mercoledì 11 gennaio 2017

Ripensare l’oppressione femminile*- Johanna Brenner, Maria Ramas


Abbiamo difeso l’idea secondo la quale i rapporti di classe nella produzione capitalistica, coniugati ai fattori biologici della riproduzione, hanno innescato un potente processo che ha condotto al sistema familiare-domestico, assicurando così la subordinazione costante delle donne e la loro vulnerabilità eccessiva allo sfruttamento capitalista. Evidenziando come l’oppressione femminile in regime capitalistico derivi dal confronto tra imperativi dell’accumulazione capitalista, da una parte, e le strutture della riproduzione umana, dall’altra, la nostra analisi si è concentrata sull’organizzazione di un movimento per le donne della classe operaia. Perché se lo sviluppo del capitalismo nel XIX secolo ha posto le basi per un rovesciamento del sistema familiare-domestico aprendo la via verso altri sistemi, l’implementazione di questi ultimi richiede una lotta politica. I rapporti di classe capitalisti, motivati dalla ricerca del profitto, continueranno ad esercitare pressioni per privatizzare la riproduzione ed imporre alle famiglie della classe operaia il peso delle persone a carico. Questa tendenza, e l’incapacità, fino ad oggi, della classe operaia a porvi freno, sono sufficienti a spiegare la persistenza della divisione sessuale del lavoro e l’ineguaglianza dei sessi.

Le divisioni sessuali non sono dunque del tutto integrate alla divisione del lavoro capitalistica o ai rapporti di produzione, come prodotti dall’equilibrio delle forze in un dato momento storico. La situazione storica è essenzialmente definita dallo sviluppo delle forze produttive, dall’organizzazione della classe operaia, l’organizzazione delle donne fra di loro e lo stato dell’economia. Qualsiasi trasformazione nella condizione delle donne della classe operaia, richiede una più ampia responsabilità collettiva verso le persone dipendenti – sopratutto i bambini. Poiché il sistema attuale va a beneficio degli uomini, quantomeno nel breve termine, il cambiamento dipende dalla capacità da parte del movimento femminista di orientare la lotta di classe operaia in tal senso. Ci sembra dunque che Marx ed Engels abbiano correttamente identificato la tendenza del capitalismo all’equiparazione dei sessi. Beninteso, l’uguaglianza dei sessi nel contesto del capitalismo non equivale alla liberazione delle donne, la quale necessiterebbe di un superamento del capitalismo. Piuttosto, lo intendiamo come un sistema dinamico, che trasforma la vita quotidiana e crea le condizioni per nuove forme di lotta e di coscienza. L’esito della vicenda storica del capitalismo, e della nostra, sarà determinato da una lotta politica che dovrà comprendere queste tendenze contraddittorie.

L’oppressione femminile potrebbe non essere il risultato del «patriarcato», e nemmeno degli interessi fondamentali del capitalismo. È questa il presupposto da cui partono la Brenner e la Ramas, al pari dell’obiettivo della loro potente critica, Michèle Barrett. Secondo quest’ultima, l’oppressione femminile è il prodotto di un’ideologia borghese, la quale plasma la soggettività delle classi popolari e favorisce la divisione salariale tra uomini e donne. Per le autrici del testo che segue, una simile spiegazione non regge. Ma è necessario compiere una deviazione al fine di spiegare l’oppressione femminile: comprendere come la riproduzione biologica ed il lavoro industriale hanno degradato i rapporti di forza tra uomini e donne a beneficio dei primi. La sfida teorica rappresentata dal tema dell’oppressione femminile richiede una risposta dialettica, una risposta che sia agli antipodi rispetto al funzionalismo. Un tale approccio consente di identificare lo Stato-provvidenza e la lotta per la socializzazione della cura delle persone a carico come il nodo del problema e, pertanto, della battaglia femminista.


Nessun commento:

Posta un commento