione.
Di più. Non si vedono all’orizzonte nuovi settori produttivi
in grado di assorbire – com’era avvenuto nelle precedenti rivoluzioni industriali
– l’eccesso di popolazione “liberata” dai settori in via di superamento. Tutto
ciò che vi è di sicuramente nuovo – dalle nanotecnologie alle biotecnologie,
ecc – è anche disperatamente una produzione di nicchia dal punto di vista
occupazionale. Neanche l’informatica sfugge a questa legge. I tempi eroici dei
garage nella Silicon Valley sono finiti per sempre; oggi una start up del
settore si può occupare al massimo di scrivere app per i sistemi operativi dei
colossi, mentre questi vanno concentrandosi in poche unità in grado di
monopolizzare o quasi il mercato globale. Pochi addetti, grandi investimenti,
altissima preparazione scientifica, grandi ritorni di profitto, scarsa o nulla
implementazione in una produzione di massa. Come alla Elektronikwerke Siemens
di Amberg, insomma.
La terza ragione è ancora più definitiva: non ci
sono più aree significative del pianeta – per estensione
territoriale e dimensioni di popolazione – da mettere in produzione
per il capitale. Non a caso, la globalizzazione ha da un decennio
ceduto il passo alla frammentazione in aree continentali fra cui monta una
competizione dagli aspetti inquietanti dalle dinamiche piuttosto “antiche”.
Una quantità crescente di popolazione globale, in
ogni caso, si profila come eccedente le necessità produttive e al tempo
stesso – e proprio per questo – “consumatore debole”,
redditualmente non in grado di assorbire l’offerta di merci. Un esempio
concreto può venire dalla situazione creatasi nel mercato immobiliare Usa, nel
decennio scorso: grande capacità produttiva, ma domanda solvibile al di sotto
della quantità dell’offerta. Per risolvere il blocco, è risaputo, si fece
ricorso ai mutui subprime, o ninja (not income,
not job or asset), creando un mercato di acquirenti certamente insolventi
nel medio periodo. E quindi le premesse del domino di catastrofi finanziarie da
cui non si riesce più ad uscire.
Un secondo esempio viene ancora dagli Stati Uniti. È noto
che la politica monetaria “espansiva” della Federal Reserve, iniettando
migliaia di miliardi di dollari nel circuito finanziario, ha finito per
sostenere in qualche misura anche l’occupazione di quel paese, creando un buon
numero di nuovi posti di lavoro. Ma se si scende nel dettaglio, disaggregando i
dati, si scopre che i “nuovi lavori” sono nella stragrande maggioranza lavori a
bassa competenza, basso salario, altamente volatili. Un esercito di commessi,
cucinieri, addetti marginali alle strutture sanitarie e/o alberghiere, ecc.
Consumatori deboli, appunto, che anche quando hanno un lavoro comprano poco o
nulla oltre l’indispensabile, spesso non in grado di acquistare e mantenere
un’automobile.
Una quantità abnorme di consumatori deboli diventa molto
rapidamente un “costo sociale” che preme sugli istituti assistenziali, pubblici
o privati che siano. E sappiamo bene che in tutto l’Occidente – che nel campo
dell’assistenza sociale, ai tempi del “modello keynesiano”, aveva raggiunto
livelli mai visti nella storia – la spesa pubblica è in via di rapida riduzione
proprio per quanto riguarda questo tipo di voci. Ne consegue che non si può
neanche pensare a un’espansione dell’occupazione nel settore dei “servizi alla
persona”. È lo stesso problema posto dall’invecchiamento della popolazione nei
paesi avanzati, con costi crescenti – e ormai messi all’indice nelle politiche
economiche stile Troika – che nessuna fiscalità generale può più coprire.
In sintesi:
a) l’occupazione nel settore primario (agricolo) non è
implementabile, anzi tende a ridursi (la totalità delle superfici coltivabili è
già messa in produzione pressoché per intero e il numero degli addetti,
globalmente, è in drastico calo; quelli che restano al lavoro bastano a sfamare
l’umanità intera al di là delle sue necessità vitali);
b) il settore industriale sta correndo a tappe forzate
verso l’automazione senza che siano emersi comparti “alternativi” capaci di
assorbire l’eccesso di manodopera;
c) lo stesso processo – informatizzazione/automazione –
mira ad eliminare almeno il 60% del lavoro “intellettuale seriale”, quindi
grandi porzioni del terziario più o meno avanzato;
d) il pianeta è tutto sottoposto al modo di produzione
capitalistico e non esistono altri “quasi mondi” da inglobare;
e) i bisogni sociali complessivi (dalla messa in
sicurezza del territorio alle cure alla persona, dalla difesa dell’ambiente ai
trasporti collettivi, ecc.) sono classificati nella voci “costi da ridurre”, in
cui le aree di business sono limitate ad una clientela solvibile, in
percentuale sul totale, sempre meno estesa oppure a pochi settori che gli stati
sono obbligati a dismettere (tipo le utilities, ma anche in questo
caso sostituendo il più possibile lavoro vivo con macchine).
Naturalmente stiamo ragionando fin qui all’interno dei
parametri capitalistici. La riduzione della quantità di “lavoro necessario” per
la riproduzione fa a cazzotti con l’appropriazione privata della ricchezza
prodotta perché il risparmio di lavoro reso possibile dall’automazione si
traduce in disoccupazione di massa anziché in riduzione dell’orario di lavoro.
L’aumento dei bisogni sociali – dalle “cure alla persona” alla semplice
sopravvivenza dignitosa, quindi abitazione, reddito contro lavoro, ecc – fa a
cazzotti con la considerazione della vita umana come un “costo”.
La prospettiva imperialista è insomma piuttosto chiara: la
“liberazione dal lavoro umano” si traduce in sovrapproduzione
di capitale variabile, inutilizzabile per la valorizzazione del
capitale. L’eliminazione di questa eccedenza, al pari del capitale in generale,
diventa una asettica “necessità”, ovvero un sanguinoso “sfoltimento”. E i tempi
lunghi su cui potrebbe procedere semplicemente tagliando il welfare (meno
pensioni, sanità, ammortizzatori, alloggi, ecc) sembrano decisamente troppo lunghi
rispetto alle urgenze poste dalla crisi.
Conclusioni
Ricordando che queste sono soltanto annotazioni
“impressionistiche”, da cui far decollare una ricerca vera e propria, si può
provare ad abbozzare qualche ipotesi interlocutoria, più che conclusiva.
La prima e più semplice è che anche il progresso tecnologico
applicato alla produzione spinge per risolvere con la guerra l’eccesso di
capitale (sia il costante che il variabile, così come per il fisso e il
circolante) che non riesce a trovare – o produrre – valorizzazione. Sempre
ricordando che solo la pluralità di possessori dell’arma atomica ha fin qui
impedito che se ne facesse uso (dopo gli “esperimenti intimidatori” di
Hiroshima e Nagasaki).
Detta così, sembra quasi una ripetizione di vecchie
certezze. Di nuovo c’è, come si è cercato di spiegare, la dimensione della
distruzione di capitale “necessaria” per far ripartire l’accumulazione. Lo
stesso scarto immenso tra investimento in macchinari e quello in dipendenti si
ripropone all’inverso al momento del “disinvestimento” distruttivo. Tra le
guerre napoleoniche e la seconda guerra mondiale c’è una differenza che sfugge
ai paragoni facili. Il prossimo turno di “distruzione creatrice” potrebbe
facilmente produrre l’impossibilità di nuova creazione, andando a coincidere
col ritorno all’età della pietra; a meno che qualcuno non accetti pacificamente
di autodistruggersi (fin qui è avvenuto soltanto una volta: ammainando la
bandiera rossa sopra il Cremlino e lasciando campo aperto ad oligarchi e
irruzione del capitalismo neoliberista).
La dimensione di queste dinamiche è
immensamente superiore a quelle descritte un secolo fa, quando l’imperialismo
era tutto sommato richiuso nella sfera d’azione di alcuni Stati nazionali. Oggi
ci si misura come minimo su aree continentali, con la complicazione – non solo
teorica – di filiere produttive “senza nazione”, non obbedienti dunque al
richiamo delle piccole patrie.
Da questo punto di vista, la dinamica onnivora
dell’automazione crea un nuovo limite per il capitale stesso,
che agisce in modo similare al progressivo esaurimento delle risorse
petrolifere e all’esplodere della crisi ambientale (che sono però limiti
“esterni”, fisici).
Qui il paragone scientifico è con le leggi che regolano la
resistenza meccanica dei materiali. Al crescere delle dimensioni della
struttura, pur incrementando nella misura opportuna le dimensioni delle parti
portanti, oltre un certo punto si verifica comunque un cedimento.
Ma il dato a prima vista più rilevante è che il livello
attuale di automazione della produzione – comunque si passi ad una fase successiva
– è ormai irreversibile. Un vero e proprio nuovo standard da
cui non si potrà più prescindere. Anzi, un punto di partenza. La contraddizione
sarà tra chi detiene e controlla questo livello tecnologico e chi ne è ormai
escluso (per dimensione dei capitali, qualità della ricerca, capacità di “fare
sistema” tra componenti spesso molto distanti del processo produttivo). Non
mancheranno mai, anche dentro sistemi complessivamente arretrati singole isole
di eccellenza (l’esempio più noto è la qualità delle facoltà di matematica e
fisica in paesi come India e Pakistan). Ma la differenza è data dalla capacità
di “fare arcipelago” intorno alle concentrazioni di gruppi multinazionali con
base territoriale, ovvero quelle che chiamiamo oggi “aree imperialistiche”.
Se la partecipazione al processo produttivo da parte della
forza lavoro umana entra – come pare stia avvenendo – dentro la fase finale, ci
sono conseguenze importanti per la soggettività che si propone il superamento
del modo di produzione capitalistico. Innanzitutto sul piano della conoscenza e
della possibilità della classe di controllare il processo produttivo stesso.
Qualche raffronto sembra necessario. La fabbrica “fordista”
– ancora all’inizio degli anni ‘70, per quanto riguarda in particolare l’Italia
– era conosciuta e padroneggiata dalla classe operaia, dal pezzo di ferro che
entrava nello stabilimento fino al prodotto finale. L’intero ciclo della
manifattura avveniva sotto i suoi occhi e poteva senza troppo sforzo
immaginarsi capace di sostituire il ruolo del padrone con quello della classe
associata, ferma restando naturalmente la necessità di avere dalla propria
parte i “quadri tecnici”, dagli ingegneri in giù.
La stessa fabbrica, oggi, è sostanzialmente un luogo
sconosciuto nella sua complessità. Vi si assemblano componenti provenienti dai
quattro angoli del pianeta e della cui produzione nulla si sa; grosse parti
della catena sono automatizzate e quindi materia per gli ingegneri; la classe
operaia conosce solo singole parti della produzione, la cui magna pars si
realizza prima dell’arrivo al montaggio.
Questo vuol dire che la conoscenza del ciclo è ormai un
problema di conoscenza scientifica; un compito che ricade quasi per intero sul
soggetto politico della trasformazione e a cui la classe-in-sé può dare un
contributo molto più limitato che in passato. In un certo senso è qui la tomba
definitiva della “spontaneità rivoluzionaria”. Ed è anche rispetto a quelle
figure tecnico-scientifiche-professionali che si pone, per il soggetto della
trasformazione, il problema delle “alleanze di classe” (altro che la “piccola
borghesia” rovinata dal procedere del progresso tecnologico e/o dalla crisi!).
Con la complicazione, rispetto a un secolo fa, quando la Rivoluzione Sovietica
stabilì – prima e dopo la conquista del potere – una relazione stretta con
l’equivalente di questo tipo di figure (dagli ingegneri agli ambasciatori): il
legame con “la nazione” e le retoriche conseguenti sono ora, specie per questo
tipo di figure, assai meno forti d’allora.
In terzo luogo, la sovrabbondanza di forza lavoro in cerca
di occupazione non implica affatto il crearsi di “moltitudini” indifferenziate
al proprio interno, come la notte in cui tutte le vacche sono nere. Ricordavamo
prima la pletora di occupazioni in varia misura “ancillari” rispetto alla
produzione vera e propria, che costituisce e costituirà comunque una massa di
occupati con potere contrattuale debolissimo, commisurato alle “competenze” –
necessariamente limitate – richieste. Un esempio? Vi dice nulla lo sterminato
numero di programmi tv incentrati sull’arte del cucinare?
La stratificazione sociale metropolitana già ora ci permette
di distinguere molte e diverse figure sociali (dai “neet” ai precari di ogni
ordine, grado ed età), con un rapporto assai differenziato con la realtà dello
sfruttamento salariato, quindi anche con visione del mondo, immaginario,
ideologie profondamente differenziate. Una stratificazione che complica
terribilmente il compito della “ricomposizione del blocco sociale” e del
“blocco storico”, ma che trova – non paradossalmente – proprio nel carattere
“lunare” del comando capitalistico un punto unificante di grande forza.
Per ultimo, ma è quasi uno scadere nell’utopia, la
concentrazione selvaggia della produzione seriale nelle macchine riapre la
vecchia contrapposizione tra progressiva riduzione del “lavoro complessivamente
necessario” alla riproduzione della società e intensificazione dello
sfruttamento per quella ridotta parte di forza lavoro che viene effettivamente
impiegata. Al limite estremo della produzione senza operai diventa visibile per
tutti la possibilità della riduzione del tempo di lavoro individuale al minimo
necessario. Ma, per l’appunto, questa “evidenza” chiama in causa l’esistenza o
meno di una soggettività all’altezza di questa gigantesca opportunità. Inutile
spendere parole per dire a che punto si trova, almeno in questa parte del
pianeta.
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