*Da: "Materialismo
Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane ”
**(Centro Europa Ricerche)
Leggi anche: http://www.emilianobrancaccio.it/2017/01/03/brancaccio-nellunione-europea-arrestare-i-capitali-non-i-migranti/
...alcune caratteristiche di fondo dell’economia
neoclassica. Essa per un verso si trova in continuità con l’economia classica
di Adam Smith e David Ricardo, sotto un duplice profilo: nel pensare che
l’egoismo degli attori economici, unito alla concorrenza, dia luogo a un
risultato positivo per la società, e nel ritenere che i mercati si
riequilibrino da soli.
D’altra parte però, rispetto agli economisti precedenti
(e in particolare Smith, Ricardo e Marx), l’economia neoclassica si differenzia
sotto almeno tre aspetti importanti: in primo luogo, sposta l’attenzione dalla
produzione al consumo e allo scambio; in secondo luogo, sposta l’attenzione
dall’offerta alla domanda (e più precisamente la domanda di un soggetto che è
l’individuo egoista e razionale); in terzo luogo, accoglie come un dato di
fatto la struttura sociale in essere.
Cosa manca all’economia neoclassica? Volendo sintetizzare,
potremmo rispondere: la consapevolezza della storicità dei fenomeni economici,
della complessità dell’interazione tra soggetto e società e del ruolo
dell’ideologia nella costruzione stessa della teoria economica.
la prova della storicità dell’oggetto dell’economia si
ricava dal mutamento stesso di significato del concetto di “economia” nel corso
del tempo: quella che per noi è oggi l’economia per antonomasia (la produzione
e lo scambio finalizzati al profitto), era definita «crematistica»
(letteralmente: arte di arricchirsi) da Aristotele, che la giudicava contro
natura; Aristotele chiamava invece «economia» (letteralmente: amministrazione
della casa) e giudicava «secondo natura» esclusivamente quell’attività economica
in cui produzione e scambio sono finalizzati al consumo.
Nella società che l’economista studia il comportamento umano
interviene nel processo e ne altera i risultati.
Storicità e centralità del soggetto pongono due limitazioni
alla “scientificità” (intesa sul modello delle scienze esatte) dell’economia:
1) le leggi economiche non sono valide per sempre, ma
soltanto nel contesto di una determinata formazione economico-sociale (e
ulteriori limitazioni sono determinate dal contesto giuridico, ecc.);
2) la soggettività umana interviene nel processo,
modificando il significato che ha il concetto di previsione in ambito economico
rispetto a quello valido nel contesto delle scienze esatte.
Infine, una terza limitazione ha un peso notevole:
l'osservatore stesso fa parte del processo osservato.
Tutto questo non significa che non sia possibile un discorso
scientifico sull'economia: significa che esso è relativo a contesti
storicosociali definiti e soggetto a limitazioni tipiche delle scienze sociali.
Ciò non toglie però che, entro un determinato modo di produzione, vi siano
regolarità osservabili, fenomeni e strutture (pattern) che si ripetono.
La storia è importante per definire la prospettiva della
ricerca economica anche in un altro senso. Non è importante solo la realtà
della storia passata, ma anche la possibilità di una storia futura. È
importante cioè, nello studio della società presente, ragionare anche sulle sue
potenziali alternative.
Le colpe degli economisti in relazione alla crisi scoppiata
nel 2007 non si limitano a errori di omissione. Essi con le loro teorie (una su
tutte: la “teoria dei mercati efficienti”) hanno attivamente promosso e
giustificato teoricamente quella deregulation del settore finanziario
statunitense che a posteriori è stata considerata uno dei tasselli fondamentali
della crisi. A crisi scoppiata, l’ingenua fiducia nei mercati ha lasciato poi
il posto a un «attonito stupore».
La crisi del 2007/2008 è la crisi (probabilmente
irreversibile) di un modello di sviluppo economico: il modello, inaugurato
negli anni Ottanta, che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici
avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari, passati
infatti in poco meno di trent’anni dal 119 per cento del Pil mondiale nel 1980
al 356 per cento nel 2007. Per tre decenni, la risposta al pericolo della
stagnazione economica è stata rappresentata dall’espansione delle attività
finanziarie, ossia da quello che Marx nel manoscritto del terzo libro del
Capitale definiva «capitale produttivo d’interesse».
Questa espansione della finanza e del credito ha svolto
negli anni che hanno preceduto la crisi tre funzioni.
In primo luogo, ha consentito di sostenere artificialmente i
consumi pur in presenza di un’insufficiente capacità di spesa effettiva delle
famiglie causata dal calo dei redditi da lavoro;
In secondo luogo, ha sostenuto interi settori industriali
già afflitti da un cronico eccesso di capacità produttiva;
Infine, ha offerto la via di fuga della speculazione a
capitali che trovavano ormai poco redditizio l’impiego industriale;
Nel 2007 questo modello di crescita a debito è saltato, e la
crisi è esplosa in tutta la sua violenza.
Si è seguita la falsa narrazione che ha individuato
l’origine della crisi europea nel debito pubblico, anziché nello squilibrio
delle bilance commerciali tra i paesi dell’eurozona (a sua volta favorito
dall’intervenuta impossibilità di aggiustamenti attraverso il tasso di cambio a
seguito dell’introduzione della moneta unica). Si tratta evidentemente di una
narrazione a forte contenuto ideologico, per cui – reaganianamente - lo Stato sarebbe il problema, il mercato la
soluzione. Quale che ne sia l’origine, si tratta di una narrazione smentita
dall’evidenza dei fatti.
Qual è, dunque, la reale dinamica della crisi europea?
Proviamo a ricostruirla in estrema sintesi. Quando la crisi iniziata negli
Stati Uniti attraversa l’Atlantico e si allarga all’Europa, emerge anche nel
Vecchio Continente un eccesso di capacità produttiva mascherato dal ricorso
all’indebitamento. Anche in questo caso, come negli Stati Uniti, si tratta
soprattutto di indebitamento privato. A questo punto scoppia la crisi, in
conseguenza della quale si innescano quattro processi, che provocano l’aumento
del debito pubblico.
1) Socializzazione
delle perdite del settore privato. Gli Stati mettono in gioco cifre
ingentissime per impedire fallimenti su larga scala di grandi imprese private,
soprattutto del settore finanziario.
2) Forte diminuizione
del prodotto interno lordo e quindi peggioramento del rapporto debito/Pil.
Questo ha avuto gravi conseguenze soprattutto in Italia, vista l’entità del
debito ereditato dai decenni passati (che comunque dal picco della metà degli
anni Novanta all’immediata vigilia della crisi era stato ridotto di circa 20
punti percentuali).
3) A causa della crisi si ha il crollo delle entrate fiscali, che aggrava la situazione debitoria
degli Stati. In questo caso le conseguenze sono state particolarmente gravi per
la Grecia, dove le minori entrate fiscali hanno impedito di nascondere più a
lungo la reale situazione dei conti pubblici, che era stata coperta con trucchi
contabili dai tempi dell’ingresso nell’euro.
4) Prosciugamento dei
flussi di capitali esteri diretti verso alcuni paesi. Gli istituti bancari
tedeschi e francesi, alle prese con gravi problemi di liquidità, iniziano a
rimpatriare i capitali precedentemente investiti nei paesi periferici
dell’eurozona. Viene così in evidenza il deficit della bilancia commerciale di
questi ultimi e più in generale l’insostenibilità del loro debito complessivo
verso l’estero.
A questo punto le politiche europee attribuiscono al
problema del debito pubblico (effettivamente aumentato, ma per effetto della
crisi) una priorità che, come abbiamo visto, contraddice il reale svolgimento
degli eventi. Vengono quindi poste in essere politiche di bilancio restrittive.
Gli effetti della priorità in tal modo attribuita al problema del debito
pubblico sono molteplici.
1) L’opinione pubblica è distratta dall’effettivo obiettivo
(il riequilibrio tra le bilance commerciali), ma al contempo tale obiettivo
viene effettivamente perseguito attraverso la strada della svalutazione interna
(essenzialmente la riduzione di salari e stipendi), in particolare per mezzo
del consolidamento fiscale, attuato riducendo le spese sociali e pensionistiche
dello Stato. In questo modo viene ridotta la domanda interna e quindi le
importazioni, e riportata in equilibrio la bilancia commerciale.
2) Il consolidamento fiscale ha però anche l’effetto di
privare paesi in crisi di domanda del ribilanciamento rappresentato dagli
investimenti pubblici. Ciò non soltanto peggiora la crisi da domanda e gli
effetti del ciclo economico, ma pone le premesse per una minore crescita (e
competitività) anche futura.
3) La crisi da domanda manda in crisi molte imprese che
producono esclusivamente o prevalentemente per il mercato interno. In tal modo
la distruzione di capacità distruttiva in eccesso esistente a livello europeo
viene localizzata in particolare in alcuni Paesi.
4) Infine, effetto solo in apparenza paradossale, il crollo
del prodotto interno lordo causato dal sommarsi delle politiche di bilancio
procicliche a una crisi già in atto accresce il rapporto debito/Pil e peggiora la
sostenibilità del debito pubblico.
Un effetto non meno negativo ha però avuto il rifiuto dei
paesi in avanzo (a cominciare dalla Germania) di reflazionare: in tal modo
tutto il peso dell’aggiustamento è gravato sui paesi debitori, in presenza di
un generalizzato indebolimento della crescita nell’eurozona.
Le politiche europee di contrasto alla crisi, che in realtà
l’hanno aggravata, sono radicate in tre errori di comprensione delle dinamiche
economiche da parte dell’establishment
europeo, tra loro connessi e così sintetizzabili:
1. il rifiuto di considerare la realtà dei meccanismi
economici che, nel contesto dell’area valutaria, sono alla base della
divergenza tra Paesi e quindi della stessa crisi;
2. l'interpretazione “morale” delle divergenze economiche
nell'eurozona. Secondo tale interpretazione i Paesi in deficit (debitori) sono
sconsiderati, mentre i Paesi in avanzo (creditori) sono virtuosi.
3. la centralità attribuita al problema del debito pubblico,
anziché agli squilibri delle bilance dei pagamenti.
«Nell’ottobre del 2011
David Cameron, primo ministro britannico, disse che tutti i cittadini del Regno
unito avrebbero dovuto cercare di pagare i debiti delle rispettive carte di
credito, senza rendersi conto che, se un certo numero di persone avesse davvero
raccolto il suo invito e ridotto le spese per pagare i propri debiti,
nell’economia inglese la domanda sarebbe crollata di colpo. Semplicemente, non
aveva capito che le spese di una persona rappresentano il reddito di un’altra –
finché non venne costretto dai suoi consiglieri a rimangiarsi quell’imbarazzante
osservazione».
Se l’ex primo ministro inglese passerà alla storia, non sarà
a motivo di questo errore di valutazione (altri hanno avuto un impatto
decisamente maggiore). L’aneddoto citato può comunque essere utile, al fine di
intendere l’importanza di un’economia che sappia andare oltre l’individualismo
metodologico, e torni ad intendere le dinamiche economiche per quello che sono:
dinamiche sociali, frutto di interazioni complesse e contraddittorie, non
riducibili alla somma di comportamenti individuali né comprensibili in assenza
della consapevolezza della storicità dei processi.
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