*Convegno RdC, Roma
2006 [in Il bambino e l’acqua sporca] http://www.webalice.it/gianfrancopala40/pubblicazioni.htm
l’ignoranza teorica di marxismo e la non meditata azione
politica
È né più né meno che un inganno sobillare il popolo
senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per
la sua azione.
Risvegliare speranze fantastiche (non di altro si era
parlato),
lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono,
porterebbe inevitabilmente alla loro rovina:
rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee
rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete
significa giocare in modo vuoto e incosciente con la
propaganda,
creando una situazione in cui da un lato un apostolo
predica,
dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca
aperta:
apostoli assurdi e assurdi discepoli.
In un paese civilizzato non si può realizzare nulla
senza teorie ben solide e concrete;
e finora, infatti, nulla è stato realizzato
se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose,
se non iniziative che condurranno alla completa rovina
la causa per la quale ci battiamo.
L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno!
[Karl Marx, Colloqui (cur. H.M. Enzensberger – Annenkov
su Weitling)]
1. Un paradosso che si erge di fronte a tutti noi può
servire bene come metafora iniziale. Oggi, date le drammatiche condizioni del
pianeta, forse è meglio provare a salvare l’“acqua”, pulendola, e non il
“bambino”, perché solo in questa maniera, forse, anche lui potrà sopravvivere,
altrimenti nulla potrà procedere. L’acqua potabile, che per noi è
“pesante” come l’essere, è l’analisi del modo di produzione capitalistico che
Marx ha sviluppato, oggettivamente e “cinicamente”, direbbe Lenin; il bambino –
il sedicente marxismo, fuor di metafora – è stato reso così “leggero” che ha
continuato a sguazzare sempre più nell’acqua non solo sporca ma anche molto
inquinata. È cresciuto, sì, ma è cresciuto in un ambiente sempre più lontano e
distaccato da quella pulizia, da quella “potabilità”, che pesa come un macigno,
ora ignorata e sempre più rigettata.
La metafora nella sua interezza non ha, ovviamente, un senso
preciso e corretto per la fisica nucleare; ma vale la pena svilupparla
(menzionando per competenza alcune definizioni di esperti, così da concluderla
rapidamente). Occorre l’acqua pesante per far sì che essa impedisca che la
reazione a catena diventi incontrollabile. Costringendo gli elementi in spazi
sempre più ristretti, ognuno di essi tende a muoversi in maniera unica e
coerente, diventando un unico grande “organo”; si crea così una direzione, non
più caotica e con versi opposti che si annullano dialetticamente. Seguendo per
grandi linee ciò che dicono gli esperti, è indispensabile destabilizzare la
materia inquinante presente nell’acqua grezza, separando dall’acqua i solidi
pesanti che tenderanno a depositarsi, rendendo così necessario un drenaggio
periodico dell’acqua reflua per mantenere pulita la “base”. Il marxismo,
che ha la parte di unico “grande organo” in questo tropo, ha bisogno per la sua
base, per mantenere pulita la sua acqua, che siano periodicamente fatti
precipitare i corpi inquinanti.
Per i comunisti, dunque, i corpi inquinanti sono quelli dei
“bambini” simil-marxisti. Nelle tesi di apertura di questo incontro si afferma
nettamente che l’intellighenzia della cosiddetta “sinistra” non è capace
di comprendere. O pure non vuole capire, ché per essa è scomodo, poiché
andrebbe contro gli interessi costituiti e l’ideologia della classe dominante,
la qual cosa per l’“asinistra” (di oggi e di ieri) è disdicevole. Il documento
della rete dei comunisti fa giustamente un’osservazione evidente, e cioè
che negli ultimi decenni le prese di posizione di questa specie di
pseudo-sinistra internazionale sono il frutto di elaborazioni teoriche niente
affatto elevate. Definirle “teoriche”, pertanto, è pure troppo. Ciò che
occorre, si dice, è perciò un alto livello teorico, quel livello che latita da
troppo tempo. Perfettamente d’accordo.
Senonché per noi, per tutta la sinistra di classe, per il
comunismo, questo alto livello teorico di partenza c’è già: è il “peso”
dell’analisi fondata da Marx. Ora si tratta di rintracciare la pregnanza
attuale di quell’analisi, “ripulendo” quanto – poco o tanto – di significativo
ha apportato in séguito storicamente il marxismo non parolaio. Come ha qui
notato Vladimiro Giacché, chiacchierare sul fatto che “un altro mondo è
possibile”, senza spiegare che cosa ciò voglia realmente dire e senza
concretamente e concettualmente discutere dei rapporti di proprietà, non
significa niente: per Marx vuol dire “risvegliare speranze fantastiche, giocare
in modo vuoto e incosciente con la propaganda”. Tale vaghezza populistica
denota totale latitanza della ragione, stravolgimento della storia e
occultamento della violenza intrinseca al dominio economico del capitale
Incamminarsi sulla strada, per niente agevole, di una tale
critica impone anche di relegare in un angolo i “bambini”, figli o nipotini
illegittimi di un marxismo minore, evanescente e dileguantesi, mettendoli in
condizioni almeno di non nuocere. Non occorre salvare codesti “bambini” leggeri:
è meglio che sia la loro “insostenibile leggerezza” a essere buttata,
perché piuttosto è all’“acqua” che deve essere tolta la sporcizia e
l’inquinamento, mondandola per restituirle la veridicità. Invece si fanno dibattiti
e convegni professorali, da “socialismo della cattedra” come si diceva una
volta, che hanno come obiettivo strumentale ogni forma di “revisionismo”
(vetero o neo, socialdemocratico o storico, e via demonizzando il comunismo).
Come si fa a considerare marxisti o compagni, sia pure
semplici “compagni di strada”, quanti non perdono occasione per declamare le
loro “trovate” [per sbaglio dalla tastiera era uscito scritto “troiate”,
ma andava bene lo stesso ...] di fatto contro il comunismo, gabellandole
per “interpretazioni” del marxismo? Come si può continuare a ritenere marxismo,
una pseudoteoria che: elimina la forma delle classi; sopprime la rivoluzione;
considera un ferro vecchio il materialismo storico; ritiene errata o
superata la distinzione dialettica tra struttura e sovrastruttura;
ignora perciò, manco a dirlo, che cosa sia la dialettica; isola la
circolazione dalla produzione e separa il lavoro dal valore,
per mettere al suo posto una indefinibile “moneta”; non considera le condizioni
delle forze produttive del lavoro sociale distaccandole dai rapporti
di proprietà, ecc.?
Non sono, queste, solo esemplificazioni; fandonie simili e
molte altre ancora sono “autentiche”, sempre nel campo dell’asinistra e non dei
nemici di classe, e si possono sentire dalla bocca di eminenti dirigenti o
leggere in programmi di paludati convegni, o anche in libri e articoli
pubblicati insieme a scrivani conservatori o dichiaratamente fascisti per ...
confrontarsi con loro! È pertanto da condividere l’esigenza posta da questo
incontro di rivendicare concetti come quello di classe e lotta di
classe, in funzione dell’attività di lavoro erogato in questo
sistema sociale, senza sovrapporre descrizioni di stampo giornalistico,
aggrappate a suadenti immagini sociologiche e movimentistiche di “identità” o
“appartenenza”, di “moltitudine” o “fine del lavoro”; così, come il
contrapporre imperialismo a “globalizzazione”, ecc.: tutto ciò è più che
meritorio.
Il concetto di classe ha tantissime sfaccettature che
attraversano anche il modo di produzione capitalistico; è bensì a esso interno,
ma non comincia e non si esaurisce con esso. Occorre perciò conoscerne assai
bene le peculiarità – “il socialismo pratico consiste in una corretta
conoscenza del modo di produzione capitalistico in tutti i suoi vari aspetti”,
scriveva Friedrich Engels, concludendo La questione delle abitazioni –
senza recedere alle ricordate mode interessate, fomentate dalla classe
dominante. In tutte le formazioni economiche sociali in cui predomini la proprietà
privata cominciano a formarsi storicamente diverse classi sociali distinte
e contrapposte, ma solo nell’organizzazione capitalistica il lavoro in veste di
proletariato acquisisce formalmente in sé stesso un’entità autonoma.
Tuttavia, la coscienza di ciò, per il lavoro salariato, necessita di un
tempo incommensurabilmente più lungo.
Di qui discendono alcune considerazioni. Da un lato, non è
possibile presumere che oggi – ancora “dopo il novecento” – non continui
a prevalere e non domini più il capitale, nella sua forma imperialistica.
Quindi, la lotta della classe borghese, tuttora egemone, tende a contrastare e
combattere tutto ciò che si richiama legittimamente al comunismo, in
quanto esso potrebbe essere in prospettiva il modo di produzione dominante in
una formazione economica sociale antitetica al modo capitalistico. Finché è la
borghesia a “dettar legge” – a esercitare, cioè, la sua dittatura – il concetto
di comunismo è l’unica forma antagonistica scientificamente
possibile: si tratta di combattere i rapporti di proprietà e di produzione
moderni, nient’altro, che riproducono bensì se stessi, ma insieme alla
loro antitesi.
D’altro lato, nel modo di produzione socialista
(anche quando non ancora dominante) – come si dirà tra poco per la teoria del
valore, che non ha “persistenza” in quanto tale oltre l’attuale società – non
si possono configurare le categorie del capitale, che è un’organizzazione
sociale affatto diversa. Pertanto, una delle troppe conseguenze distorte,
dovute alla “fiducia” di quasi tutto il movimento comunista del xx secolo è
consistito nel “credere” nell’“irreversibilità del socialismo”. Indubbiamente
si è trattato di uno dei non pochi errori teorici (scientifici e politici) che
hanno avuto il sopravvento popolare su quanti, in minoranza, hanno provato a
criticare codesta lettura, come altre assai poco marxista.
2. La teoria marxista – da Engels e Marx a Lenin
– a fianco e a sostegno della prassi
politica, è stata con frequenza richiamata da diversi intervenuti a questo
convegno. Nella citata vasta panoramica di Giacché emerge in particolare una
constatazione: le contraddizioni della società capitalistica illustrate
dal marxismo e sintetizzate nei “punti” indicati da Lenin per l’imperialismo
del capitale dell’inizio del novecento “sono ancora tutte lì”. Soltanto il
“beato mondo dell’ideologia dominante” può negare la tendenza alla diminuzione
del tasso di profitto, l’impoverimento crescente, l’aumento dello sfruttamento,
l’eccedenza di forza-lavoro, la socializzazione del lavoro, l’estensione del
mercato mondiale, l’ampliamento anche qualitativo del commercio estero,
l’impiego di capitali altrui, lo scambio ineguale, ecc. Per inventarsi
inesistenti pace e libertà l’ideologia dominante non esita attribuire questo
“successo” alla presunta “fine” di comunismo e marxismo.
Il cόmpito della teoria
– segnatamente per tutti noi, qui, quella marxista – è precisamente di
servire da analisi e da guida per “una solida e meditata azione politica”. Nel
xxi secolo, dopo la “storia del novecento”, è possibile scrollare di
dosso dalla teoria marxiana tutte quelle superfetazioni che le si sono
incrostate sul groppone; dall’esperienza della Comune alle rivoluzioni
sovietica e maoista, fino alle molteplici contraddizioni che rispettivamente ne
sono seguite, tocca oggi alla società cinese contemporanea essere passata al
microscopio critico delle categorie marxiane e comuniste.
Senonché il dramma, per i motivi detti di carenza della
ragione, è che l’antagonismo sociale e popolare è sempre più deprivato di
consapevolezza scientifica, di coscienza di classe; quella antitesi è
stata rabbassata a ribellione o rivolta, rabbia o disperazione, annegando il
comunismo nell’acqua “mossa” inquinata da identità, etnìe, fideismi,
immaterialità, comunicazione di massa esteriore, nuovismi, ecc. Oggi si può
forse intravedere qualcosa con maggiore chiarezza che dieci o vent’anni fa, ma
solo se si sconfigge il sonno coscienziale, concependo l’enorme gravità
planetaria attuale, pur senza accedere a un incombente catastrofismo bellico,
ambientale e culturale. Con un gioco di prestidigitazione la produzione con i
rapporti sociali che essa presuppone sono stati fatti scomparire; il loro
ripristino può rappresentare un buon punto di partenza.
A noi, dunque, non resta che prendere in esame gli strumenti
di analisi critica di Marx e del marxismo. Senza estendere il campo
dell’analisi all’enorme massa di indagini marxiane, qui si vuole cogliere e
sviluppare un’indicazione emersa, contraddittoriamente, sia in questo che in
precedenti incontri della Rdc: concentrarsi sulla considerazione della
centralità della teoria del valore (che Marx denotava addirittura come
“legge”, ineluttabile come una seconda natura). Si è detto
“contraddittoriamente” perché anche nella lettura di Marx si sono evidenziati
fraintendimenti sul significato stesso di valore, e del lavoro
che materialmente ne sta alla base. È essenziale capire il senso autentico che
Marx ha dato a tutta la sua teoria in quanto base scientifica
dell’attività politica. Non c’è una sua “teoria” cha abbia un aspetto
solo formale, e soprattutto accademico. La politica è una scienza, non
un’improvvisazione popolare, moralistica e legalitaria.
In particolare, l’analisi del profitto – nel suo legame con
il plusvalore – ha il solo scopo di dimostrare scientificamente l’origine di
esso nello sfruttamento del lavoro. Insomma, una chiave di volta dell’intera
teoria marxiana sta nella lettura sociale e politica della trasformazione
del valore in prezzi di produzione e non nell’asfissiante secolare fissazione
dei “marxologi” sui sistemi matematici della serie inaugurata da Böhm-Bawerk e
Bortkevič. È vano chiedere agli “interpreti” di Marx quale sia il rapporto di
questo problema – a prescindere dal ricordato esecrabile riduttivismo
formalistico – con la considerazione sociale, non certo “morale”, dello
sfruttamento la cui corretta soluzione analitica data da Marx è totalmente
misconosciuta, quasi che fosse assente. Qui – in funzione della dimostrazione
scientifica dello sfruttamento – si vuole anzitutto richiamare
l’attenzione di quanti si reputano marxisti al fondamentale ruolo e significato
teorico di questa “trasformazione” [di trasformazioni ce ne sono tantissime!;
tras/forma/zione vuol dire mutamento di forma, e quella in esame, dal
valore alle successive figure di prezzo, è una delle tante
trasformazioni analizzate da Marx nel movimento del capitale, non certo l’unica
e assoluta].
Il criterio seguito da Marx nell’analisi del lungo
svolgimento processuale dai valori – la loro sostanza, le loro grandezze, le
loro figure fino a quelle monetarie dei diversi tipi di prezzo – consiste
nell’esporlo come “forma di movimento” per seguire il mutamento di forme
adeguate ai contenuti, senza mutilarne minimamente l’intero corpo
analitico. Il nucleo centrale dell’analisi marxiana riguarda la teoria del
valore (e, ovviamente, del plusvalore, trattandosi di produzione
capitalistica di merci, con forza-lavoro salariata). La trasformazione
di quell’analisi nella spiegazione della formazione dei prezzi richiama
immediatamente il “fenomeno” dello sfruttamento capitalistico (quello
“preistorico”, con la sua parvenza “naturale”, non presenta problemi teorici).
È appunto questo sfruttamento capitalistico che trova la sua
spiegazione scientifica precisamente in questa trasformazione dei valori in
prezzi di produzione, ovverosia, in ultima analisi, proprio nel significato
politico sociale della teoria del valore nella lettura datane da Marx.
Anche questa circostanza è sufficiente da sola a motivarne la “demonizzazione”
borghese, fin dalla sua base teorica con
la riduzione intellettualistica a mero algoritmo algebrico: la dimensione
sociale viene fatta sparire e la dimostrazione scientifica dello sfruttamento
obliterata e considerata “ideologia comunista”.
Aurelio Macchioro già oltre trent’anni fa, nell’Introduzione
da lui scritta, per la Utet, al I libro di Il Capitale di Marx, rilevava
a proposito del III libro come il “mercato” in genere, e in particolare
l’annosa questione politica e sociale dello sfruttamento, dallo
stesso Marx fosse trattata in stretta connessione con la teoria della trasformazione
dei valori in prezzi di produzione. Infatti, chi conosce il marxismo non
può rabbassare la faccenda a una mera condizione di coerenza “formalmente
formale” (avrebbe detto Marx medesimo); rappresentando banalmente il sistema
come un problema algebrico di equazioni in equilibrio, lo si è imputato anche
di cervellotici errori di calcolo, sulle orme dei “modellini”
bawerk-bortkevičiani anche da parte di improbabili “intellettuali marxologi”.
Eppure, la stragrande maggioranza di coloro che hanno
“creduto” (giacché di fede si tratta) di schierarsi dalla parte del
marxismo, hanno in realtà avuto come costante riferimento, sia pure “critico”,
la cosiddetta “trasformazione” dovuta esclusivamente a quegli autori liberali,
e non certo a Marx, fondamentalmente ignorato. Occorre rintracciare altrove il
fondamento concettuale – la ragione – di tali problemi e dei
fenomeni economici in generale [si veda il commento di Luca Michelini nel
saggio (in corso di stampa) La storia del pensiero economico come critica
dell’economia politica: il marxismo di Aurelio Macchioro]. Anche per Marx –
sosteneva Macchioro – “razionalità non significa coerenza formale ma significa
coerenza genetica”.
3. La produzione capitalistica della ricchezza
– che comporta plusvalore o sfruttamento – è, proprio per questi motivi,
il luogo della lotta delle classi moderne (che la matematica, ovviamente, non
può spiegare); tale processo deve essere analizzato solo con le categorie
scientifiche della “teoria della trasformazione”. Si ricordi preliminarmente
che, in questo peculiare contesto di mutamento di forma, occorre in primo luogo
procedere alla trasformazione del tasso di plusvalore in tasso di profitto,
il cui passaggio implica appunto l’introduzione della loro differenza
relazionale in relazione al capitale variabile o al capitale totale; poi
quella delle rispettive masse, e solo nella terza fase quella “mitica” e
fraintesa del valore-in-prezzi.
Il plusvalore (ossia, il prodotto del pluslavoro non
pagato) è sempre più spasmodicamente appropriato come profitto dai
capitalisti, entro la produzione se ancora possibile, o tramite la speculazione.
Anche nel modo di produzione capitalistico così si riproduce in maniera
allargata la basilare differenza di classe tra proprietari e non
proprietari, ovverosia la questione dei rapporti di proprietà (e dei
rapporti di forza). Il salario, la parte pagata del “lavoro”,
deriva precisamente dalla contraddizione dei “rapporti di proprietà”. Nel
capitalismo, e soltanto in esso, la forza-lavoro è l’unica merce
di “proprietà” dei lavoratori, prima che da essi sia venduta per un salario,
il quale diviene il loro “reddito” soltanto dopo che il salario è nato
come capitale variabile. In quanto merce continuamente riprodotta, essa
è venduta ad altri – ossia, letteralmente alienata – dai
lavoratori, loro proprietari originari, ai datori di “posti” di lavoro (non
di lavoro, come erroneamente si dice, perché il lavoro come attività vien
“dato” dai lavoratori medesimi).
Codesta merce peculiare è dunque l’“unica” che nel modo di
produzione capitalistico non è prodotta dal capitale, cioè non è
una merce capitalistica (sono bensì merci capitalistiche i mezzi di
sussistenza che i lavoratori debbono comprare con il loro reddito salariale per
riprodurre la forza-lavoro stessa). In generale, sinteticamente il salario:
- è relativo agli altri redditi e soprattutto al
profitto (in quanto reddito esso stesso prima di essere trasformato in nuovo
capitale);
- svela l’imbroglio della richiesta (anche “a sinistra”) di
un salario minimo (sì che Marx ne deve ricordare il suo essere già
“minimo” per la “logica” capitalistica);
- è nominale, cioè necessariamente pagato come prezzo
in equivalente monetario;
- è correttamente concepito come materiale, ossia in
base alla consistenza delle merci, in quanto ricchezza, valori d’uso,
necessarie alla vita dei salariati;
- insomma, per dirlo con una semplice proposizione, il
salario è salario sociale.
La composizione di ciò che costituisce, nella media sociale,
i mezzi di sussistenza necessari alla riproduzione della forza-lavoro, deve
essere data, conosciuta da colui che studia dall’esterno
l’economia del capitale. Non interessa all’“agente” di esso al quale,
sopraffatto dai libri contabili, non può importare altro che il costo monetario
del salario (il suo valore di scambio trasformato nel prezzo). Viceversa, la
consistenza materiale delle merci necessarie alla vita della classe lavoratrice
riguarda direttamente soltanto il lavoro salariato.
È ovvio che il valore dei mezzi di sussistenza (a volume
dato), il cui costo è espresso mediante i prezzi di produzione, necessariamente
debba cambiare secondo il livello trasformato dei prezzi stessi. In simili casi
artefatti, il potere d’acquisto (come specificamente si dirà appresso)
dei salariati ne risulterebbe conseguentemente alterato, poiché a prezzi
diversi non è affatto detto che il dato salario nominale possa trasformarsi nei
mezzi di sussistenza di cui è costituito il salario materiale.
In siffatte condizioni, chiunque vede che il livello di qualsiasi
prezzo per ogni merce della sussistenza sarebbe del tutto indifferente
per i lavoratori ai quali fosse garantito il salario materiale socialmente e
storicamente determinato. Viceversa, il salario nominale monetario è soggetto
per definizione a ogni sorta di speculazione e truffa sui prezzi dei beni
necessari da parte dei padroni. Mentre il salario materiale non potrebbe
minimamente essere toccato da nessuna variazione dei prezzi, la quale in
quanto tale riguarda esclusivamente la diversa spartizione del
plusvalore tra i capitalisti (i “fratelli nemici”, come li chiamava Marx).
Con il salario nominale, anziché reale e materiale, infatti non c’è
propriamente “salario”, se si finge che codesto improprio “salario”,
lungi dal rappresentare l’alienazione (vendita ad altri) della forza-lavoro,
sia la retribuzione del lavoro svolto, come se si trattasse di una partecipazione
del lavoratore alla merce da lui prodotta, anziché della sua dipendenza
dal padrone.
Il salario propriamente detto, che nasce come capitale (capitale
variabile), vien fatto invece apparire immediatamente nella sua forma di reddito.
Anche gli economisti sraffiani, neoricardiani-senza-valore, consentono a tale
supponente “salario” di poter variare sull’intera gamma del reddito nazionale
(da niente a tutto), includendovi anche una parte di plusvalore (che Sraffa
chiama indistintamente “sovrappiù”), in cui i lavoratori salariati possano
liberamente fruire anche di una parte del profitto dei padroni da cui
dipendono! [A es., la questione reale della cosiddetta “scala mobile”
sarebbe tutta qui ricondotta; rispetto al salario materiale, l’inflazione ha la
medesima spiegazione della “trasformazione”: a parità di composizione
materiale del salario, una modificazione del livello dei prezzi che sia solo
nominale non ha concettualmente nessuna conseguenza sul potere
d’acquisto dei laoratori; di qui il colossale imbroglio di quella che era detta
“scala mobile” e del supponente “rientro dall’inflazione” ottenuto
surrettiziamente riducendo il salario (materiale)].
Il problema del divario tra salario nominale monetario e
salario materiale risiede precisamente qui. Per massimizzare il tasso di
profitto, che deriva soltanto dall’uso del lavoro non pagato (sfruttamento),
l’azione padronale sui prezzi (specificamente sui generi di prima
necessità) è rivolta a vanificare il significato e l’acquisizione pratica del
salario materiale e del valore della forza-lavoro; ciò avviene per
l’intercessione della trasformazione del valore nei prezzi di produzione.
L’economia politica procede in tale maniera solo per non spiegare
l’origine sociale del profitto nel plusvalore, per non parlare di
pluslavoro non pagato e di sfruttamento capitalistico: e a questo punto, del
lavoro erogato e dello sfruttamento non si ha più alcuna traccia esplicita. È
questo il significato politico e sociale, e non formalistico, della
cosiddetta “trasformazione”. Così si viene a disperdere l’unica possibile base
scientifica della teoria dello sfruttamento capitalistico (tanto che
anche i riformisti parlano solo di un “immorale” supersfruttamento del
lavoro).
Fatte queste
necessarie precisazioni sul salario, converrà riprendere in esame lo
svolgimento del processo teorico-pratico della “trasformazione” dal suo inizio:
il valore. Le fandonie propalate dal capitale fanno parte della lotta
della classe contrapposta, nemica non avversaria. Le sue tesi sono tutte
essenzialmente sbagliate, anche se tragicamente seguite da stuoli di
accademici, con l’unico intento di abbattere la marxiana teoria del valore e
del plusvalore. Fin dal 1868 agli anticomunisti, come notato da seguaci del
francese Bastiat, era chiaro che “la confutazione della teoria del valore è il
solo fine che si pone chi combatte Marx; infatti, se viene ammesso questo
assioma [sic], si devono concedere a Marx quasi tutte le conclusioni,
dedotte con la logica più serrata”. Paradossalmente, tuttavia, esse contengono
a volte descrizioni – a contrario – quasi “corrette”, trattandosi pur
sempre nei dettagli del funzionamento concreto del modo di produzione
capitalistico.
Appunto: ridurre ogni teoria scientifica perfettamente
costruita – come la deduzione dei prezzi di produzione dalle grandezze di
valore o la tendenza del tasso del profitto a cadere per gli esiti delle crisi
ricorrenti – ad “assioma”, che si vorrebbe asserito in funzione di fragili
fondamenta ideologiche, chiarisce gli intenti del capitale. Contro ciò si erge
la rivalutazione dell’aspetto teorico-pratico del marxismo da cui si intende
muovere. Tuttavia sono soprattutto nocive le storture concresciute nelle
deformazioni dei Tui – accademiche e intellettualistiche dell’“asinistra”
– generate in vitro da quanti hanno costantemente operato e agiscono in
ogni istante per squalificare il “comunismo” e, in esso, l’analisi marxista che
è l’unica scientificamente inoppugnabile. Dio, se ci fosse, potrebbe pensare
pure ai nemici, ma dagli “amici” dobbiamo guardarci noi!
4. La teoria del valore altro non è che la
spiegazione scientifica del processo capitalistico nel suo svolgimento
logico, e parimenti nella sua determinazione storica,
nell’autosviluppo del suo concetto. Basterebbe non dimenticare questo punto di
partenza, concettualmente “semplice”, per non cadere poi nelle trappole
formalistiche della cosiddetta “trasformazione”. Il rapporto di valore,
che è l’essenza della forma-merce, si compie e si eleva dialetticamente nel rapporto
di capitale. Esso conserva il rapporto di valore, ma lo supera come rapporto
di plusvalore (forma specifica capitalistica dello sfruttamento del lavoro
altrui).
La merce e il denaro si sviluppano in capitale e il
lavoro in lavoro salariato. Quest’ultimo, nella figura della merce
forza-lavoro è determinato dal valore, come ogni altra merce; ma non
è la forza-lavoro che determina il valore delle merci, bensì il lavoro
(ossia il peculiare valore d’uso di tale merce), misurato immediatamente
tramite il tempo. Tuttavia è necessario procedere per stadi
successivi, rammentando anzitutto il processo di svolgimento marxiano, in
base al quale il valore, sviluppandosi dal prodotto, giunge
storicamente a determinare anche il capitale.
Marx stesso sull’argomento ripete che le forme logiche del
concetto (secondo Hegel) non sono recipienti morti, per un sapere superfluo,
storico descrittivo. In realtà, esse sono “forme del concreto, lo spirito
vivente del reale”. Scrivendo a Engels (il 2 aprile 1858) sul “capitale in
generale: valore”, Marx aveva precisato che la sua analisi “per quanto
astrazione, è un’astrazione storica, che appunto poteva essere fatta soltanto
sulla base di un determinato sviluppo economico della società”. Lo sviluppo di
codesta “forma astratta” soltanto può spiegare la trasformazione in
prezzi (monetari, di produzione, monopolistici, ecc.).
In effetti, qui si tratta di plusvalore che si mostra come
profitto, quindi di valori che si trasformano in prezzi, cioè “valore
come quantità di lavoro; tempo come misura del lavoro”, concludeva Marx in
quella lettera a Engels sul Capitale. “Il valore d’uso – considerato sia
oggettivamente come effettualità del lavoro, sia obiettivamente come utilità
del prodotto – appare qui semplicemente come premessa materiale del valore, che
per il momento resta completamente estranea alla determinazione della forma
economica. Il valore come tale non ha altra "materia" che il lavoro
stesso. Questa determinazione del valore non è altro che la forma più astratta
della ricchezza borghese”. La base oggettiva – si pensi alla consistenza materiale
dei mezzi di sussistenza per il salario – in quanto effettualità del
lavoro è semplice ma insostituibile e irrinunciabile “premessa”, che tuttavia
non attiene direttamente alla forma economica.
Le forme sviluppate della ricchezza borghese non forniscono
alcun significato esplicativo se non sono fondate sulla loro “forma più
astratta”: il valore, appunto. Senonché diventa quasi inspiegabile il
motivo per cui, prima di comprendere questo fondamento e anzi prescindendone,
tanti “marxisti” non esitino a buttarsi a capo fitto nei formalismi, voluti dal
pensiero positivistico di contro alla logica dialettica dello svolgimento
dell’intero processo che ne è sotteso e che la presuppone.
Secondo Marx, il lavoro è “la sola fonte del valore”
precisamente in quanto è l’unica “fonte attiva del valore d’uso” [cfr.,
per tutti gli altri luoghi possibili, Tp, q.XV, f.861]. Questa
apparentemente banale constatazione – “rilevabile per via puramente empirica”,
dicevano Engels e Marx – vuole affermare semplicemente quello che dice: e cioè
che soltanto nel valore, nella sua sostanza, in quanto sviluppo logico e
storico del valore d’uso, è rintracciabile la prima origine “materiale” di
lavoro. E ciò è dirimente, perché in qualunque forma di prezzo quella
“premessa” è perduta. Ovverosia, soltanto con la complessa analisi del valore
come sostanza comune dei prodotti ridotti a merce è possibile risalire al
contenuto materiale di lavoro; la controprova più evidente è che tutta
l’economia politica borghese nega quell’unicità di contenuto.
La questione si complica poiché la forma di merce del
prodotto, ossia la sua scambiabilità sulla base del “valore” o di qualsivoglia
“prezzo”, è affatto generale e ancestrale. Le trasformazioni storiche
della forma di merce – trasposte nel loro processo logico – consentono
dunque di delineare la possibile prosecuzione del movimento stesso di tale
forma. Nella storia del mercato mondiale, la merce appare dunque come maturità,
sviluppo, socializzazione reale, finché il livello di contraddizione del
processo di svolgimento della merce determina storicamente il mutamento
delle formazioni economiche sociali e dei rapporti di proprietà
pervenendo alle loro forme capitalistiche. Ancorché non tutte le merci siano
capitale, il capitale è merce. Il plusvalore diviene la verità –
compiuta sul piano storico e logico adeguato al suo dominio – del valore,
giacché lo scopo di valorizzazione del capitale stesso si mostra in quanto
produzione di valore contenente plusvalore.
L’adeguatezza universale della forma astratta del lavoro,
raggiunta col massimo sviluppo della merce su scala mondiale, ossia con
lo svolgimento storico del modo di produzione capitalistico, si manifesta in
questo come riduzione a merce anche della forza-lavoro (o
capacità di lavoro, in generale), ossia della trasformazione del lavoro
in lavoro salariato. Quest’ultimo rapporto è il risultato d’un lungo
svolgimento storico precedente, il cui processo fa leva sulla primigenia separazione
tra il produttore lavoratore e il proprietario delle condizioni
oggettive della produzione stessa; lo sfruttamento del lavoro, che ne
consegue, comincia con la sottomissione in schiavitù degli sconfitti. Ma la forma
capitalistica (per ora finale) dello sfruttamento nasce soltanto laddove
il possessore dei mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero
lavoratore come venditore della sua forza-lavoro. Il rapporto tra
capitale e lavoro salariato integra perciò lo sfruttamento in questa forma
specifica, non in generale.
Non bisogna mai dimenticare che tutto il programma
scientifico di Marx (come testimonia anche il titolo della sua opera storica, Teorie
sul plusvalore) verte proprio sull’origine del profitto entro lo
scambio di tutte le merci capitalistiche, inclusa la forza-lavoro;
per definizione, anche quest’ultimo scambio è supposto equo. Spiegare lo
“sfruttamento” sulla base di una presupposta ineguaglianza giuridica, di una
predominanza di casta (classe), l’una sull’altra, sarebbe banale e non
tratterebbe dello sfruttamento capitalistico in forma scientifica. La
cosiddetta “trasformazione del valore in prezzi” – nella formulazione di Marx –
significa proprio questo, ovverosia risalire al valore, cioè alla base
“materiale” di lavoro che è in esso; ciò implica, attraverso il passaggio dal
plusvalore al profitto spiegare, anche attraverso i prezzi, proprio lo sfruttamento
capitalistico. È la realtà storica pratica del capitale (che presuppone
anche il denaro come sua forma) che ne implica il prezzo. E non è
questione di risolvere un sistema algebrico di equazioni in equilibrio.
Il nòcciolo di tutta il problema sta nella “scoperta”
marxiana della forza-lavoro come merce. Quale altra ragione avrebbe
potuto avere Marx, se non questa, per sviluppare lo svolgimento dei prezzi di
produzione capitalistici, fin dal loro primo stadio, a partire dal valore, al
fine di motivare l’origine del profitto nello sfruttamento del lavoro altrui?
La questione sostanziale è da rintracciare nella rammentata definizione –
marxiana, va da sé – di salario materiale.
5. Il limite assoluto del plusvalore – ossia della
parte di valore che costituisce il plusvalore – è dato e costituisce un
vincolo invalicabile rappresentato dal lavoro non pagato rispetto a quello
pagato: questo è quanto precisa esplicitamente Marx [cfr. C, III.50].
Tutto il significato politico della questione della “trasformazione del valore
in prezzi di produzione” è racchiuso in ciò. La base scientifica è
semplicemente contenuta in tutte le informazioni date: quantità
di mezzi di produzione, prodotti e lavoro vivo, e massa
materiale dei mezzi di sussistenza. Esse permettono di definire univocamente
il tasso medio di sfruttamento prevalente nel sistema del capitale,
determinato e calcolabile esattamente, e non inteso come giudizio
“moralistico”.
In condizioni storiche sociali date, coerentemente anche le
quantità di mezzi di sussistenza, che costituiscono il salario materiale, non
possono pertanto che essere date. Quest’ultima conoscenza – la composizione
merceologica media del salario materiale (che peraltro richiede un numero di
informazioni uguale a quello di qualunque sistema di prezzi) – è così sufficiente
per determinare tutte le “grandezze” che si desiderino o che occorrano direttamente
nel sistema reale.
Ciò vuol chiaramente dire che il plusprodotto in cui
risiede il plusvalore – ossia la differenza tra quelle masse [prodotto
meno mezzi di produzione e di sussistenza] è parimenti dato: quali che siano i
“pesi” (grandezze e forme di valore o prezzi di qualsiasi tipo) adottati, esso
non può cambiare. Il limite assoluto del plusvalore, come detto, è
un vincolo invalicabile. In altri termini, infatti, nessun prezzo comunque
attribuito ai mezzi di sussistenza può mai, in quanto tale, alterare la
loro massa materiale riferita al lavoro. Ovverosia, ogni alterazione delle
ragioni di scambio delle merci non tocca affatto la consistenza materiale del
salario e di conseguenza neppure quella del plusprodotto totale – e quindi
dello sfruttamento del lavoro altrui – ma modifica soltanto le quote
attraverso i “valori” (o prezzi) delle parti del plusprodotto medesimo.
È per questo che anche tale questione riguarda unicamente i
diversi criteri di spartizione (o ripartizione) del plusvalore
tra capitalisti, entro la classe borghese. Il proletariato, il salario
dei lavoratori, non c’entra assolutamente niente in tutto ciò – nella
“trasformazione”. È quindi chiarito, dato il “limite assoluto”, come concettualmente
codesta diversa ripartizione incida unicamente sui capitalisti, ma non
tocchi affatto la nozione di misura dello sfruttamento del proletariato come
classe. Nel modo di produzione capitalistico, qualsiasi ripartizione
del plusvalore tra “fratelli nemici” trova suo fondamento e spiegazione
scientifica nello sfruttamento del lavoro salariato che la precede.
Capire in siffatta maniera l’origine dei reali prezzi
capitalistici delle merci significa perciò comprendere – non in termini
dogmatici – anche l’origine sociale del profitto. Se si afferra,
ricostruendo concettualmente il movimento che dai prezzi empirici consente di
risalire al lavoro (altrui), alla loro sostanza di valore, questa
“trasformazione” assume quella chiarezza che disvela ogni ambiguità di classe
della borghesia, e che per ciò stesso essa non vuole che sia detta. Il pluslavoro
altrui non pagato ne rappresenta la clausola. In base a questo principio
invalicabile per la distinzione tra salario e plusvalore, l’affermazione
di un qualunque sistema di prezzi (indifferentemente diverso da quello
delle grandezze di valore calcolate), per la sola ripartizione del plusvalore
stesso tra i molti capitalisti, equivale a stabilire un sistema di pesi
corrispondente alla regola di ripartizione del plusvalore (nella figura
sociale del profitto, e, prima di esso, del tasso di profitto).
L’importanza nell’intero processo di svolgimento delle
diverse forme di valore stesse è che ogni sistema di prezzi (di produzione o
altri) così calcolato corrisponde a una precisa “regola di ripartizione”
del plusvalore, socialmente presupposta. La diversificazione di tasso di
profitto e massa di profitto, quali che siano, è assicurata in ultima analisi
proprio da quei prezzi che fanno pervenire al compimento di tutti gli scambi.
Pertanto, una data ripartizione si può avere, alternativamente e con l’identico
risultato, sia deliberando simultaneamente le quote di prodotto netto spettanti
a ciascuno (a es., come attraverso la pratica dell’“ammasso” di ricchezze),
sia attraverso il corrispondente sistema di prezzi.
Usualmente, il passaggio ai prezzi di produzione dai valori
– data la diversa composizione del capitale nei vari settori – comporta,
proprio attraverso quei prezzi, il trasferimento di parte del plusvalore dai
settori a più bassa composizione verso quelli a più alta. Perciò, grazie a
prezzi di produzione adeguati, il rammentato trasferimento di plusvalore dai
settori a più bassa verso quelli a più alta composizione del capitale è già di
per sé indice della maggior forza di questi ultimi.
Nella discendenza di tutti i prezzi capitalistici,
presi assieme, dal lavoro altrui non pagato, sta il segreto della
“trasformazione” del valore – e del plusvalore derivante dallo sfruttamento
dei lavoratori – in prezzi di produzione di qualsiasi tipo. Potrebbe
accadere, e ciò in effetti avviene ricorrentemente, in particolare in epoca non
concorrenziale e imperialistica, che i tassi difformi di profitto vìolino il
“limite invalicabile”, se un numero troppo grande di monopolisti volesse
appropriarsi di quote di plusvalore la cui somma eccedesse l’ammontare
disponibile, superando il vincolo complessivo di plusvalore.
In tal caso simili “pesi”, i prezzi corrispondenti da
costoro imposti, non sarebbero compatibili con l’equilibrio richiesto a priori
e non sarebbero pertanto adeguati a redistribuire il plusvalore esaustivamente
tra i capitalisti in base alla regola convenuta. Quei prezzi provocherebbero
così un’inflazione (una “spirale inflazionistica”, che dipende solo
dalle caratteristiche monopolistiche del sistema) la quale, concettualmente,
non inciderebbe affatto sui mezzi di sussistenza che costituiscono il salario
materiale.
Marx chiarisce ulteriormente il significato dell’intero
processo di mutamento di forma dai valori ricorrendo al caso di prezzi di
monopolio (corrispondenti a un tasso di profitto che non è generale, e
ovviamente, per definizione, non concorrenziale). “Se il livellamento del
plusvalore al profitto medio incontra ostacoli in monopoli artificiali o
naturali, sì da rendere possibile un prezzo di monopolio superiore al prezzo di
produzione e al valore delle merci, su cui il monopolio esercita la sua azione,
i limiti dati dal valore delle merci non sarebbero per questo soppressi. Il
prezzo di monopolio di determinate merci trasferirebbe semplicemente alle merci
aventi prezzi di monopolio una parte del profitto degli altri produttori di
merce. La ripartizione del plusvalore tra le diverse sfere di produzione
subirebbe indirettamente una perturbazione locale, che però lascerebbe
invariati i limiti di questo plusvalore stesso” [C, III.50].
I “limiti di valore” rimangono invalicabili a causa
della basilare consistenza materiale, e si avrebbe semplicemente “trasferimento
di plusvalore e profitto” (tramite il sistema dei prezzi). Per chi voglia
comprendere appieno il significato politico e teorico della “trasformazione”,
sia del plusvalore in profitti sia del valore in prezzi, che è il medesimo
processo, basti osservare come nel citato passo del Capitale si parli
espressamente di “perturbazione locale” che lascia “invariati i limiti del
plusvalore”.
I prezzi, dunque, quali che essi siano e come che
siano determinati e calcolati, servono unicamente a spartire in maniera diversa
il plusvalore tra i soli capitalisti. Nel loro concetto, essi lasciano
invariato il “salario materiale”: una casa o un chilo di pane sempre quella
casa e quel chilo di pane sono, e nessun prezzo può alterarli. A meno si
voglia far leva sul mutato potere d’acquisto del “salario nominale”, il che
vorrebbe dire che quella casa o quel pane non si potrebbero più comprare nelle
medesime precedenti proporzioni. Proprio di una simile circostanza si
avvantaggiano i capitalisti per intaccare il potere d’acquisto dei lavoratori
e, con esso, il salario materiale; ma serve loro per gestire una crisi che come
tale già c’è. Ma si tratta solo di una “risposta” che può avvenire
soltanto dopo che la “trasformazione” in prezzi abbia precedentemente
operato.
6. Il potere d’acquisto (livello dei prezzi)
per i lavoratori salariati, ha due conseguenze principali relative ai
contestatissimi problemi dell’impoverimento e del consumo, che
sono temi così vasti da richiedere una trattazione specifica.
L’impoverimento, a dispetto delle reiterate
confutazioni da parte dell’ideologia dominante, tese a invalidare l’analisi
teorica marxista, è assoluto; ovviamente, rimane vero che esso è
comunque relativo, cioè espresso in confronto con l’aumento della
ricchezza e del pil mondiale, e con il livello di vita dei più ricchi. Basti
pensare ad alcune circostanze. Negli ultimi 35 anni, quelli dell’ultima crisi
mondiale prolungata e sostanzialmente ininterrotta, la crescita del pil
mondiale si è praticamente più che dimezzata in media (dal 5-6%
degli anni 1950-60, al 2-2,5% fino a oggi, con aumento della disoccupazione).
Questo è avvenuto nonostante la sporadica alta crescita “netta” ora di un paese
(a es. Giappone) ora dell’altro (oggi Cina o India), aggravando anche i livelli
medi di vita delle masse popolari mondiali e perciò l’impoverimento.
Si tenga presente comunque che la crescita della ricchezza
mondiale avviene nella sua forma capitalistica, cioè con l’uso
intenso della forza-lavoro; ciò è incompatibile con ogni altra possibile
finalità “alternativa” (... socialista?), non solo nell’uso dei prodotti, ma in
primo luogo anche nelle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa).
Inoltre, quasi 2 miliardi di persone “vivono” – sopravvivono! –
con l’equivalente [ppp: power purchasing parity, parità di potere
d’acquisto], secondo i prezzi del posto, di due dollari al giorno!, e un
miliardo spesso muore per fame, sete e malattie; infine, le statistiche dicono
che metà della popolazione mondiale ha complessivamente la stessa
ricchezza delle prime più ricche 500 famiglie al mondo!
Tutto questo non nega certo i grandi miglioramenti storici
del livello di vita, comportato dal capitalismo nel suo “cómpito” storico. Ma
l’indubitabile accrescimento del crescente divario tra povertà e
ricchezza è problema dell’economia mondiale [mercato mondiale]; in
termini materiali, nei paesi dominanti imperialistici e rispetto alla classe
capitalistica internazionale, la situazione è tale che la povertà si riscontra
in maniera assoluta e crescente, soprattutto nei periodi di crisi. E ciò
non avviene solo nelle zone disastrate del pianeta ma anche all’interno delle
aree imperialistiche, particolarmente nelle metropoli.
In questo contesto interviene, soprattutto in termini
ideologici, la dogmatica del consumo, che assume così un ruolo affatto
particolare, mercantile, nel modo di produzione capitalistico. Qui, infatti,
non si produce per l’uso ma per la valorizzazione, ovverosia è il valore di
scambio col plusvalore che predomina sul valore d’uso. Ne discende, come si
preciserà, che il cosiddetto “risparmio”, in quanto complementare al
“consumo”, è un termine economicamente privo di senso. È bene
caratterizzare le diverse tipologie di consumo nel capitalismo per soppesarne
il significato con il passaggio ai prezzi delle merci. Il consumo
finale della popolazione, costituita in massima parte da lavoratori
salariati (anche se, reddito a parte, in posizione di funzionari o dirigenti)
serve per la trasformazione di tutte le merci acquistate in mezzi di
sussistenza necessari alla riproduzione (storica e sociale, e non solo
“biologica”) della forza-lavoro. Un’altra parte del consumo è quella che ha per
scopo ultimo l’investimento, ossia la valorizzazione del capitale e cioè la sua
accumulazione.
In entrambi i casi si tratta di consumo produttivo
(“personale” nel primo caso, “oggettivo” nel secondo) poiché è finalizzato alla
riproduzione materiale e sociale della ricchezza: o attraverso la riproduzione
della capacità di lavoro [forza-lavoro] delle persone, o pure di
quella dei mezzi di produzione (impianti, macchinari, materie prime, ecc.). In
altri termini, si tratta di una produzione che rientra ogni volta, direttamente
(come mezzi di produzione, capitale costante, che non crea nuovo
valore) o indirettamente (come mezzi di sussistenza tramite il filtro
rappresentato dal “lavoro vivo”, capitale variabile, in quanto fonte del
plusvalore, ossia dello sfruttamento dei lavoratori) nel ciclo
produttivo stesso.
Come accennato, ora è chiaro come il salario, prima
di essere reddito spendibile da parte dei lavoratori, sia capitale
nelle casse dei padroni, e serva ai capitalisti per comprare e pagare la forza-lavoro
(quella parte chiamata appunto “capitale variabile”). Per il “consumo produttivo”
personale, necessario alla riproduzione della capacità di lavoro,
qualsiasi atto di “risparmio” non consiste in altro che in un differimento
del consumo stesso, per acquistare o riparare oggetti più duraturi o costosi, o
pure per spostare lontanamente nel tempo di vita l’acquisto di oggetti
necessari alla sussistenza futura (pensioni, trattamenti di quiescenza, tfr).
Invece, per il “consumo produttivo” oggettivo dei
mezzi di produzione, ogni atto di “risparmio” su di essi altro non è altro che
nuovo investimento (presente o futuro), ossia accumulazione di profitto (plusvalore)
in nuovo capitale, in quanto autovalorizzazione del capitale preesistente. È
questa l’unica possibile destinazione coerentemente funzionale della
produzione, cioè reinvestimento e accumulazione di capitale. Il capitale
singolo può essere insufficiente da solo per il reinvestimento, sì da doversi
cumulare con altri piccoli capitali per raggiungere lo scopo dell’investimento,
oppure impossibilitato a trasformarsi in nuovo capitale a causa di una crisi,
assumendo così la mera apparenza del “risparmio”, ma solo da parte dei
capitalisti.
È qui che interviene la rammentata considerazione –
fraintesa anche dall’asinistra e dallo pseudomarxiasmo – del salario in quanto
originariamente “capitale”; il salario, infatti, contraddittoriamente
costituisce anzitutto un costo per la classe dei capitalisti.
L’aumento del salario complessivo della classe dei lavoratori (il loro maggior
potere d’acquisto) è però al contempo un maggior costo per l’intera
classe dei capitalisti (diminuzione dei suoi profitti complessivi). Quello che
un capitalista può guadagnare, vendendo maggiori quantità della sua merce, lo
perde un altro capitalista, che deve necessariamente venderne di meno:
si trasferisce soltanto la ricchezza prodotta all’interno di un sistema
economico, o di un paese oppure tra paesi diversi.
La contraddizione del maggior consumo dei lavoratori
non può costituire, pertanto, una soluzione per la tenuta dei profitti dei
capitalisti, poiché allo stesso tempo esso rappresenta un costo. Il
consumo può intervenire a favore dell’egemonia del profitto solo se è
accompagnato da una nuova accumulazione con crescita della produzione e
dell’occupazione, ovverosia del profitto stesso, in misura proporzionalmente
maggiore del consumo salariale. A parità di condizioni, perciò, l’unico
“consumo efficace” per i capitalisti è quello degli altri capitalisti
agenti come tali, soggetti della medesima classe: entrambe le parti
che producono plusvalore.
L’unica garanzia della possibilità di riprodurre
all’infinito – e l’infinità della crescita è la peculiarità
esclusiva del modo di produzione capitalistico – il capitale complessivo. La
possibilità di realizzare la quota di profitti contenuta nelle merci
capitalistiche prodotte sta dunque solo nella reciproca vendita delle
rispettive merci, ciascuna delle quali contenga la quota di lavoro non
pagato (plusvalore) dei propri lavoratori sfruttati. Marx definiva
tale processo capitalistico, contraddittorio realmente in quella realtà
irrazionale, “produzione per la produzione”, produzione fine a se stessa. Al di
fuori dei due casi esaminati di riproduzione del sistema, in ogni altra
circostanza si tratta di consumo improduttivo. La produzione a esso
destinata esce definitivamente dal ciclo riproduttivo, riguarda prodotti
di lusso o comunque storicamente non necessari alla sopravvivenza della
società, quale che essa sia; si tratta soltanto di trasferimento della
ricchezza già prodotta.
Al pari di ciò che si verifica per il consumo improduttivo,
ricade nello stesso principio di trasferimento di ricchezza anche
l’intervento pubblico con il cosiddetto “stato sociale”. Senonché
occorre vedere a carico di chi sia codesta spesa “pubblica”.
Storicamente, in generale, si sa bene che lo “stato sociale” è pagato col salario
di lavoratori per altri lavoratori (sistema fiscale, tassazione e debito
pubblico), mai dai profitti. La distribuzione del reddito tra
salariati e padroni tende negli anni a rimanere tendenzialmente invariata;
anzi, nelle più o meno lunghe fasi di crisi, è la quota salariale complessiva
(per l’aumento della disoccupazione e per il sottopagamento del lavoro – la
marxiana “riserva di lavoratori”) a decrescere rispetto ai profitti. Anche in
altri momenti economicamente difficili pur se non critici, è sempre il lavoro a
rimetterci di più e per primo.
La riflessione sul ruolo del cosiddetto “stato sociale” (“sociale”
paradossalmente anche se la “società” statale è del capitale) nasce
dalla circostanza che codesta attività è in apparenza pubblica.
“Socialmente” è legata all’esistenza e al “benessere” dei cittadini (o, meglio,
alla loro sussistenza e assistenza), poiché una socialità reale di massa non
c’è. Spesso ci sono da rispettare norme e condizioni sulle politiche
salariali, produttive e monetarie; tali regole sono rivolte a salvaguardare le
più pericolose situazioni mondiali di miseria, in ordine però a garantire la
concorrenza sul mercato mondiale da parte delle imprese operanti in zone a più
onerosi costi salariali. Quest’ultimo, quindi, è il ruolo internazionale
assegnato allo “stato sociale” in tutto il pianeta dal neocorporativismo
mondiale, forma sempre più adeguata all’attuale fase dell’imperialismo. È
un’integrazione salariale indiretta. Innanzitutto, giusto l’insegnamento
marxiano, ciò va a favore del capitale variabile dei costi delle
imprese, forma originaria del reddito che diviene poi salario dei lavoratori.
In effetti “stato sociale” altro non risulta essere che una
metonimia per ciò che poc’anzi si è definito “salario sociale”: ossia,
per il salario propriamente detto riferito all’intera classe, in termini reali
e materiali. Dal momento che tutte le spese sociali dello stato borghese
– come ha insegnato l’assistenzialismo dato ai “poveri”, almeno quello
dal xviii secolo in poi – sono finalizzate a integrare le varie forme possibili
dei costi salariali previsti per il capitale variabile (quelli diretti
superiori al minimo, quelli indiretti gravanti sulla fiscalità generale e su
quella specifica, e quelli differiti o futuri), quelle medesime spese per le
corrispondenti componenti salariali sono sostenute dallo stato per conto del
capitale.
Allora si impone la domanda: da dove vengono i soldi?
La risposta a tale domanda è volutamente vaga. Senonché basta poco per
verificare che, a tutt’oggi, le spese dello “stato sociale” sono a carico di
tutti gli altri salariati dell’economia, come mero trasferimento: interno,
dai meno disagiati ai più discriminati; o esterno, come briciole del plusvalore
passato all’“aristocrazia operaia” degli stati imperialistici dai proletari dei
paesi oppressi. Si è appena ricordato che non si è mai assistito a una
riduzione dei profitti. Ciononostante sembra restare apparentemente valida
l’idea di integrazione salariale indiretta per i più bisognosi.
È una questione molto dibattuta con i supposti
keynesiani-di-sinistra, fautori di questa parte della spesa pubblica, come
se si trattasse di miglioramenti salariali netti. Ma non è così. Senza
l’indicazione della fonte di trasferimento entro il monte salari mondiale
complessivo, e senza la denuncia più esplicita di ciò, il discorso sul
cosiddetto “stato sociale” (o su altre sostituzioni fiscali) è fuorviante.
Fermandosi alla funzione nazionale (o sovranazionale) dello stato, lo “scambio
ineguale” ai danni dei paesi dominati e lo sfruttamento dei loro proletari,
tramuta la spesa statale connessa in amplificazione della sua funzione
imperialistica. Praticamente tutta l’asinistra, consapevole o no, cade in
questa trappola.
7. Il mutamento di forma da plusvalore e valore a
profitto e prezzi, appena descritto, è il motivo per cui Marx spiega
tale trasformazione per stadi, fasi successive. Anche i “prezzi
di produzione” definiti nella prima fase, rispetto al lavoro contenuto
similmente ai valori da cui provengono, sono funzioni positive del tempo di
pluslavoro non pagato. Analogamente, il tasso generale di plusvalore [o di
sfruttamento] è perfettamente determinabile e calcolabile univocamente.
L’algoritmo necessario è semplicissimo e serve per esprimere numericamente quel tasso in funzione della
quantità di pluslavoro. Ciò cancella tutte le frottole dette e scritte in
merito alla presunta erroneità e insufficienza dei dati per conoscere
esattamente lo sfruttamento perpetrato dalla classe capitalistica sulla classe
lavoratrice.
Attraverso tale procedimento è facile rintracciare lo
sfruttamento capitalistico di classe, e non quello individuale che
analiticamente non interessa. È sufficiente considerare che, anche se i termini
“trasformati” tendono a nasconderlo – per il tramite della “trasformazione” –
anche tasso di profitto e prezzi, sono messi in relazione con le masse di mezzi
di produzione e di sussistenza e direttamente, è ovvio, con le quantità date di
quel medesimo pluslavoro. Solo attraverso il processo di trasformazione del
valore in prezzi di produzione, perciò, è possibile vedere razionalmente
il permanere del carattere di sfruttamento che da lavoro e pluslavoro,
attraverso valore e plusvalore, trapassa anche in prezzi e profitto. Se c’era
bisogno di fornire una motivazione di classe all’altrimenti noiosa
“trasformazione” equilibristica, questa è più che sufficiente.
La prima fase, dunque, rappresenta il livello – a questo
punto pure necessariamente formale – sufficiente per rintracciare lo sfruttamento
anche nei prezzi di produzione. Si ricordi che le informazioni di
partenza sono le stesse per entrambi i problemi, sia in termini di valore sia
in termini di prezzi (ai dati di base, se ne aggiungono altri relativi
alla circolazione). Quindi, ciò che a questo stadio importa è la determinazione
del concetto – non necessariamente il calcolo – dei valori
(grandezze e forme) delle merci capitalistiche; ciò ha anche indotto in errore
molti esegeti. Qualsiasi svolgimento ulteriore dei prezzi, in altre forme via
via sviluppate (prezzi di riproduzione, non concorrenziali, monopolistici,
politici, ecc.) non cambia, perciò, neppure formalmente, i risultati
raggiunti in questo primo stadio.
Per tali “semplicissimi” motivi, Marx circoscrive la sua
esposizione al primo passaggio – “la prima trasformazione del plusvalore
in profitto”, come dice lui stesso – senza far operare il rovesciamento
o inversione. Le condizioni date, si ricordi bene, impongono l’assenza
funzionalmente “astratta” della considerazione di mutamenti tecnici, di
valore o tanto meno dovuti a crisi. Perciò non deve operare il
rovesciamento dei prezzi stessi sui costi di produzione, come molti marxologi
vorrebbero pretendere quasi a manifestare la “fretta” di anticipare risultati
che invece sono implicitamente inscritti nel problema in se stesso. Il “concetto”
che serve è già posto compiutamente a questo primo livello; dopo ci sarebbero,
necessariamente, ulteriori modificazioni “aritmetiche”, come è proprio Marx ad
avvertire. Ciò non inficia neppure quantitativamente, essendo diversi i
contesti e le esigenze, la teoria dell’origine sociale del profitto: al
contrario, anzi, la esalta.
Nella prima fase della trasformazione, dunque, la
differenza sussiste ancora solo tra tassi e non tra masse. Senonché, il
plusvalore nella nuova forma di profitto “rinnega” la sua origine, e il nuovo
tasso (del profitto) – corrispondente ai prezzi di produzione – può così
oscurare o travisare proprio l’origine sociale del plusvalore. Questa
conseguenza dovrebbe chiarire l’importanza politica, e non accademica, della
cosiddetta “trasformazione”. Nelle parole di Marx, è “ciò di cui il capitalista
e anche l’economista, non si rendono conto”, ignorando il fondamento di valore
nella sua stessa “materia” (la quantità di lavoro contenuto nelle
merci), prima di poter parlare di prezzi (di produzione o di
mercato).
È per questo che Marx, indipendentemente dalla fase di
analisi svolta, tratta espressamente della “trasformazione” di tasso di
plusvalore, plusvalore, valore rispettivamente in tasso di profitto, profitto,
prezzi di produzione, come detto in quest’ordine logico preciso, al
quale deve necessariamente corrispondere anche l’algoritmo formale poi
sviluppato. A qualunque stadio della “trasformazione” in questione, perciò, per
la determinazione del tasso di profitto e dei prezzi di produzione non occorre calcolare
le grandezze di valore. Basta conservare i dati originari di partenza. È bene
precisare che il “calcolo” di quelle grandezze, infatti, risponde alla regola
di ripartizione basata sulla proporzionalità al tempo di lavoro.
Quello dei prezzi di produzione – che esprime la nuova forma
che è nella stessa sostanza di lavoro – pone, invece, la proporzionalità
al capitale complessivamente anticipato. Perciò il calcolo delle
grandezze di valore conduce a un “risultato” che come tale elimina
irreversibilmente tutte le informazioni necessarie per l’altra
determinazione. Per tale motivo, in generale anche per le ulteriori
determinazioni, occorre muoversi “in parallelo” (e non “in serie”, per usare
una metafora elettrica). È da un identico insieme di dati, e non dai loro
calcoli già compiuti, che è necessario partire per la determinatezza
concettuale dei pesi adeguati volta a volta alla regola di ripartizione
stabilita. Tutto il processo così illustrato costituisce una ragione
sufficiente per sostenere che questo mutamento di forma per Marx stesso non
è inessenziale, accidentale o sbagliato.
Dire che il “problema non esiste” – come i “critici critici”
ritengono di dover sostenere – equivale a rincorrere la chimera di una
modificazione continua nel tempo delle condizioni della produzione che sono
invece date (o quello dell’esistenza della crisi, che è reale ma che in
prima istanza non va considerata). Proprio dall’invarianza dei dati di partenza
discendono i differenti “prezzi” dei successivi stadi dell’iterazione del
calcolo; se le condizioni variassero – come realmente variano – la
devianza dei prezzi dai valori sarebbe semmai ancora maggiore, ma la causa
prima della loro differenza affonda le proprie radici nella datità
iniziale. Precisamente supponendo tale invarianza si formano prezzi, anche come
grandezze, diversi dai valori, che sono essi stessi “ideali”, come Marx
avverte, e non “reali”. Il problema marxiano esiste, proprio in quanto
inevitabile determinazione di una forma (prezzo) mutata rispetto
a quella logicamente precedente (valore). Quello che “non esiste” è invece il
vuoto problema di bawerk-bortkevičiano cui viceversa hanno acceduto
inconsapevolmente anche, al polo opposto, i marxologi di tutto il mondo.
La spartizione del plusvalore tra i molti
capitalisti segue la separazione di classe tra proprietari e salariati; è
perciò da Marx un concetto posto e, in quanto tale, presupposto ai prezzi,
quale spiegazione scientifica della specificità dello sfruttamento
capitalistico. Questo, infatti, deve precedere logicamente la ricerca di
qualunque particolare forma di prezzo, modificazione dei costi, mutamento
tecnologico, vendibilità (valore di mercato) o crisi. Il significato politico
teorico – e logico formale a un tempo – di questa “trasformazione” non patisce
variazioni a séguito di quei successivi ulteriori (eventuali, ma storicamente
necessari) movimenti.
Le teorie dominanti si articolano sulla ricerca di “prezzi
di equilibrio”, ad hoc, puramente empiriche, rispondenti a casi particolari
e mai generali, non rispondenti ad alcun realismo, e incapaci di rappresentare
il complessivo operare effettivo del modo di produzione capitalistico, e perciò
crollano. Viceversa la teoria di Marx – qui in particolare, se ben
interpretata, la cosiddetta “trasformazione” del III libro del Capitale
– non ha un tale obiettivo “contabile”.
Senza la teoria del valore e del plusvalore, nell’accezione
marxiana, tutti gli economisti restano dominati dall’ideologia borghese. La
finalità peculiare del sistema capitalistico – merce, valore e plusvalore e l’“infinità”
della sua accumulazione – non viene distinta in nulla dagli economisti rispetto
a quella delle epoche precedenti, tanto che, anche nell’asinistra, si sente
ripetere spesso che il fine è ancòra e sempre il soddisfacimento dei bisogni e
il consumo (per i manuali borghesi è sovranità-del-consumatore). La differenza
specifica del processo capitalistico di produzione, rispetto a quello delle
società precedenti, è da costoro annullato facendo semplicemente astrazione da
tutte tali differenze e ignorando le contraddizioni del capitalismo stesso.
8. Lo sfruttamento capitalistico ha la sua unica
coerente e corretta spiegazione scientifica – e non una romantica accusa
moralistica di “ingiustizia” – nella “trasformazione”, dal tasso di plusvalore
in tasso di profitto, per giungere fino a quella del valore nei prezzi di
produzione (riproduzione e circolazione). La teoria di Marx, tutta
intera e nello specifico la parte riferita al “problema” in esame, deve essere
letta e può essere pienamente compresa solo in funzione dell’azione
politica che la determina e la muove. Molti “marxisti” potranno dire che tutto
questo è noto. E dovrebbe esserlo.
Ma allora c’è da chiedersi perché mai proprio essi si siano
fatti attrarre dall’economia borghese con i suoi insulsi equilibrismi su
equazioncelle e calcoletti. Un siffatto impianto formale risponde, sì, alle
esigenze di quanti abbiano come loro obiettivo quello di affossare Marx, la sua
teoria del valore e del plusvalore e, conseguentemente, anche il
“problema della trasformazione”. Ma chi vuole tener fermo al marxismo e al
complesso delle sue precise condizioni di svolgimento teorico e pratico,
fino ai vari sistemi di prezzi, per spiegare lo sfruttamento capitalistico,
non può trovare neppure un singolo suo errore di calcolo, poiché simili
errori “emergono” soltanto in ossequio alle ipotesi arbitrarie e inadeguate
dell’impostazione dominante. Ne va del “comunismo”.
Perciò la tormentosa obiezione secondo cui i “conti non
tornano” si affida solo alla maniera – sbagliata – in cui tali “conti”
sono impostati (quelli che derivano dal formalismo borghese). Essi, infatti,
sono espressi sul mancato riconoscimento dell’unicità del lavoro come
fonte del valore (quantità di lavoro socialmente erogate nella produzione),
prima, e della composizione del salario materiale come data (volume dei
mezzi di sussistenza storicamente necessari), poi. Si è visto che qualora
entrambe codeste condizioni siano rigorosamente rispettate, non c’è calcolo
marxiano che faccia una piega [comprese definizione del tasso di profitto,
doppie somme di plusvalore e profitto o di valori e prezzi, circolarità reale
della riproduzione sociale, iterazione del calcolo, stadi successivi
dell’analisi, ecc.].
Non c’è dunque nulla di errato e anomalo in
tutto ciò, ma solo l’ordinaria valorizzazione, diversamente ripartita
tra la classe dominante. Nessuno può più svilire il cosiddetto “problema
della trasformazione”, ignorandone l’esistenza o riducendolo a calcolo formalistico
o rabbassandolo a mero dogma, se non in forza della avversa ideologia
dominante. Ciò si è visto proprio attraverso la maniera in cui i “marxologi”
hanno subìto l’accettazione del dibattito accademico, eventualmente a
contrario, si è detto, imposto da Böhm Bawerk e Bortkevič al triste “problema
della trasformazione”. In simile attitudine, in realtà, non è possibile
rintracciare alcun significato, pratico e scientifico a un tempo, “politico”
nel senso alto della lotta di classe. Finché non si fuoriesce da quel
circolo vizioso è inutile dibattere sulla loro sterile erudita
“trasformazione”. “Designare col nome di fraternità universale lo sfruttamento
giunto al suo stadio internazionale, è un’idea che poteva avere origine solo
in seno alla borghesia” – concludeva Marx, discorrendo del libero scambio.
Il riferimento sistematico alla teoria delle classi e
alla lotta di classe indica dialetticamente che ogni processo di
trasformazione rivoluzionaria supera negandoli entrambi i termini che
imprimono il movimento al processo in esame. Non si vede quale altra
spiegazione scientifica, diversa dalla produzione di plusvalore, potrebbe darsi
alla proposizione secondo cui la proprietà privata di classe come classe
è la principale forma di negazione, conservazione e superamento, fin qui
manifestatasi nella storia, della proprietà privata individuale. Ecco
perché la “trasformazione” – questa trasformazione del tasso di
plusvalore in tasso di profitto e del valore in prezzo di produzione – assume
significato politico e non formale di spiegazione scientifica dello
sfruttamento.
Quanto condiviso all’inizio circa la necessità di ritrovare
un’elaborazione teorica elevata è stato qui confermato dal nesso dello studio,
apparentemente astratto, della “trasformazione” unitamente alla dimostrazione
concretissima dello sfruttamento. Peraltro non è una connessione casuale o
secondaria per sostenere il ruolo non accademicamente vuoto della teoria a
fondamento “meditato per l’azione”. La altrimenti logora diatriba sul “problema
della trasformazione”, così riletta “politicamente”, rappresenta in realtà un
nodo teorico marxiano fondamentale. Tale connessione ha al suo centro, non a
caso, la forza-lavoro come merce, la sua compravendita e soprattutto il
suo uso capitalistico.
Sembra un paradosso dover richiedere ad alta voce il “diritto
a essere sfruttati”: ovvero, per i lavoratori, anzitutto il diritto a vendere
adeguatamente al suo valore la propria forza-lavoro. Basti immaginare
che cosa potrebbe significare per i padroni: dover pagare tutti i costi
effettivi (presenti e futuri, fiscali e contributivi) inerenti la loro
attività; non poter fruire di privilegi su tributi e interessi possibili,
complementarmente alla riduzione dei salari; essere invece obbligati a
rispettare le norme giuridiche vigenti (veridicità dei bilanci, normativa
finanziaria su acquisizioni, investimenti, gestioni borsistiche, ecc.); dover
evitare provvedimenti straordinari di copertura finanziaria (una tantum,
finte dismissioni di attività da parte dell’amministrazione pubblica coperte
con partite di giro “creative”, e via truccando), ecc. ecc.
Già questo sarebbe “eversivo”, se non rivoluzionario, per il
sistema. Figurarsi che reazione si susciterebbe se i lavoratori entrassero nel
merito dell’uso capitalistico della loro forza-lavoro, nel cui merito i
padroni da sempre dicono “vietato l’ingresso agli estranei”. E si tratta
soltanto di una questione interna al capitalismo, come il
“mercato del lavoro”: con rivendicazioni “riformiste”, a proposito della monetizzazione
e della normativa dello scambio, o di impronta “rivoluzionaria” circa le
modalità dell’uso. Ebbene tutti questi e altri risvolti – economici,
giuridici, istituzionali, politici in generale – potrebbero derivare
esclusivamente da una decisa presa di posizione sul corretto significato della forza-lavoro
come merce.
Dunque, la rivendicazione del valore della forza-lavoro
rappresenta una chiave di volta per i lavoratori salariati, come base
elementare di un “programma” di lotta, anzitutto sindacale, che parta
dalla loro posizione di classe antagonistica nella società del capitale (ciò
che Engels e Marx, fin dal Manifesto del partito comunista, chiamavano “programma
minimo”, in fasi che non presentavano le condizioni per una presa
rivoluzionaria di potere, e tanto meno per costruire una “transizione”
di tipo socialista). La vendita della forza-lavoro merce in quanto tale è una
questione sindacale, non è immediatamente politica e guarda unicamente
alla posizione sociale dei lavoratori, evocando però i rapporti di
proprietà dei lavoratori salariati.
Epperò in quest’ottica anche il programma di classe della
strategia sindacale non può non fondarsi sulle condizioni oggettive di
lavoro che si riferiscono alla generalità dei rapporti col capitale. Affinché
il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne
disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di
lavoro, della propria persona. Il processo sociale, la specificità della composizione
di classe della formazione sociale capitalistica, la coscienza di ciò, si
comprendono a partire dalla considerazione che il lavoratore salariato deve
vendere la sua capacità di lavoro ad altri, alienarla per un salario. Ma
per poter fare ciò, il lavoratore deve mettere pro tempore – come già
aveva osservato Hegel prima di Marx – la propria volontà a disposizione della
classe capitalistica, la quale può così sfruttare la forza-lavoro
altrui: e se il “valore” ha la potenzialità di mostrare tutto ciò, il “prezzo”
lo nasconde.
Il carattere dirompente di tale minima posizione
implica, tuttavia, una consapevolezza collettiva, una chiara coscienza di
classe. È proprio tale genere di coscienza che tutta la borghesia vuole
continuamente annullare. Il rabbassamento dell’attività lavorativa (uso) e
della compravendita della forza-lavoro (scambio) a problemi individuali, che
cioè riguardano ogni singolo lavoratore, costituisce la premessa metodologica
per svuotare il rapporto tra lavoro e capitale di qualsiasi carattere di
classe. Nell’ideologia la dimensione del rapporto di classe è fatta
scomparire, affinché sia annullata la coscienza della classe proletaria, in
maniera che rimanga operante, sotto le mentite spoglie della “libertà”, solo
quella borghese.
Nella pratica
capitalistica, storica e quotidiana, quell’ideologia serve appunto per
sostenere il presunto “interesse comune” di lavoro e capitale. Tutto ciò
rimanda alla moderna riedizione del corporativismo [il neocorporativismo]
per sottomettere le posizioni dei lavoratori al comando del capitale e ottenere
il pieno controllo del proletariato da parte dello stato della borghesia,
coartandone pure il “consenso”. Il consenso così estorto ai lavoratori per la
politica (economica, ma non solo) padronale ha raggiunto l’obiettivo cercato:
disarmare il proletariato, demonizzare la conflittualità, cercare l’armonia e
la pace sociale in un’ottica sempre più sottratta alla contrapposizione
delle classi e, quindi, alla lotta di classe dei lavoratori.
Ciò che in realtà è “neocorporativismo” è proposto con nomi
diversi e suadenti: “concertazione” (confindustria e sindacati),
“triangolazione” (quei due stessi più lo stato), “consociativismo” (per dare
l’idea del perseguimento di intenti sociali condivisi), ecc. Nonostante gli
aspetti prevalentemente “sindacali”, almeno in quanto riferibili al “lavoro”,
gli elementi qualificanti sono sempre stati di carattere politico. Nel
secondo dopoguerra le tendenze ideologiche democraticistiche del
neocorporativismo hanno largamente prevalso in tutti i paesi imperialistici
usciti dal conflitto bellico, pretendendo anche di assumere un “colore di
sinistra”.
La questione è presentata dai sicofanti della borghesia in
maniera del tutto differente, come se effettivamente tra lavoratori e
capitalisti (e stato) possa esserci identità di punti di vista. Perfino una qualsiasi
“dottrina” economica tradizionale sostiene il contrario, giacché quanto meno
sul mero piano distributivo pone l’aumento della quota di profitto in
opposizione a quella del salario. La teoria marxiana che lega trasformazione
a sfruttamento, al contrario, parte dalla dimostrazione analitica, prima
economica che politica, dell’antagonismo di classe. Ed è quanto serve per
risanare l’acqua e il bambino,
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