martedì 3 gennaio 2017

Che cos’è l’economia*- Vladimiro Giacché**

...alcune caratteristiche di fondo dell’economia neoclassica. Essa per un verso si trova in continuità con l’economia classica di Adam Smith e David Ricardo, sotto un duplice profilo: nel pensare che l’egoismo degli attori economici, unito alla concorrenza, dia luogo a un risultato positivo per la società, e nel ritenere che i mercati si riequilibrino da soli. 

D’altra parte però, rispetto agli economisti precedenti (e in particolare Smith, Ricardo e Marx), l’economia neoclassica si differenzia sotto almeno tre aspetti importanti: in primo luogo, sposta l’attenzione dalla produzione al consumo e allo scambio; in secondo luogo, sposta l’attenzione dall’offerta alla domanda (e più precisamente la domanda di un soggetto che è l’individuo egoista e razionale); in terzo luogo, accoglie come un dato di fatto la struttura sociale in essere.

Cosa manca all’economia neoclassica? Volendo sintetizzare, potremmo rispondere: la consapevolezza della storicità dei fenomeni economici, della complessità dell’interazione tra soggetto e società e del ruolo dell’ideologia nella costruzione stessa della teoria economica.

la prova della storicità dell’oggetto dell’economia si ricava dal mutamento stesso di significato del concetto di “economia” nel corso del tempo: quella che per noi è oggi l’economia per antonomasia (la produzione e lo scambio finalizzati al profitto), era definita «crematistica» (letteralmente: arte di arricchirsi) da Aristotele, che la giudicava contro natura; Aristotele chiamava invece «economia» (letteralmente: amministrazione della casa) e giudicava «secondo natura» esclusivamente quell’attività economica in cui produzione e scambio sono finalizzati al consumo.

Nella società che l’economista studia il comportamento umano interviene nel processo e ne altera i risultati.

Storicità e centralità del soggetto pongono due limitazioni alla “scientificità” (intesa sul modello delle scienze esatte) dell’economia:
1) le leggi economiche non sono valide per sempre, ma soltanto nel contesto di una determinata formazione economico-sociale (e ulteriori limitazioni sono determinate dal contesto giuridico, ecc.);
2) la soggettività umana interviene nel processo, modificando il significato che ha il concetto di previsione in ambito economico rispetto a quello valido nel contesto delle scienze esatte.
Infine, una terza limitazione ha un peso notevole: l'osservatore stesso fa parte del processo osservato.

Tutto questo non significa che non sia possibile un discorso scientifico sull'economia: significa che esso è relativo a contesti storicosociali definiti e soggetto a limitazioni tipiche delle scienze sociali. Ciò non toglie però che, entro un determinato modo di produzione, vi siano regolarità osservabili, fenomeni e strutture (pattern) che si ripetono.

La storia è importante per definire la prospettiva della ricerca economica anche in un altro senso. Non è importante solo la realtà della storia passata, ma anche la possibilità di una storia futura. È importante cioè, nello studio della società presente, ragionare anche sulle sue potenziali alternative.

Le colpe degli economisti in relazione alla crisi scoppiata nel 2007 non si limitano a errori di omissione. Essi con le loro teorie (una su tutte: la “teoria dei mercati efficienti”) hanno attivamente promosso e giustificato teoricamente quella deregulation del settore finanziario statunitense che a posteriori è stata considerata uno dei tasselli fondamentali della crisi. A crisi scoppiata, l’ingenua fiducia nei mercati ha lasciato poi il posto a un «attonito stupore».

La crisi del 2007/2008 è la crisi (probabilmente irreversibile) di un modello di sviluppo economico: il modello, inaugurato negli anni Ottanta, che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari, passati infatti in poco meno di trent’anni dal 119 per cento del Pil mondiale nel 1980 al 356 per cento nel 2007. Per tre decenni, la risposta al pericolo della stagnazione economica è stata rappresentata dall’espansione delle attività finanziarie, ossia da quello che Marx nel manoscritto del terzo libro del Capitale definiva «capitale produttivo d’interesse».

Questa espansione della finanza e del credito ha svolto negli anni che hanno preceduto la crisi tre funzioni.
In primo luogo, ha consentito di sostenere artificialmente i consumi pur in presenza di un’insufficiente capacità di spesa effettiva delle famiglie causata dal calo dei redditi da lavoro;
In secondo luogo, ha sostenuto interi settori industriali già afflitti da un cronico eccesso di capacità produttiva;
Infine, ha offerto la via di fuga della speculazione a capitali che trovavano ormai poco redditizio l’impiego industriale;

Nel 2007 questo modello di crescita a debito è saltato, e la crisi è esplosa in tutta la sua violenza.
Si è seguita la falsa narrazione che ha individuato l’origine della crisi europea nel debito pubblico, anziché nello squilibrio delle bilance commerciali tra i paesi dell’eurozona (a sua volta favorito dall’intervenuta impossibilità di aggiustamenti attraverso il tasso di cambio a seguito dell’introduzione della moneta unica). Si tratta evidentemente di una narrazione a forte contenuto ideologico, per cui – reaganianamente - lo Stato sarebbe il problema, il mercato la soluzione. Quale che ne sia l’origine, si tratta di una narrazione smentita dall’evidenza dei fatti.

Qual è, dunque, la reale dinamica della crisi europea? Proviamo a ricostruirla in estrema sintesi. Quando la crisi iniziata negli Stati Uniti attraversa l’Atlantico e si allarga all’Europa, emerge anche nel Vecchio Continente un eccesso di capacità produttiva mascherato dal ricorso all’indebitamento. Anche in questo caso, come negli Stati Uniti, si tratta soprattutto di indebitamento privato. A questo punto scoppia la crisi, in conseguenza della quale si innescano quattro processi, che provocano l’aumento del debito pubblico.

1) Socializzazione delle perdite del settore privato. Gli Stati mettono in gioco cifre ingentissime per impedire fallimenti su larga scala di grandi imprese private, soprattutto del settore finanziario.

2) Forte diminuizione del prodotto interno lordo e quindi peggioramento del rapporto debito/Pil. Questo ha avuto gravi conseguenze soprattutto in Italia, vista l’entità del debito ereditato dai decenni passati (che comunque dal picco della metà degli anni Novanta all’immediata vigilia della crisi era stato ridotto di circa 20 punti percentuali).

3) A causa della crisi si ha il crollo delle entrate fiscali, che aggrava la situazione debitoria degli Stati. In questo caso le conseguenze sono state particolarmente gravi per la Grecia, dove le minori entrate fiscali hanno impedito di nascondere più a lungo la reale situazione dei conti pubblici, che era stata coperta con trucchi contabili dai tempi dell’ingresso nell’euro.

4) Prosciugamento dei flussi di capitali esteri diretti verso alcuni paesi. Gli istituti bancari tedeschi e francesi, alle prese con gravi problemi di liquidità, iniziano a rimpatriare i capitali precedentemente investiti nei paesi periferici dell’eurozona. Viene così in evidenza il deficit della bilancia commerciale di questi ultimi e più in generale l’insostenibilità del loro debito complessivo verso l’estero.

A questo punto le politiche europee attribuiscono al problema del debito pubblico (effettivamente aumentato, ma per effetto della crisi) una priorità che, come abbiamo visto, contraddice il reale svolgimento degli eventi. Vengono quindi poste in essere politiche di bilancio restrittive. Gli effetti della priorità in tal modo attribuita al problema del debito pubblico sono molteplici.

1) L’opinione pubblica è distratta dall’effettivo obiettivo (il riequilibrio tra le bilance commerciali), ma al contempo tale obiettivo viene effettivamente perseguito attraverso la strada della svalutazione interna (essenzialmente la riduzione di salari e stipendi), in particolare per mezzo del consolidamento fiscale, attuato riducendo le spese sociali e pensionistiche dello Stato. In questo modo viene ridotta la domanda interna e quindi le importazioni, e riportata in equilibrio la bilancia commerciale.

2) Il consolidamento fiscale ha però anche l’effetto di privare paesi in crisi di domanda del ribilanciamento rappresentato dagli investimenti pubblici. Ciò non soltanto peggiora la crisi da domanda e gli effetti del ciclo economico, ma pone le premesse per una minore crescita (e competitività) anche futura.

3) La crisi da domanda manda in crisi molte imprese che producono esclusivamente o prevalentemente per il mercato interno. In tal modo la distruzione di capacità distruttiva in eccesso esistente a livello europeo viene localizzata in particolare in alcuni Paesi.

4) Infine, effetto solo in apparenza paradossale, il crollo del prodotto interno lordo causato dal sommarsi delle politiche di bilancio procicliche a una crisi già in atto accresce il rapporto debito/Pil e peggiora la sostenibilità del debito pubblico.

Un effetto non meno negativo ha però avuto il rifiuto dei paesi in avanzo (a cominciare dalla Germania) di reflazionare: in tal modo tutto il peso dell’aggiustamento è gravato sui paesi debitori, in presenza di un generalizzato indebolimento della crescita nell’eurozona.

Le politiche europee di contrasto alla crisi, che in realtà l’hanno aggravata, sono radicate in tre errori di comprensione delle dinamiche economiche da parte dell’establishment europeo, tra loro connessi e così sintetizzabili:

1. il rifiuto di considerare la realtà dei meccanismi economici che, nel contesto dell’area valutaria, sono alla base della divergenza tra Paesi e quindi della stessa crisi;
2. l'interpretazione “morale” delle divergenze economiche nell'eurozona. Secondo tale interpretazione i Paesi in deficit (debitori) sono sconsiderati, mentre i Paesi in avanzo (creditori) sono virtuosi.
3. la centralità attribuita al problema del debito pubblico, anziché agli squilibri delle bilance dei pagamenti.

«Nell’ottobre del 2011 David Cameron, primo ministro britannico, disse che tutti i cittadini del Regno unito avrebbero dovuto cercare di pagare i debiti delle rispettive carte di credito, senza rendersi conto che, se un certo numero di persone avesse davvero raccolto il suo invito e ridotto le spese per pagare i propri debiti, nell’economia inglese la domanda sarebbe crollata di colpo. Semplicemente, non aveva capito che le spese di una persona rappresentano il reddito di un’altra – finché non venne costretto dai suoi consiglieri a rimangiarsi quell’imbarazzante osservazione».

Se l’ex primo ministro inglese passerà alla storia, non sarà a motivo di questo errore di valutazione (altri hanno avuto un impatto decisamente maggiore). L’aneddoto citato può comunque essere utile, al fine di intendere l’importanza di un’economia che sappia andare oltre l’individualismo metodologico, e torni ad intendere le dinamiche economiche per quello che sono: dinamiche sociali, frutto di interazioni complesse e contraddittorie, non riducibili alla somma di comportamenti individuali né comprensibili in assenza della consapevolezza della storicità dei processi.



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