giovedì 19 gennaio 2017

Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro*- Karl Marx

 *Scritto nell'autunno del 1843 e pubblicato nell'unico numero degli "Annali franco-tedeschi" nel febbraio del 1844.    https://www.marxists.org/ 




AL SUO CARO PATERNO AMICO
IL CONSIGLIERE SEGRETO DI GOVERNO SIGNOR LUDWIG VON WESTFALEN DI TREVIRI
QUESTE RIGHE SEGNO DI FILIALE AFFETTO
L'AUTORE DEDICA

Perdonerà, mio caro paterno Amico, se premetto il Suo nome a me così caro ad un opuscolo senza importanza. Son troppo impaziente per attendere un'altra occasione di darLe una piccola prova del mio affetto.
Possano quanti dubitano dell'Idea avere come me la ventura di ammirare un vecchio giovanilmente vigoroso, che ogni progresso dei tempi saluta con l'entusiasmo e insieme la saggezza della verità, e che con quell'idealismo profondamente convinto e solarmente luminoso, che solo conosce la parola vera, evocatrice degli spiriti tutti del mondo, non mai si ritrasse tremante davanti alle ombre proiettate dagli spiriti retrogradi, davanti al cielo dei suoi tempi sovente oscurato da fosche nubi, ma con divina energia e con sguardo virilmente sicuro sempre, attraverso tutti i mascheramenti, guardò all’empireo, che arde nel cuore del mondo. Ella, mio paterno Amico, fu sempre per me un vivente argumentum ad oculos che l’idealismo non è un’immaginazione, ma è una verità. Non ho bisogno di far voti per la Sua salute fisica: lo Spirito è il grande magico medico, cui Ella si è affidata.

PREFAZIONE

La forma di questo lavoro sarebbe da un lato più rigorosamente scientifica, dall'altro, in vari punti, meno pedante di quanto non sia se la sua destinazione originaria non fosse stata quella di una dissertazione di laurea. A darlo tuttavia alle stampe in questa forma sono indotto da motivi estrinseci. Inoltre credo di aver risolto in esso un                 problema della storia della filosofia greca rimasto finora insoluto.

Gli esperti sanno che per l'argomento di questa trattazione non v'è alcun lavoro preparatorio in qualche modo utilizzabile. Le chiacchiere che hanno fatte Cicerone e Plutarco sono state ripetute fino ad oggi. Gassendi, che liberò Epicuro dall'interdetto col quale lo avevano colpito i Padri della Chiesa e tutto il Medioevo, l'età dell'irrazionalità in atto, non è che un momento interessante. Egli si studia di trovare un accomodamento della sua coscienza cattolica con la sua cultura pagana e di Epicuro con la Chiesa: fatica, invero, vana. È come se si volesse gettare sul corpo serenamente florido della greca Laide una cristiana tonaca monacale. Dalla filosofia di Epicuro Gassendi impara piuttosto che saperci erudire intorno alla medesima.

Si consideri questa trattazione solo come premessa di uno scritto più ampio, nel quale esporrò specificatamente il ciclo delle filosofie epicurea, stoica e scettica nei loro nessi con tutta la speculazione greca. I difetti del presente lavoro in fatto di forma e cose del genere saranno colà eliminati.

Hegel ha certo fissato, nel complesso, con esattezza le linee generali dei menzionati sistemi; ma da una parte, data la mirabile vastità e arditezza del piano della sua storia della filosofia, dalla quale soltanto la storia della filosofia stessa può datarsi, era impossibile entrare nei particolari, dall’altra al gigantesco pensatore la sua veduta intorno a ciò che egli chiamava speculativo per eccellenza impediva di riconoscere l'alta importanza che questi sistemi hanno per la storia della filosofia greca e per lo spirito greco in generale. Tali sistemi sono la chiave della vera storia della filosofia greca. Sul loro legame con la vita greca si trova un cenno più approfondito nello scritto del mio amico Köppen Federico il Grande e i suoi avversati.

Se come appendice è stata aggiunta una critica della polemica plutarchea contro la teologia di Epicuro, ciò è avvenuto perché questa polemica non è qualche cosa di isolato, ma è la rappresentante di una specie, in quanto illustra molto efficacemente il rapporto dell'intelletto teologizzante con la filosofia.

In questa critica non si accenna, tra l'altro, a quanto falsa sia la posizione Plutarco in generale quando trae la filosofia davanti al tribunale della religione. Basti su ciò, invece di qualunque ragionamento, un passo di David Hume. “È certamente una specie di ingiuria per la filosofia quando la si costringe, essa la cui sovranità dovrebbe essere riconosciuta dappertutto, a difendersi in ogni questione a causa delle conseguenze cui conduce, ed a giustificarsi presso ogni arte ed ogni scienza che da essa prenda scandalo. II pensiero corre qui ad un re che venga accusato di alto tradimento verso t suoi sudditi”. La filosofia, fintanto che una goccia di sangue ancora pulserà nel suo cuore assolutamente libero, dominatore dell'universo, griderà sempre agli avversari con Epicuro:
 asebhV de ouc o touV pollwn qeouV anairwn, all’o taV twn pollwn doxaV weoiV prosaptwn (“empio non è colui che nega gli dèi del volgo, ma colui che attribuisce agli dèi i sentimenti del volgo”).

La filosofia non fa mistero di ciò. La confessione di Prometeo: aplw logw touV pantaV ecqairw qeouV (“francamente, io odio tutti gli dèi”) è la sua propria confessione, la sentenza sua propria contro tutte le divinità celesti e terrestri che non riconoscono come suprema divinità l'autocoscienza umana. Nessuno può starle a fianco.
Alle tristi lepri marzoline, che gioiscono della apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo replica al servo degli dèi Ermete:
           thV shV latreiaV thn emhn duspraxian, safwV epistas’, ouk av allaxaim’egw. Kreisson gar oimai thde latrueien petra h patri funai Zhni pistov aggelon. (“io, t’assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedel messaggero esser di Giove”) Prometeo è il più grande santo e martire del calendario filosofico.

Berlino, marzo 1841.
H. K. MARX

PARTE I
DIFFERENZA TRA LE FILOSOFIE NATURALI DI DEMOCRITO E EPICURO IN GENERALE

ARGOMENTO DELLA TRATTAZIONE

Alla filosofia greca sembra capitare ciò che capitare non deve ad una buona tragedia: un finale fiacco. Con Aristotele, l'Alessandro Magno della filosofia greca, sembra che termini la storia obbiettiva della filosofia in Grecia; ed agli stessi Stoici, virilmente forti, sembra che non riesca ciò che riuscì agli Spartani nei loro templi, d'incatenare cioè Atena ad Eracle, sì da impedirle la fuga. Epicurei, Stoici, Scettici vengono considerati come un'aggiunta non pertinente, senza rapporto alcuno con le sue grandiose premesse. La filosofia epicurea - si pensa - è un aggregato sincretistico di fisica democritea e morale cirenaica; lo stoicismo un'unione di speculazione naturalistica eraclitea, etica cinica e forse anche logica aristotelica; lo scetticismo, infine, il male necessario opponentesi a queste forme di dogmatismo. Si collegano dunque inconsapevolmente queste filosofie con quella alessandrina, considerandole non altro che un eclettismo unilaterale e tendenzioso. La filosofia alessandrina infine viene intesa come una forma di fanatismo e scompiglio ad oltranza, come una confusione, di cui tutto al più è da riconoscere un intento universalistico.

Ora, si enuncia certamente una molto triviale verità quando si afferma che il nascere, il fiorire e il perire sono il cerchio di ferro in cui è imprigionato tutto ciò che è umano, la parabola che questo deve percorrere. Così non sarebbe affatto strano che la filosofia greca, dopo aver raggiunto il più alto splendore in Aristotele, appassisse. Ma la morte degli eroi somiglia al tramonto del sole, non allo scoppiare d'una rana che s'è gonfiata. E poi il nascere, il fiorire e il perire sono rappresentazioni del tutto generiche, del tutto vaghe, nelle quali si può includere ogni cosa, ma con le quali nulla è dato comprendere. Lo stesso declino è preformato nella realtà vivente; la sua forma si potrebbe perciò cogliere in una specifica particolarità proprio come la forma della vita.

Infine, se gettiamo uno sguardo alla storia, possiamo forse dire che epicureismo, stoicismo e scetticismo sono fenomeni particolari? Non. sono essi i prototipi dello spirito romano? la forma in cui la Grecia migra verso Roma? Non sono essi così pieni di carattere, così vigorosi ed eterni che lo stesso mondo moderno ha dovuto conceder loro il diritto di piena cittadinanza spirituale?

Pongo in risalto ciò unicamente per richiamare alla memoria l'importanza storica di questi sistemi; ma qui non si tratta della loro importanza generale per la cultura, si tratta del loro nesso con la filosofia greca precedente.

Non ci si dovrebbe, per quanto riguarda questo nesso, sentire per lo meno spronati ad indagare se la filosofia greca termini con due diversi gruppi di sistemi eclettici, dei quali uno è costituito dal ciclo delle filosofie epicurea, stoica e scettica e l'altro è compreso sotto il nome di speculazione alessandrina? Non è inoltre un fenomeno singolare che dopo le filosofie platonica ed aristotelica, il cui campo di indagine si estende fino ad abbracciare la totalità dei problemi, sorgano nuovi sistemi che non s'appoggiano a questi grandi spiriti, ma, guardando più indietro, si rifanno alle scuole più semplici: per quanto riguarda la fisica, ai filosofi naturalisti; per quanto riguarda l'etica, alle scuole socratiche? E qual'è la ragione per cui i sistemi che seguono a quello di Aristotele trovano i loro fondamenti già pronti nel passato? per cui Democrito vien messo insieme con i Cirenaici ed Eraclito con i Cinici? È per un puro caso che negli Epicurei, negli Stoici e negli Scettici tutti i momenti dell'autocoscienza sono rappresentati compiutamente e solo ciascun momento è posto come un'esistenza particolare? che questi sistemi, nel loro insieme, danno luogo alla costruzione completa dell'autocoscienza? Finalmente il carattere con il quale la filosofia greca miticamente incomincia con i sette Savi, e che, per così dire, nel suo centro s'impersona in Socrate quale suo demiurgo, il carattere, dico, del saggio - del sofo - è per caso che in quei sistemi è affermato come la realtà della vera scienza?

Mi sembra che, se i sistemi precedenti sono più significativi ed interessanti per il contenuto, quelli postaristotelici, e segnatamente il ciclo delle scuole epicurea, stoica e scettica lo siano per la forma soggettiva, per il carattere della filosofia greca. Ma proprio la forma soggettiva, la struttura spirituale dei sistemi filosofici è stata finora quasi compitamente dimenticata a vantaggio delle loro configurazioni metafisiche.

Riservo ad una più particolareggiata indagine la trattazione delle filosofie epicurea, stoica e scettica nel loro insieme e nel loro totale rapporto con la filosofia greca precedente e successiva. Basti qui esaminare questo rapporto, per cosi dire, in un esempio, ed anche da un lato solo, cioè come nesso con la speculazione precedente. Questo esempio lo scelgo nel rapporto della filosofia naturale di Epicuro con quella di Democrito. Non credo che esso sia il punto di attacco più comodo. Da un lato infatti sta il vecchio accettato preconcetto della identità della fisica democritea e della fisica epicurea, che ha portato a vedere nelle modifiche arrecate da Epicuro solo delle trovate arbitrarie; dall'altro sono costretto, per quanto concerne i particolari, ad incorrere in apparenti micrologie. Ma proprio perché quel preconcetto è antico quanto la storia della filosofia, perché le differenze sono cosi nascoste da scoprirsi, per cosi dire, solo al microscopio, sarà tanto più importante lo scoprire, eventualmente, una differenza essenziale, interessante fin gli elementi più minuti, tra la fisica democritea e la fisica epicurea, nonostante il legame che le unisce. Ciò che si può dimostrare nel piccolo è più facile dimostrare là dove i rapporti si riscontrano in più ampie dimensioni, mentre invece delle considerazioni del tutto generali lasciano il dubbio se il risultato sarà confermato nei particolari.

II
GIUDIZI INTORNO AL RAPPORTO TRA LA FISICA DEMOCRITEA E LA FISICA EPICUREA

Quale sia la mia posizione rispetto a quella di coloro che mi hanno preceduto, salterà agli occhi se si esamineranno rapidamente i giudizi degli antichi intorno al rapporto tra la fisica democritea e la fisica epicurea.

Posidonio Stoico, Nicolao e Sozione rinfacciano ad Epicuro di aver spacciato per propria la dottrina democritea intorno agli atomi e quella di Aristippo intorno al piacere. L'accademico Cotta domanda in Cicerone: “Che cosa vi sarebbe nella fisica di Epicuro che non appartenga a Democrito? Egli modifica, certo, qual- che cosa, ma per la maggior parte ripete Democrito” . Così lo stesso Cicerone dice: “Nella fisica, nella quale soprattutto si pavoneggia, Epicuro è un perfetto straniero. Il più appartiene a Democrito; là dove egli se ne discosta, là dove pretende di correggere, guasta e peggiora” . Ma, sebbene da molte parti si accusi Epicuro di recare oltraggio a Democrito, afferma invece Leonteo, secondo Plutarco, che Epicuro ha reso onore a Democrito, avendo mostrato come questi abbia professato prima di lui la vera dottrina, abbia già scoperto i principi della natura. Nello scritto “De placitis philosophorum” Epicuro è citato come uno che filosofa secondo i dettami di Democrito. Plutarco nel suo “Colote” va più oltre: confrontando Epicuro successivamente con Democrito, Empedocle, Parmenide, Fiatone, Socrate, Stilpone, i Cirenaici e gli Accademici, cerca di pervenire a questo risultato: che “Epicuro di tutta la filosofia greca si è appropriato il falso e non ha capito il vero”. Parimenti il trattato “De eo, quod secundum Epicurum non beate vivi possit” è pieno di consimili malevole insinuazioni.

Questo giudizio sfavorevole degli scrittori antichi rimane inalterato nei Padri della Chiesa. Cito in nota solo un passo di Clemente Alessandrino, cioè di un Padre della Chiesa che nei confronti di Epicuro merita speciale menzione, giacché vede il monito dell'apostolo Paolo riguardo alla filosofia in generale come rivolto contro la filosofia epicurea, come quella che non ha neppure esercitato la sua fantasia sulla Provvidenza ed altri argomenti del genere. Ma come si fosse generalmente inclini ad imputare plagi ad Epicuro, dimostra nella maniera più efficace Sesto Empirico, il quale pretende di spacciare alcuni passi del tutto fuori luogo di Omero ed Epicarmo per fonti principali della filosofia epicurea.

Che anche gli scrittori moderni riducano, in sostanza, Epicuro, in quanto filosofo naturalista, ad un semplice plagiario di Democrito, è noto. Cito la seguente battuta di Leibniz come rappresentativa del loro giudizio in generale: “Nous ne savons presqup de ce grand homme (Démocrite) que ce qu'Épicure en a emprunté, qui n'était pas capable d'en prendre toujours le meilleur”. Se dunque Cicerone pensa che Epicuro abbia peggiorato la dottrina di Democrito, ma pure gli riconosce l'intenzione di correggerla e l'occhio per vederne i difetti; se Plutarco gli attribuisce incoerenza ed una predisposizione al peggio, inficiandone così anche la volontà; Leibniz gli contesta addirittura la capacità di fare un semplice escerto esatto di Democrito.

III
DIFFICOLTA’ CIRCA L’IDENTITA’ DELLE FILOSOFIE NATURALI DI DEMOCRITO ED EPICURO

Oltre alle testimonianze storiche, molto depone a favore della identità tra la fisica democritea e quella epicurea. I princìpi - atomi e vuoto - sono innegabilmente gli stessi. Solo in singole determinazioni sembra sussistere un'arbitraria e pertanto non sostanziale diversità.

Rimane però, in tal modo, uno strano, insolubile enigma: due filosofi insegnano l'identica dottrina, nell'identica maniera, ma - quale incongruenza! - essi sono diametralmente opposti l'uno all'altro in tutto ciò che riflette verità, certezza, applicazione della dottrina e, in generale, rapporto tra pensiero e realtà. Sono diametralmente opposti l'uno all'altro, dico, ed ora cercherò di provarlo.

A) Difficile assodare il giudizio di Democrito sulla verità e certezza dell'umano sapere. Ci si trova di fronte a passi o, più che a passi, a concetti contraddittori, che l'affermazione del Trendelenburg nel commentario alla “Psicologia” di Aristotele, sapere di tali contraddizioni non Aristotele ma solo scrittori posteriori, è errata di fatto. Nella “Psicologia” di Aristotele si legge: “Democrito concepisce anima ed intelletto come una sola e medesima cosa, poiché per lui il fenomeno è il vero”; nella “Metafisica” invece: “Democrito afferma che niente è vero, o che la verità rimane a noi nascosta”. Non si contraddicono forse questi due passi di Aristotele? Se il fenomeno è il vero, come può questo esser nascosto? Il suo esser nascosto incomincia solo quando fenomeno e verità si separano. Diogene Laerzio riferisce però che Democrito è stato annoverato tra gli Scettici. Si citano le parole: “In verità nulla sappiamo, giacché la verità sta in fondo al pozzo”. Qualche cosa di simile si riscontra in Sesto Empirico.

Questa veduta scettica, incerta e intimamente contraddittoria di Democrito non è che ulteriormente sviluppata nella sua determinazione del rapporto dell'atomo col mondo quale appare alla nostra sensibilità. Da un lato la manifestazione sensibile non è attribuibile agli atomi in se stessi. Essa non è manifestazione oggettiva, ma è parvenza soggettiva. “I veri princìpi sono gli atomi e il vuoto; ogni altra cosa è opinione, parvenza”. “Solo secondo l'opinione è il freddo, secondo l'opinione è il caldo; secondo verità sono, invece, gli atomi e il vuoto”. Dalla molteplicità degli atomi non si genera dunque, veramente, 1' uno , ma “per l'unione degli atomi ogni cosa sembra diventare una”. Da contemplare con la ragione sono quindi solo i princìpi, che già per la loro piccolezza sono inaccessibili all'occhio sensibile, e perciò sono chiamati addirittura idee. Ma, d'altro canto, la manifestazione sensibile è l'unico oggetto vero, e l’ aisqhsiV è la fronhsiV ; ma questo vero è anche mutevole, instabile: è fenomeno. Ma che il fenomeno sia il vero è affermazione contraddittoria. Ora dunque un aspetto ed ora l' altro è considerato soggettivo o oggettivo. La contraddizione sembra così risolversi con la separazione dei due mondi. Democrito considera insomma apparenza soggettiva la realtà sensibile; ma l'antinomia, bandita dal mondo degli oggetti, sussiste ora nella sua propria autocoscienza, nella quale si scontrano il concetto di atomo e l'intuizione sensibile. Democrito dunque non sfugge all' antinomia. Di spiegarla non è ancora questo il luogo: ci basti concludere che la sua esistenza non può negarsi. Sentiamo invece Epicuro. Il saggio - egli dice - si comporta dogmaticamente, non scetticamente . Anzi, la sua posizione di vantaggio di fronte a tutti stà proprio nel fatto che egli sa con convinzione. “I sensi tutti sono araldi del vero”. “Niente può confutare la percezione sensibile: né l’ omogenea m virtù dell’egual validità, ne l'eterogenea giacchè esse non giudicano intorno allo stesso oggetto, nè il concetto, giacché il concetto dipende dalla percezione sensibile” si, legge ne1 Canone. Mentre però Democrito riduce il mondo sensibile a parvenza soggettiva, Epicuro lo considera manifestazione oggettiva. E scientemente egli si differenzia in questo: infatti afferma di condividere gli stessi princìpi, ma di non fare delle qualità sensibili i1 puro opinato. Se dunque la percezione sensibile fu il criterio di Epicuro, se ad essa corrisponde la manifestazione oggettiva, si può considerare come logica conseguenza soltanto ciò su cui Cicerone fa un'alzata di spalle: “II sole sembra grande a Democrito, perché egli è uno scienziato ed ha una compiuta conoscenza della geometria; della grandezza di circa due piedi ad Epicuro, perché egli pensa che esso è grande tanto quanto appare”.

B) Questa differenza tra i giudizi teorici di Democrito e quelli di Epicuro intorno alla certezza della scienza ed alla verità dei suoi oggetti si attua nella differenza di energia e prassi scientifica tra questi uomini. Democrito, per il quale il principio non si manifesta, ma resta senza realtà e senza esistenza, ha invece davanti a sé, come mondo reale e ricco di contenuto, il mondo della percezione sensibile. Esso è, sì, parvenza soggettiva, ma appunto per questo è avulso dal principio e sussiste nella sua autonoma realtà; unico oggetto reale al tempo stesso, ha valore e significato in quanto tale. Democrito è spinto perciò ali' osservazione empirica. Insoddisfatto della filosofia, si getta nelle braccia del sapere positivo. Abbiamo già visto che Cicerone lo chiama vir eruditus . Nella fisica, nell'etica, nella matematica, nelle discipline liberali, in ogni arte egli è versato. Già il catalogo bibliografico di Diogene Laerzio attesta la sua erudiziene. E poiché la caratteristica dell'erudizione è l'estendersi e il raccogliere e il cercare nella realtà esteriore, vediamo Democrito girare mezzo mondo per scambiare esperienze, cognizioni, osservazioni. “Io - si vanta - ho tra i miei contemporanei errato per la più gran parte della terra, indagando le cose più lontane; e vidi il maggior numero di cieli e di paesi, ed ascoltai i più degli uomini dotti, e nella composizione delle linee con dimostrazione nessuno mi superò, neanche i cosiddetti Arpedonapti d'Egitto”. Demetrio negli omwvumoi e Antistene nelle diadocai riferiscono che egli si recò in Egitto dai sacerdoti per imparare geometria ed in Persia dai Caldei, e che si portò fino al Mar Rosso. Alcuni affermano anche che s'incontrò con i Gimnosofisti in India e che fu in Etiopia. Da una parte è la brama di sapere che non gli da riposo, ma è, nel contempo, l'insoddisfazione del sapere vero, cioè del sapere filosofico, che lo spinge ad errare per il mondo. Il sapere che ritiene vero è privo di contenuto, il sapere che gli offre un contenuto è privo di verità. Sarà una favola, ma è una favola vera, in quanto descrive la contraddittorietà della natura di Democrito, l'aneddoto degli antichi, essersi egli accecato affinchè la visione sensibile non offuscasse 1'acutezza dello spirito. Egli è quello stesso uomo che, come dice Cicerone, aveva girato mezzo mondo. Ma non aveva trovato ciò che cercava.

Una figura opposta ci appare in Epicuro. Egli è pago e beato nella filosofia. “La filosofia - egli dice - deve servire per ottenere la vera libertà. Non ha da attendere colui che le si è sottomesso ed affidato; subito è emancipato. Che lo stesso servire la filosofia è libertà”. “Nè il giovanetto - egli insegna perciò - indugi a filosofare, nè dal filosofare desista il vecchio. Nessuno infatti è troppo immaturo,nessuno troppo maturo per guarire nell'anima. Ma chi dice ancora non è tempo di filosofare o che il tempo è passato è simile ad uno che affermi che per la felicità ancora non è giunta l'ora o che questa non è più”. Mentre Democrito, insoddisfatto della filosofia, si getta nelle braccia del sapere empirico, Epicuro disprezza le scienze positive, giacché nessun contributo esse recano alla vera perfezione. Nemico della scienza, dispregiatore della grammatica è chiamato. Addirittura di ignoranza lo si accusa; “ma - dice un epicureo in Cicerone - non Epicuro fu privo di erudizione, ma ignoranti sono coloro che credono che ciò che è vergogna per il ragazzo non sapere ce lo debba poi ripetere il vecchio”.
Mentre però Democrito si studia di apprendere dai sacerdoti egiziani, dai Caldei persiani e dai Gimnosofisti indiani, Epicuro si vanta di non aver avuto nessun maestro, di essere un autodidatta. Alcuni, egli dice secondo Seneca, lottano per la conquista della verità senza nessun aiuto. Tra questi si è fatto egli stesso la strada. E gli autodidatti loda il più possibile. Gli altri sono teste di secondo ordine. Mentre l'amore della verità spinge Democrito in tutte le contrade del mondo, Epicuro lascia solo due o tré volte il suo giardino di Atene e va nella Ionia non per fare delle ricerche, ma per visitare degli amici. Mentre infine Democrito, disperando del sapere, si acceca, Epicuro, allorché sente avvicinarsi l'ora della morte, scende in un bagno caldo, e chiede del vino schietto, e raccomanda agli amici di rimanere fedeli alla filosofia.

C) I punti di differenziazione testé esposti non sono da attribuire alla casuale individualità dei due filosofi: sono due opposti orientamenti che prendono corpo. Noi vediamo come differenza di energia pratica ciò che dianzi si è espresso come differenza di coscienza teoretica.

Considereremo infine la forma di riflessione con cui è presentato il riferimento del pensiero all'essere e il rapporto tra essi. Nel rapporto generale che il filosofo pone tra il mondo ed il pensiero egli non fa che obbiettivare a se stesso il modo in cui la sua autocoscienza individuale si atteggia di fronte al mondo reale.

Democrito dunque fa della necessità la forma di riflessione della realtà. Aristotele dice che egli riconduce ogni cosa alla necessità. Diogene Laerzio riferisce che il vortice degli atomi, da cui tutto deriva, è la necessità democritea. Più soddisfacentemente dice in proposito l'autore del “De placitis philosophorum” che la necessità è per Democrito il destino e la legge e la provvidenza è la creatrice del mondo, ma che la sostanza di questa necessità sono l'antitipia e il movimento e l'urto della materia. Un passo consimile si trova nelle “Egloghe fisiche” di Stobeo e nel sesto libro della “Praeparatio Evangelica” di Eusebio. Nelle “Egloghe etiche” di Stobeo ci è conservata la seguente sentenza di Democrito, ripetuta quasi testualmente nel XIV libro di Eusebio: gli uomini si foggiarono il simulacro del caso, manifestazione della loro propria stoltezza che con un pensare robusto è in lotta il caso Parimenti Simplicio vede in un passo in cui Aristotele parla dell’ antica dottrina negatrice del caso un'allusione a Democrito.

Al contrario Epicuro: “La necessità, da alcuni introdotta come la dominatrice suprema, non è, ma una cosa è causale, un'altra dipende dal nostro arbitrio. La necessità è refrattaria alla persuasione, il caso invece è instabile. Meglio sarebbe seguire il mito degli dèi anziché essere servo della eimarmenh dei fisici; chè quello lascia speranza di misericordia per l'onore degli dèi, questa invece ci dà la spietata necessità. Ma il caso, non Dio, come crede il volgo, è da ammettere. È una sventura vivere nella necessità, ma vivere nella necessità non è una necessità. Aperte sono dappertutto le vie della libertà molte, brevi, facili. Ringraziamo dunque Iddio per il fatto che nessuno può esser trattenuto in vita. Domare la stessa necessità è consentito”.

Qualche cosa di simile dice l'epicureo Velleio in Cicerone intorno alla filosofia stoica: “che cosa si deve pensare di una filosofia alla quale, come a vecchie bagasce ignoranti tutto sembra avvenire per opera del fato? .. Da Epicuro siamo stati redenti, siamo stati messi in libertà”.

Così Epicuro nega financo il giudizio disgiuntivo per non dover ammettere nessuna forma di necessità.

Anche di Democrito si afferma, in verità, che ha fatto ricorso al caso, ma dei due passi relativi, che si trovano in Simplicio, uno rende sospetto l'altro, in quanto mostra chiaramente che Democrito non ha fatto uso delle categorie del caso, ma che Simplicio gliele ha attribuite come conseguenza. Egli dice cioè che Democrito non fornisce in generale prova alcuna della formazione del mondo, e che pertanto sembra fare del caso il fondamento del mondo stesso.

Qui non si tratta più della determinazione del contenuto, ma della forma che Democrito ha consapevolmente usata. Lo stesso è da dire del riferimento di Eusebio, avere Democrito fatto del caso il dominatore dell'universale e del divino ed affermato che qui tutto avviene per opera sua, tenendolo invece lontano dalla vita umana e dal mondo empirico, e dando dell'insensato a coloro che se ne fanno gli araldi.

In parte noi vediamo in ciò una semplice conseguenza ammannitaci dal vescovo Dionigi ; in parte, là dove comincia l'universale e il divino, il concetto democriteo della necessità cessa di differenziarsi da quello del caso.

Di storicamente sicuro rimane pertanto questo: che Democrito fa ricorso alla necessità ed Epicuro al caso, e che in verità ciascuno rigetta con irritazione polemica la opposta veduta. La conseguenza principale di questo divario appare nella maniera come vengono spiegati i singoli fenomeni fisici.

La necessità si manifesta dunque nell'infinita natura come necessità relativa, come determinismo. La necessità relativa può esser dedotta solo dalla possibilità reale: essa cioè è mediata da tutta una serie di condizioni, cause, fondamenti, ecc. La possibilità reale è l'esplicazione della necessità relativa. E noi la troviamo in Democrito. Ci documenteremo con alcuni passi di Simplicio.

Se uno ha sete e beve e si soddisfa, Democrito non indicherà come causa il caso, ma la sete. Chè, anche se egli sembra ricorrere al caso in riferimento alla origine del mondo, afferma tuttavia che esso è causa di nulla in particolare, ma riconduce ad altre cause. Così, per esempio, lo scavare è la causa del rinvenimento del tesoro, o la crescita è la causa della formazione dell'ulivo.

L'entusiasmo e la serietà con cui Democrito segue questo metodo di spiegazione nella indagine naturalistica, l'importanza che egli attribuisce alla ricerca delle cause si rivelano ingenuamente nella confessione: “Preferisco trovare una nuova eziologia anziché ottenere la corona di Persia”.

Anche in questo Epicuro è in una posizione del tutto opposta rispetto a Democrito. Il caso è una realtà che ha solo valore di possibilità, ma la possibilità astratta è proprio agli antipodi della possibilità reale. Quest'ultima è racchiusa in netti confini, come l'intelletto; la prima è sconfinata, come la fantasia. La possibilità reale cerca di spiegare la necessità e realtà del suo oggetto; quella astratta riguarda non l'oggetto che è spiegato, ma il soggetto che spiega. L'oggetto deve essere semplicemente possibile, pensabile. Ciò che è astrattamente possibile, ciò che può essere pensato non è in contrasto col soggetto pensante, non costituisce per lui un limite, una pietra d'inciampo. Se tale possibilità sia anche reale, è indifferente, giacché l'interesse non si estende qui all'oggetto in quanto oggetto.

Epicuro procede perciò con immensa nonchalance nella spiegazione dei singoli fenomeni fisici. Ciò apparirà più direttamente nella “Lettera a Pitocle”, che avremo da considerare in seguito. Basti ora fare attenzione al suo atteggiamento di fronte alle opinioni dei fisici precedenti. Quando l'autore del “De placitis philosophorum” e Stobeo riportano le diverse vedute dei filosofi circa la sostanza degli astri, la grandezza e forma del sole e cose simili, di Epicuro si legge sempre che non respinge nessuna di queste opinioni: tutte potrebbero essere esatte, ed egli si attiene al possibile. Anzi Epicuro polemizza sovente con le spiegazioni intellettualisticamente determinanti, e perciò unilaterali, fondate sulla possibilità reale. Cosi dice Seneca nelle sue “Quaestiones naturales” che Epicuro afferma che tutte quelle cause potrebbero sussistere, e tenta ancora parecchie altre spiegazioni, e biasima coloro i quali asseriscono che tra queste ve ne sia qualcuna determinata, essendo, secondo lui, arrischiato giudicare apoditticamente su ciò che è ricavabile solo da congetture.

Come si vede, non v'è interesse a ricercare le cause reali degli oggetti. Si tratta solo d'un appagamento del soggetto spiegante. Ammettendo come possibile tutto il possibile - il che corrisponde al carattere della possibilità astratta -, manifestamente non si fa altro che tradurre il caso dell'essere nel caso del pensare. L'unica regola che Epicuro prescrive, “la spiegazione non sia in contrasto con la percezione sensibile”, si comprende da sé, in quanto il possibile astratto consiste appunto nell'esser privo di contraddizioni, e la contraddizione pertanto va evitata. Epicuro infine confessa che le sue spiegazioni mirano solo alla atarassia dell'autocoscienza non alla conoscenza della natura in sé e per sé.

Quanto nettamente il suo atteggiamento contrasti in ciò con quello di Democrito, è cosa che non ha bisogno di altre prove.

Vediamo dunque i due uomini starsi a fronte continuamente. L'uno è scettico, l'altro dogmatico; l'uno ritiene parvenza soggettiva il mondo sensibile, l'altro lo ritiene manifestazione oggettiva. Colui che ritiene parvenza soggettiva il mondo sensibile si getta sulla scienza empirica della natura e sulle conoscenze positive, ed impersona l'irrequietezza della osservazione, che sperimenta, e dovunque apprende e si estende; l'altro, che ritiene reale il mondo delle apparenze, disprezza la empiria ed impersona la calma del pensiero soddisfatto di sé, l’autonomia che attinge il suo sapere ex principio interno . Ma il contrasto si fa ancora più acuto. Lo scettico ed empirico, per il quale la natura sensibile si risolve in parvenza soggettiva, la considera dal punto di vista della necessità, e cerca di spiegare e di comprendere l’esistenza reale delle cose; il filosofo e dogmatico invece, che considera reale il fenomeno, in ogni cosa non vede altro che il caso; e le sue spiegazioni portano soprattutto alla soppressione di ogni realtà oggettiva della natura. Un che d’assurdo sembra esservi in questi contrasti.

A stento si può ancora credere che questi uomini, che si contraddicono in tutto, seguiranno poi la stessa dottrina. E tuttavia sembrano incatenati l'uno all'altro.

Comprendere la loro situazione nelle linee generali sarà compito del prossimo capitolo .

PARTE II
DELLA DIFFERENZA TRA LA FISICA DEMOCRITEA E LA FISICA EPICUREA IN PARTICOLARE

I
LA DECLINAZIONE DELL’ATOMO DALLA LINEA RETTA

Epicuro ammette un triplice movimento degli atomi nel vuoto: l'uno è quello della caduta rettilinea; l'altro ha origine dalla deviazione dell'atomo dalla linea retta; il terzo è prodotto dalla repulsione degli atomi. L'ammissione del primo e dell'ultimo movimento Democrito ha in comune con Epicuro, la declinazione dell'atomo dalla linea retta segna la differenza di questo dall'altro.

Molte cose poco serie sono state dette su questo movimento di declinazione. Cicerone più di ogni altro è inesauribile quando tocca questo tema. Così si legge in lui, tra l'altro: “Epicuro afferma che gli atomi sono spinti in giù in linea retta dal loro peso, e che questo è il movimento naturale dei corpi. Ma poi apparve evidente che se tutti gli atomi fossero spinti dall'alto verso il basso, nessuno potrebbe mai toccare l'altro. Costui si rifugiò allora in una menzogna: disse che l'atomo devia appena un po'; il che peraltro è affatto impossibile. Cosi avrebbero origine aggregazioni, unioni e adesioni di atomi tra loro e da queste il mondo e tutte le parti del mondo e ciò che in esso è. A prescindere dal fatto che ciò è una puerile immaginazione, egli non raggiunge neanche il suo intento”. Un altro passo troviamo in Cicerone nel primo libro de “La natura degli dèi”: “Vedendo che, se gli atomi fossero spinti in basso dal loro proprio peso, nulla sarebbe in nostro potere, giacché il loro movimento sarebbe determinato e necessario, Epicuro escogitò un mezzo per evitare la necessità, il che era sfuggito a Democnto. Egli dice che l'atomo, sebbene sia spinto dall’ alto verso il basso dal suo peso, devia un tantino. Affermare ciò e più vergognoso che non poter difendere il proprio assunto” .

Similmente giudica Pierre Bayle: “Avant lui [Épicure] on n’ avait admis dans les atomes que le mouvement de pesanteur et colui de réflexion. Épicure supposa, que méme au milieu du vide les atomes dédinaiem un peu de la ligne droite; et de là venait la liberté, disait-il... Remarquons en passant que ce ne fut le seni motif, qui le porta a inventer ce mouvement de déclination; il le fit servir aussi a expliquer la rencontre des atomes, car il vit bien, qu'en supposant, qu’ ils se mouvaient avec une égale vitesse par des lignes droites, qui tendaient toutes de haut en bas il ne ferait jamais comprendre qu'ils eussent pu se rencontrer et qu’ aussi la production du monde aurait été impossible; II fallut donc, qu'ils s'écartaient de la ligne droite”. Per il momento non discuto la validità di queste osservazioni. Ognuno intanto potrà notare che il più recente critico di Epicuro, Schaubach, fraintende Cicerone quando dice: “gli atomi sarebbero spinti tutti in basso dal peso, e duqnue per ragioni fisiche, parallelamente, ma riceverebbero dall’ urto reciproco un altro movimento, secondo Cicerone (De natura deorum, I 25) un movimento obliquo per cause fortuite, e precisamente fin dall’ eternità” . Cicerone nel passo citato anzitutto non fa dell’ urto la causa della direzione obliqua, al contrario fa di questa la causa dell'urto. Inoltre non parla di cause fortuite, viceversa biasima il fatto che non viene indicata nessuna causa, osservando come sarebbe intimamente contraddittorio spiegare la direzione obliqua, nel contempo, con l'urto e con cause fortuite. Al più potrebbe parlarsi di cause fortuite dell’ urto ma non del movimento obliquo.

Una singolarità nelle considerazioni di Cicerone e di Bayle e, del resto, troppo evidente per non essere subito notata. Essi attribuiscono ad Epicuro dei motivi che si elidono a vicenda. Epicuro avrebbe ammessa la declinazione una volta per spiegare la repulsione, un'altra per spiegare la libertà. Ma se gli atomi non s'incontrano senza declinazione, questa è superflua per la spiegazione della libertà; chè il contrario della libertà sorge, come apprendiamo da Lucrezio, con l’ incontro deterministico e violento degli atomi. Chè se invece gli atomi s'incontrano senza declinazione, essa è superflua per la spiegazione della repulsione. Io dico che questa contraddizione nasce quando le cause della declinazione dell'atomo dalla linea retta vengono concepite nella materia estrinseca e sconnessa di Cicerone e di Bayle. In Lucrezio, che solo fra tutti gli antichi ha capito la fisica epicurea, troveremo un’esposizione più profonda.

Passeremo ora a considerare la declinazione stessa

Come il punto si risolve nella linea, così ogni corpo che cade si risolve nella retta che esso descrive. Qui non interessano affatto le sue qualità specifiche. Una mela descrive nella caduta una verticale al modo stesso di un pezzo di ferro. Ogni corpo, concepito in movimento di caduta non è altro quindi che un punto che si muove, e precisamente è un punto privo di autonomia, che in una determinata forma di esistenza - la retta che esso descrive - _ perde la sua individualità. Giustamente osserva perciò Aristotele contro i Pitagorici: “Voi dite che il movimento della linea è la superficie, e che quello del punto è la linea; anche i movimenti delle monadi saranno pertanto delle linee”. La conseguenza di ciò, sia nelle monadi sia negli atomi, sarebbe dunque, essendo essi in continuo movimento, che non esistono nè monade nè atomo, ma che essi si' risolvono nella retta; giacché la solidità dell'atomo non esiste nemmeno ancora, in quanto esso viene concepito soltanto come cadente in linea retta. Anzitutto, se il vuoto è rappresentato come vuoto spaziale, l'atomo è la negazione immediata dell'astratta spazialità, vale a dire è un punto spaziale. La solidità, l'intensità, che si afferma di contro alla esteriorità spaziale, può sopraggiungere solo mediante un principio che neghi in tutto e per tutto lo spazio, quale è il tempo nella natura reale.

Inoltre, ove non si voglia ammettere ciò, l'atomo, in quanto Il suo movimento è una retta, è determinato semplicemente Dallo spazio, deve accettare un modo d'essere relativo, ed ha un'esistenza puramente materiale. Ma noi abbiamo visto che nel concetto di atomo uno dei due momenti è l'essere pura forma, negazione di ogni relatività, di ogni rapporto con un'altra esistenza. Abbiamo notato, al tempo stesso, che Epicuro obiettivizza i due momenti, che si contraddicono, è vero, ma che sono contenuti nel concetto di atomo. Ora, come può Epicuro tradurre in atto la pura determinazione formale dell'atomo, il concetto della pura individualità, negatore di ogni esistenza determinata da un'altra?

Siccome egli si muove sul terreno dell'essere immediato, immediate sono tutte le determinazioni. Le più contrastanti determinazioni sono poste come realtà immediate. Ma l’esistenza negativa, che si contrappone all'atomo il modo d'essere che esso deve negare è la retta. La negazione immediata di questo movimento è dunque un altro movimento, anche esso rappresentato spazialmente: la declinazione dalla linea retta.

Gli atomi non sono altro che corpi autonomi o, piuttosto, il corpo, pensato come assolutamente autonomo, come i corpi celesti. Come questi essi si muovono perciò non in linea retta ma obliquamente. Il movimento di caduta è il movimento del non-atomo. Se dunque nel movimento rettilineo dell'atomo Epicuro ne rappresenta la materialità, nella declinazione dalla linea retta ne ha attuato la determinazione formale, e queste opposte determinazioni vengono presentate come movimenti immediatamente contrastanti.

Con ragione afferma perciò Lucrezio che la declinazione rompe i fati foedera ; e poiché egli applica subito ciò alla coscienza, si può dire dell'atomo che la declinazione sia quel quid ad esso interiore che può contrastare e resistere.

Ma quando Cicerone dice di Epicuro, rimproverandolo, che “non raggiunge neanche lo scopo per cui ha inventato questo, giacché, se tutti gli atomi declinassero, non si unirebbero mai, o alcuni devierebbero mentre altri sarebbero spinti dal loro movimento sempre in linea retta”, e che “si dovrebbe perciò assegnare, per così dire, agli atomi posti determinati, si dovrebbe cioè stabilire quali debbono muoversi rettilineamente e quali obliquamente”, questo rilievo ha la sua giustificazione nel fatto che i due momenti contenuti nel concetto di atomo sono rappresentati come movimenti immediatamente diversi, e che perciò andrebbero attribuiti patimenti ad individualità diverse; incongruenza, questa, che ha una sua consequenzialità, in quanto la vera anima dell'atomo è l'immediatezza. Epicuro ben si accorge della contraddizione in ciò contenuta. Per questo cerca di rappresentare la declinazione quanto più può in forma non sensibile. Essa non è nec regione loci certa nec tempore certo ed avviene nel più piccolo spazio possibile. Inoltre Cicerone e, secondo Plutarco, molti fra gli antichi biasimano il fatto che la declinazione dell'atomo avviene senza una causa. Niente di più vergognoso, a detta di Cicerone, può capitare ad un fisico. Senonché, anzitutto una causa fisica, quale Cicerone vuole, ributterebbe la declinazione dell'atomo nella serie dei fatti deterministicamente producentisi, dalla quale essa proprio dovrebbe svincolare; e poi l'atomo ancora non è compiuto prima di essere determinato dalla declinazione. Ricercare la causa di questa determinazione significa perciò ricercare la causa che fa dell'atomo un principio: ricerca palesemente senza senso per chi consideri l'atomo causa del tutto e quindi esso stesso senza causa. Bayle, infine, appoggiandosi all'autorità di Agostino, secondo il quale Democrito avrebbe attribuito agli atomi un principio spirituale - autorità, del resto, che, dato il contrasto con Aristotele e gli altri antichi, è trascurabile -, rimprovera ad Epicuro di avere escogitato, invece di questo principio spirituale, la declinazione; ma con l'anima dell'atomo non si guadagnerebbe che una vuota parola, mentre nella declinazione è rappresentata la vera anima dell’ atomo, il concetto dell'astratta individualità. Prima di passare a considerare la conseguenza della decimazione dell'atomo è ancora da porre in risalto un momento di somma importanza, finora del tutto trascurato. La declinazione dell'atomo dalla linea retta non è una determinazione particolare, che ricorra casualmente nella fisica epicurea. La legge che essa esprime vale invece per tutta la filosofia epicurea, tanto che, come si comprende a prima vista, la determinatezza della sua manifestazione dipende dalla sfera nella quale si applica . L'astratta individualità può cioè attuare il suo concetto, la sua determinazione formale il puro esser-per-sé, l'indipendenza dall'esistenza immediata, la soppressione di ogni relatività solo col suo astrarre dall'esistenza che le si contrappone; chè, per superarla veramente, dovrebbe idealizzarla, il che è dato solo all'universalità. Come dunque l'atomo si libera dalla sua esistenza relativa, la retta, da essa astraendo da essa discostandosi, così tutta la filosofia epicurea si discosta dall’esistenza limitatrice in tutti i casi in cui il concetto dell’ astratta singolarità, l'autonomia e la negazione di ogni rapporto con l'altro debbono essere rappresentati esistenzialmente. Così lo scopo dell'agire è l'astrarsi, il ritrarsi dal dolore e dal turbamento, l'atarassia. Così il buono è la fuga dal cattivo, il piacere il ritrarsi dalla pena. Infine, allorché l'astratta individualità appare nella sua suprema libertà ed autonomia, nella sua totalità, conseguentemente 1’ esistenza, dalla quale ci si ritrae, è 1' esistenza tutta; e perciò gli dèi si ritraggono dal mondo, e di esso non si curano, e dimorano al di fuori del medesimo.

Ci si è fatti beffe di questi dèi di Epicuro, che, simili agli uomini, se ne stanno negli intermundi del mondo reale, non hanno corpo ma un quasi-corpo, non hanno sangue, ma un quasi-sangue, e, perseverando nella loro beata tranquillità, non esaudiscono alcuna implorazione, incuranti di noi e del mondo, e vengono onorati per la loro bellezza, la loro maestà e la loro natura privilegiata e non per vantaggio alcuno. Eppure questi dèi non sono una finzione di Epicuro.

Essi sono esistiti. Sono le plastiche divinità Dell’arte greca . Cicerone, il romano, ironizza con ragione su di loro, ma Plutarco, il greco, ha dimenticato tutta la concezione ellenica quando pensa che in questa questa dottrina sugli dèi si racchiudano timore e superstizione, che essa non dia gioia e favore agli dèi, ma ci ponga con loro nello stesso rapporto in cui siamo con i pesci ircani, dai quali non attendiamo ne danno ne profitto. La calma teorica è un momento fondamentale del carattere delle divinità elleniche, secondo il detto di Aristotele: “Ciò che è l'ottimo non ha bisogno di azione alcuna, perché esso stesso è il fine” . Prenderemo ora in considerazione la conseguenza che immediatamente deriva dalla declinazione dell'atomo. In questa è espresso il concetto che l'atomo nega ogni movimento ed ogni relazione in cui sia determinato da un altro come esistenza particolare. Il che è rappresentato con l'astrazione dell'atomo dall'esistenza che gli sta di fronte e col suo sottrarsi alla medesima. Ma la negazione da parte dell'atomo di ogni rapporto con l'altro, contenuta nell'esposto concetto, deve essere tradotta in atto, deve diventare positiva. Ciò può aver luogo solo in quanto l'esistenza, cui l'atomo si riferisce, non è nient’ altro che esso stesso, e cioè, parimenti, un atomo, e, poiché essa stessa ha una determinazione immediata, è la pluralità degli atomi. Così la repulsione dei molteplici atomi è l'attuazione necessaria della lex atomi , come Lucrezio chiama la declinazione. Ma poiché ogni determinazione è qui posta come un'esistenza particolare, la repulsione si aggiunge ai precedenti come terzo movimento. Giustamente dice Lucrezio che, se gli atomi non solessero declinare, non si sarebbero prodotti nè urti reciproci né incontri tra gli stessi atomi, e non si sarebbe mai formato il mondo. Chè gli atomi costituiscono l'unico oggetto di se stessi, possono essere in rapporto solo con se stessi, e pertanto, esprimendoci in termini spaziali, scontrarsi, in quanto ogni esistenza relativa dei medesimi, nella quale essi siano in rapporto con l'altro da loro, è negata; e questa esistenza relativa è, come abbiamo visto, il loro movimento originario, quello della caduta rettilinea. Essi si scontrano dunque solo mediante la declinazione. Il che non ha nulla a che fare con la semplice scissione materiale. E invero l'individualità nella sua immediatezza si attua, secondo il suo concetto, solo ponendosi in rapporto con un'altra realtà, che è se stessa, anche se quest'altra si presenta nella forma dell'esistenza immediata. Così l'uomo cessa di essere un prodotto della natura solo quando l'altro, con cui egli è in rapporto, è non un'esistenza diversa ma anch'esso un'individualità umana, anche se non è ancora lo spirito. Ma perché l'uomo, in quanto uomo, diventi il suo unico oggetto reale, deve avere in sé infranto la sua esistenza relativa, la potenza dei desideri e della mera natura. La repulsione è la prima forma dell'autocoscienza, e corrisponde pertanto all'autocoscienza che si apprende come essere immediato, come astratta individualità.

Nella repulsione è dunque attuato il concetto dell’ atomo, secondo cui esso è l'astratta forma e, del pari, il contrario, l'astratta materia; poiché ciò con cui l'atomo è in rapporto sono, sì, atomi, ma altri atomi. Ma se io mi comporto con me stesso come con un altro in senso immediato, il mio è un comportamento materiale. È la massima esteriorità che possa pensarsi. Nella repulsione degli atomi dunque la materialità dei medesimi, espressa nella caduta rettilinea, e la loro determinazione formale, espressa nella declinazione sono unite in una sintesi.

Democrito, in contrasto con Epicuro, concepisce come un moto violento, un'opera della cieca necessità ciò che per questo è l'attuazione del concetto di atomo. Già abbiamo visto come egli indichi quale sostanza della necessità il vortice ( dinh ) originato dalla repulsione e dall’ urto degli atomi. Egli vede dunque nella repulsione solo gli aspetti materiali, la scissione, il mutamento, non l'aspetto ideale in base al quale è negato ogni rapporto con l'altro ed il movimento è posto come autodeterminazione. Ciò appare chiaro dal fatto che si raffigura in guisa del tutto sensibile lo stesso corpo diviso in molti dallo spazio vuoto, come oro che sia diviso in pezzi. Non vede insomma nell'uno il concetto di atomo.

Giustamente polemizza con lui Aristotele : “sarebbe perciò da domandare a Leucippo e a Democrito, i quali affermano che i primi corpi si muovevano nel vuoto e nell'infinito, di che genere sia il movimento e quale il movimento adeguato alla loro natura. Giacché, se ognuno degli elementi è mosso dall'altro con violenza, è pur sempre necessario che ognuno abbia anche un movimento naturale, oltre a quello violento; e questo primo movimento deve essere non violento, sibbene naturale. Diversamente si ha un processo all'infinito”.

La declinazione epicurea dell'atomo ha mutato dunque tutta la struttura interna del mondo degli atomi, in quanto per suo mezzo ha luogo la determinazione della forma e si attua il contrasto insito nel concetto di atomo. Epicuro ha pertanto affermato per primo, anche se in forma sensibile, la natura della repulsione, mentre Democrito ne ha conosciuto soltanto l'esistenza materiale.

È per questo che troviamo in Epicuro anche forme più concrete di repulsione: nel campo politico il contratto, nel campo sociale 1' amicizia, esaltata come bene supremo.

II
LE QUALITA’ DELL’ATOMO

Contrasta col concetto di atomo l'avere delle qualità; ogni qualità infatti, al dire di Epicuro, è mutevole, mentre gli atomi non mutano. Nondimeno l'attribuire ad essi delle qualità è una conseguenza necessaria del detto concetto. Chè i molteplici atomi della repulsione i quali sono separati dallo spazio sensibile, debbono di necessità differenziarsi immediatamente l'u no dall'altro e dalla loro pura essenza e cioè possedere delle qualità.

Non prenderò pertanto affatto in considerazione nelle pagine seguenti l'affermazione dello Schneider e del Nürnberger, non avere Epicuro attribuito qualità agli atomi, ed essere i parr. 44 e 54 della “Lettera ad Erodoto” in Diogene Laerzio interpolati. Se la cosa stesse realmente così, come si potrebbe infirmare la testimonianza di Lucrezio, di Plutarco, anzi di tutti gli scrittori che parlano di Epicuro?

Inoltre Diogene Laerzio fa menzione delle qualità dell'atomo non in due ma in dieci paragrafi, e propriamente nei parr. 42, 43, 44, 54, 55, 56, 57, 58, 59 e 61. Il motivo addotto da quei critici, non sapere essi accordare le qualità dell'atomo col suo concetto, è molto superficiale. Spinoza dice che 1’ ignoranza non è un argomento. Se ognuno volesse espungere dagli antichi i passi che non comprende, come s’avrebbe presto tabula rasa ! Mediante le qualità l'atomo ottiene un'esistenza che contrasta col suo concetto, ed è posto come esigenza esteriorizzata, distinta dalla sua essenza. Questo contrasto è di sommo interesse per Epicuro. Appena dunque egli pone una qualità, traendo in tal modo la conseguenza della natura materiale dell'atomo, contrappone, ad un tempo, delle determinazioni che annullano di nuovo questa qualità nella sfera sua propria, e viceversa ridanno valore al concetto di atomo. Egli determina perciò le qualità tutte in guisa che siano in contrasto tra loro. Democrito invece non considera mai le qualità in rapporto all'atomo stesso, nè obiettivizza il contrasto in esse sussistente tra concetto ed esistenza. Tutto il suo interesse è rivolto piuttosto a rappresentare le qualità nel loro rapporto con la natura concreta che da esse deve essere costituita. Esse sono per lui semplici ipotesi per la spiegazione della varietà fenomenica. Il concetto di atomo non ha dunque nulla a che fare con le qualità.

Per provare il nostro assunto dobbiamo anzitutto intenderci con le fonti che in proposito sembrano contraddirsi.

Nello scritto “De placitis philosophorum” si legge: “Epicuro afferma che agli atomi convengono queste tré qualità: grandezza, forma, peso. Democrito ne ammise solo due: grandezza e forma; Epicuro aggiunse ad esse come terza qualità il peso”. Questo passo si trova ripetuto testualmente nella “Praeparatio Evangelica” di Eusebio. Esso viene convalidato dalla testimonianza di Simplicio e diFilopono, secondo cui Democrito avrebbe attribuito agli atomi solo una differenza di grandezza e di forma. Agli antipodi sta Aristotele , il quale nel primo libro del “De generatione et corruptione” attribuisce agli atomi di Democrito una differenza di pes; e altrove (nel primo libro del “De caelo”) lascia sospesa la questione se Democrito abbia o meno ammesso il peso degli atomi, dicendo: “Nessun corpo dunque sarà assolutamente leggero, se tutti i corpi hanno peso; se tutti poi hanno leggerezza, nessuno sarà pesante”. Il Ritter, nella sua “Storia della filosofia antica”, respinge, seguendo la veduta di Aristotele, i riferimenti che si trovano in Plutarco, Eusebio e Stobeo , e non prende in considerazione le testimonianze di Simplicio e Filopono.

Vediamo se quei passi veramente si contraddicono tanto. Nelle citazioni da noi fatte Aristotele non parla ex professo delle qualità dell'atomo. Al contrario si legge nel settimo libro della “Metafisica”: “Democrito considera tré differenze tra gli atomi. Per lui infatti il corpo base è, quanto alla materia, uno e identico a se stesso; esso però vana per il rusmoV , cioè per la forma, per la troph , cioè per a posizione o per la diaqigh cioè per l'ordine. Dal quale passo risulta senz'altro che il peso non è menzionato come una qualità degli atomi democritei. Le particelle di materia, tenute separate tra loro dal vuoto, debbono avere forme particolari, e queste sono ricavate del tutto estrinsecamente dalla considerazione dello spazio. Ciò emerge ancor più chiaramente da questo passo di Aristotele: “Leucippo e il suo compagno Democrito dicono che gli elementi sono il pieno e il vuoto... Questi sono, per loro, il fondamento dell’ essere in quanto materia. Al modo stesso dunque di coloro i quali ammettono una sola sostanza fondamentale, e il resto ricavano dalle affezioni della medesima, supponendo il sottile e lo spesso quali principi delle qualità, anche questi insegnano che le differenze tra gli atomi sono cause di tutto il resto, distinguendosi l'essere fondamentale solo per rusmoV , diaqigh e troph …Così A si distingue da N per la forma, AN da NA per l'ordine, Z da N per la posizione”.

Risulta evidente da questo passo che Democrito considera le qualità degli atomi solo in rapporto all'origine delle differenze nel mondo fenomenico, non in rapporto all'atomo stesso. Risulta inoltre che egli non dà particolare risalto al peso come a qualità essenziale degli atomi. Il peso, per lui, è cosa ovvia, in quanto tutto ciò che è corporeo è pesante. Parimenti la stessa grandezza non è per lui una qualità fondamentale: è una determinazione accidentale data agli atomi in una con la figura. Solo la diversità delle figure lo interessa, che null'altro si contiene nella forma, nella situazione e nella posizione. Grandezza, forma, peso, presi nel loro insieme, come fa Epicuro, sono differenze che l'atomo ha in se stesso; forma, situazione, ordine sono differenze che esso ha in rapporto ad un altro. Mentre dunque in Democrito troviamo semplici determinazioni ipotetiche per la spiegazione del mondo fenomenico, vedremo esposta da Epicuro la conseguenza del principio stesso. Considereremo perciò partitamente le sue determinazioni delle qualità dell'atomo.

Anzitutto gli atomi hanno grandezza. D'altra parte anche la grandezza è negata. Essi cioè non hanno ogni grandezza, ma bisogna ritenere semplicemente che tra loro avvenga un certo scambio di grandezza. Ad essi anzi è da attribuire solo la negazione del grande, il piccolo, e neanche il minimo - questo sarebbe infatti una determinazione meramente spaziale -, sibbene l'infinitamente piccolo, che esprime la contraddizione. Il Rosini pertanto, nelle sue annotazioni ai frammenti di Epicuro, traduce erratamente un passo e trascura del tutto l'altro quando scrive: “huius modi autem tenuitatem atomorum incredibili parvitate arguebat Epicurus, utpote quasi nulla magnitudine praeditas aiebat teste Laertio X 44”. Non voglio tener conto del fatto che, secondo Eusebio , Epicuro ha attribuito per primo una piccolezza infinita agli atomi mentre Democrito ha ammesso anche i più grandi atomi (grandi quanto il mondo, dice addirittura Stobeo).

Da una parte ciò è in contrasto con la testimonianza di Aristotele, dall'altra Eusebio o, meglio, il vescovo alessandrino Dionigi, il cui pensiero egli riassume, è in contraddizione con se stesso; nello stesso libro infatti si legge che Democrito ha supposto, quali princìpi della natura, dei corpi contemplati con la ragione. Risulta chiaro però che Democrito non è cosciente della contraddizione; questa non gli dà da fare, mentre costituisce l'interesse precipuo di Epicuro.

La seconda proprietà degli atomi epicurei e la forma. Ma anche questa determinazione contraddice al concetto di atomo, e bisogna ammettere il suo contrario. L'astratta individualità è l'astratto eguale-a-sé, e pertanto non ha forma. Le differenze di forma degli atomi sono perciò indeterminabili, ma non sono assolutamente infinite. Piuttosto è dal numero determinato e finito di forme che gli atomi vengono differenziati. Risulta ovviamente da ciò che non vi sono tante figure diverse quanti sono gli atomi, mentre Democrito ne ammette infinite. Se ogni atomo avesse una forma particolare, dovrebbero esservi atomi di grandezza infinita, giacché essi avrebbero in sé una differenza infinita, la differenza da tutti gli altri, come le monadi leibniziane. L affermazione di Leibniz, non esservi due cose eguali tra loro, viene pertanto rovesciata: vi sono infatti atomi della stessa forma. Col che manifestamente è di nuovo negata la determinazione della forma, non essendo forma una forma che non si distingue più dalle altre.

Di somma importanza è infine il fatto che Epicuro indica come terza qualità il peso; giacché nel centro di gravità la materia possiede l'individualità ideale, costituente una determinazione fondamentale dell'atomo. Se gli atomi dunque sono trasferiti nel piano della rappresentazione, debbono essere anche pesanti.

Ma il peso contrasta anche direttamente col concetto di atomo; esso è infatti l'individualità dalla materia quale punto ideale posto al di fuori della stessa. Ma l'atomo e appunto questa individualità, il centro di gravita, per così dire rappresentato come esistenza individuale. Il peso esiste dunque, per Epicuro, solo come peso differente, e oli atomi sono essi stessi sostanziali centri di gravità, come i corpi celesti. Applicando ciò al concreto ne risulta senz'altro quello che il vecchio Brucker trova tanto strano e di cui Lucrezio ci assicura , cioè che la terra non ha un centro, cui ogni cosa tenda e che non ci sono antipodi. Poiché inoltre il peso è solo dell'atomo diverso dagli altri e pertanto esteriorizzato e dotato di proprietà, si comprende che, pensando gli atomi molteplici non nella loro differenza reciproca ma soltanto in rapporto al vuoto, la determinazione del peso cessa di essere.

Gli atomi, per diversi che possano essere nella massa e nella forma, si muovono perciò con eguale velocità nello spazio vuoto. Epicuro parla dunque di peso solo nella repulsione e nelle composizioni da essa originate: il che ha dato luogo all'affermazione che solo conglomerati di atomi, non gli atomi stessi hanno peso.

Gassendi loda Epicuro per avere egli, guidato soltanto dalla ragione, anticipato l'esperienza secondo la quale tutti i corpi, sebbene quanto mai diversi per peso, hanno tuttavia eguale velocità quando cadono dall'alto in basso.

La considerazione delle proprietà degli atomi ci da quindi lo stesso risultato della considerazione della declinazione, e cioè che Epicuro ha obiettivizzato la contraddizione, nel concetto di atomo, tra essenza ed esistenza, e così ha costruito la scienza atomistica, mentre in Democrito non si trova nessuna attuazione del principio stesso, ma solo vengon fissati gli aspetti materiali ed avanzate ipotesi ai fini dell'empiria.

III
ATOMOI ARCAI ED ATOMA STOICEIA

Afferma lo Schaubach nella sua già ricordata trattazione intorno ai concetti astronomici di Epicuro: “Epicuro ha fatto, con Aristotele , una distinzione tra princìpi (atomoi arcai: Diog. Laerz. X 41) ed elementi (atoma stoiceia : Diog. Laerz. X 86). I primi sono gli atomi conoscibili solo con l’intelletto, e non occupano spazio. Essi son detti atomi non perché siano i più piccoli tra i corpi, ma perché non possono esser divisi nello spazio. In base a queste rappresentazioni si dovrebbe dunque pensare che Epicuro non abbia attribuito agli atomi nessuna proprietà riferibile allo spazio. Nella “Lettera ad Erodoto” (Diog. Laerz. X 44, 54) invece gli atomi hanno non soltanto peso ma anche forma e grandezza... Io considero perciò come appartenenti alla seconda specie questi atomi, che son derivati da quelli, ma sono concepiti come particelle elementari dei corpi” 

Consideriamo più attentamente il passo che lo Schaubach cita da Diogene Laerzio. Esso suona: oion oti to pan swma kai anafhV fusiV estin, h oti ta atoma stoiceia kai panta ta toiauta (come, per esempio, il fatto che l’universo è corpo e natura impalpabile, oppure che indivisibili sono gli elementi e tutte le cose simili)… Epicuro informa qui Pitocle, al quale scrive, che quella delle meteore si differenzia da tutte le altre dottrine fisiche: per esempio, che tutto è corpo e vuoto, che vi sono corpi semplici indivisibili. Come si vede, non v'è qui nessuna ragione per ritenere che si parli di atomi di una seconda specie. Potrebbe forse sembrare che la disgiunzione tra to pan swma kai anafhV fusiV (l’universo è corpo e natura impalpabile) e oti ta atoma stoiceia (che gli atomi) ponga una differenza tra swma (corpo) e atoma stoiceia (atomi), dove inoltre swma sta forse ad indicare gli atomi della prima specie in contrapposizione agli atoma stoiceia . Ma non è per nulla da pensare a ciò. Swma indica il corporeo in contrapposizione al vuoto, detto perciò anche aswmaton . In swma sono pertanto compresi sia gli atomi sia i corpi composti. Così, per esempio, nella “Lettera ad Erodoto” è detto: to pan esti esti to swma… ei de mh hn o keinon kai coran kai a afh fusin onomazomen… twn swmatwn ta men esti sugkriseiV, ta d’ex wn ai sugkriseiV pepoihntai. Tauta de estin atoma kai ametablhta… Wste taV arcaV atomouV anagkaion einai swmatwn fuseiV (“l’universo è corpo… se non ci fosse ciò che chiamiamo vuoto e spazio e natura impalpabile… dei corpi gli uni sono aggregazioni, altri invece sono quei corpi da cui risultano le aggregazioni. E questi sono indivisibili e immutabili… cosicchè è necessario che i princìpi siano nature indivisibili dei corpi”). Nel passo sopra riportato Epicuro parla dunque prima del corporeo in genere quale si distingue dal vuoto, poi del corporeo particolare, cioè degli atomi. 

Il richiamo dello Schaubach ad Aristotele è del pari poco probante. La distinzione tra arch e stoiceion , che tanto sta a cuore agli Stoici, si trova, certo, anche in Aristotele, ma questi ciò non di meno enuncia anche l'identità delle due espressioni. Egli insegna addirittura espressamente che stoiceion indica prevalentemente l'atomo. Parimenti Leucippo e Democrito chiamano stoiceion il plhres kai kenon ( pieno e vuoto). 

In Lucrezio, nelle “Lettere” di Epicuro in Diogene Laerzio, nel “Colote” di Plutarco, in Sesto Empirico vengono attribuite agli atomi le proprietà, per cui essi sono stati determinati come annullantisi. 

Ma se è da considerare come un'antinomia il fatto che sono dotati di qualità spaziali solo i corpi percepibili dalla ragione, ben maggiore antinomia è il fatto che le stesse qualità spaziali possono essere percepite solo dall'intelletto. 

Ad ulteriore sostegno infine della sua veduta lo Schaubach cita il seguente passo di Stobeo: EpikouroV… ta prwta (swmata) de apla, ta de ex ekeinwn sugkrimata panta baroV ecein (“Epicuro afferma che i primi corpi sono semplici, mentre i composti derivati da quelli hanno tutti un peso”). A questo passo si potrebbero aggiungere i seguenti, nei quali si fa menzione di atoma stoiceia come di una particolare specie di atomi: (Plutarco) “De placitis philosophorum”, I 246, 249 e Stobeo, Eclog. phys., I, p. 5. In questi passi, del resto, non si afferma affatto che gli atomi originari siano privi di grandezza, di forma e di peso. Si parla piuttosto solo del peso come di un contrassegno differenziale tra le atomoi arcai e gli atoma stoiceia. Già notammo però nel capitolo precedente che del peso si parla solo a proposito della repulsione e dei conglomerati che ne derivano. Con l'invenzione degli atoma stoiceia non si guadagna niente. Difficile è stato passare dalle atomoi arcai agli atoma stoiceia quanto attribuire immediatamente ad essi delle proprietà. Ciò non di meno io non nego senz'altro quella distinzione: nego soltanto l'esistenza di due diversi generi fissi di atomi. Si tratta piuttosto di determinazioni diverse d'uno stesso genere. 

Prima di spiegare questa differenza richiamerò ancora l'attenzione su una caratteristica di Epicuro. Egli cioè pone volentieri le diverse determinazioni di un concetto come esistenze autonome diverse. Come il suo principio è l'atomo, così atomistica è anche la forma del suo sapere. Ciascun momento dello sviluppo gli si trasforma subito nelle mani in una realtà fissa, separata, potremmo dire, dal contesto per mezzo dello spazio vuoto; ogni determinazione assume la forma della individualità isolata. 

Col seguente esempio si chiuderà tale forma. L'infinito, to apeiron , o la infinitio , come traduce Cicerone, viene inteso talvolta da Epicuro come una particolare natura; in quegli stessi passi, anzi, in cui troviamo determinati gli stoiceia come una sostanza fissa, posta a fondamento, troviamo anche concepito l’ apeiron come autonomo. 

Ora, secondo le determinazioni proprie di Epicuro, l'infinito non è nè una sostanza particolare nè qualche cosa di esterno agli atomi e al vuoto, sibbene è una determinazione accidentale di essi. L’ apeiron ci si presenta insomma in tré significati. Anzitutto l’ apeiron esprime per Epicuro una qualità comune agli atomi e al vuoto. Sta a significare cioè l'infinità del tutto, che è infinito per la infinita pluralità degli atomi, per la grandezza infinita del vuoto. Apeiria è inoltre la pluralità degli atomi, sì che non l'atomo ma l'infinita molteplicità degli atomi è contrapposta al vuoto. Infine, se è lecito da Democrito dedurre Epicuro, apeiron indica precisamente il contrario, il vuoto illimitato, contrapposto all'atomo in sé determinato e da se stesso limitato. In tutti questi significati - ed essi sono i soli, anzi i soli possibili per l'atomistica - l'infinito è una semplice determinazione degli atomi e del vuoto. Ciò non di meno esso è reso indipendente in una particolare esistenza, addirittura posto come una natura specifica accanto ai princìpi, di cui esprime la determinatezza. 

Sia stato dunque lo stesso Epicuro a fissare la determinazione, nella quale l'atomo diventa stoiceion , come una forma autonoma, originaria di atomo, il che, del resto, non è il caso di ritenere, come si può concludere stante la prevalenza storica dell'una fonte rispetto all'altra; o sia stato Metrodoro, discepolo di Epicuro, il che ci sembra più probabile, a mutare per primo la diversità di determinazione in diversità di esistenza; è nell'aspetto soggettivo della coscienza atomistica che dobbiamo vedere attuantesi l'autonomia dei singoli momenti. Per il fatto che a determinazioni diverse si è attribuita la forma di una diversa esistenza non si è compresa la loro differenza. 

L'atomo ha per Democrito il significato soltanto di stoiceion , di substrato materiale. La distinzione tra l'atomo come arch e l'atomo come stoiceion, ossia tra principio e fondamento, appartiene ad Epicuro. La sua importanza risulterà chiara da quanto segue. 

L'antinomia di esistenza ed essenza, di materia e forma, che è nel concetto di atomo, è vista anche nel singolo atomo in quanto viene fornito di qualità. Con la qualità l'atomo è estraniato dal suo concetto, ma, al tempo stesso, completato nella sua costruzione. Dalla repulsione e dalle conseguenti conglomerazioni di atomi qualificati ha origine dunque il mondo fenomenico. In questo trapasso dal mondo delle essenze al mondo dei fenomeni la costruzione insita nel concetto di atomo si attua nella maniera più cruda. Chè l'atomo è, secondo il suo concetto, la forma assoluta, essenziale della natura. Questa forma assoluta è ora degradata ad assoluta materia, a substrato informe del mondo fenomenico . Gli atomi sono, è vero, sostanza della natura da cui tutto deriva e in cui tutto si risolve; ma l'annullamento continuo del mondo fenomenico non giunge a nessun risultato. Sorgono nuovi fenomeni; ma l'atomo stesso rimane sempre al a base come fondo. In quanto dunque è pensato secondo il suo concetto puro, l'atomo esiste come spazio vuoto, come natura annullata; in quanto trapassa nella realtà, scende al livello di base materiale che, portatrice di un mondo di relazioni varie, non esiste mai altrimenti che in torme indifferenti ed esteriori. Ciò è una conseguenza necessaria giacché l'atomo, presupposto come l'astrattamente individuale e compiuto, non può attuarsi come potenza idealizzatrice e comprensiva di quella varietà. 

L'astratta individualità è la libertà dall'esistenza, non la libertà nell’esistenza. Essa non può risplendere nella luce dell’esistenza. Questa è un elemento nel quale essa perde il suo carattere e diventa materiale. Perciò l'atomo non entra nella luce della fenomenicità, né si degrada a base materiale quando vi entra L'atomo come tale esiste solo nel vuoto. Così la morte della natura è diventata la sua sostanza immortale; e con ragione esclama Lucrezio: “mortalem vitam mors cum immortalis ademit” (“… immortale, la morte la vita mortale ne spense”). 

Il fatto però che Epicuro coglie e obiettivizza l'antitesi in questa sua punta estrema, e pertanto distingue l'atomo riducentesi a base della fenomenicità, quale stoiceion , dall'atomo come esiste nel vuoto, quale arch , segna la sua differenza filosofica da Democrito, il quale obiettivizza soltanto il primo dei due momenti. È la stessa differenza, questa, che nel mondo dell'essenza, nel campo degli atomi e del vuoto, divide Epicuro da Democrito. Ma poiché solo l'atomo qualificato è compiuto, e poiché solo dall'atomo compiuto ed estraniato dal suo concetto può trarre origine il mondo fenomenico, Epicuro dice che soltanto l'atomo qualificato diventa stoiceion , ovvero solo l’ atomon stoiceion è fornito di qualità.


IV
IL TEMPO

Poiché nell'atomo la materia, considerata solo in relazione a se stessa, è sottratta ad ogni mutamento e ad ogni relatività, si ha come conseguenza immediata che dal concetto di atomo, dal mondo dell'essenza è da escludere il tempo. La materia infatti è eterna ed autonoma solo in quanto in essa si fa astrazione dal momento temporale. In ciò concordano anche Democrito ed Epicuro. Essi però differiscono tra loro nella maniera di determinare e collocare il tempo, bandito dal mondo degli atomi.

Per Democrito il tempo non ha importanza e non ha necessità per il sistema. Egli lo spiega per eliminarlo. Esso viene determinato come eterno, affinchè, come dicono Aristotele e Simplicio, siano esclusi dagli atomi il nascere e il perire e, pertanto, l'elemento temporale. Proprio esso, il tempo, fornirebbe la prova che non tutto deve avere un'origine, un momento iniziale.

Bisogna vedere in ciò qualche cosa di più profondo. L'intelletto immaginante, che non comprende l'autonomia della sostanza, indaga intorno al divenire temporale di essa. Gli sfugge che, facendo della sostanza un che di temporale, fa con ciò stesso, del tempo un che di sostanziale, e in tal modo distrugge il suo concetto, giacché il tempo concepito come assoluto non è più temporale. D'altro canto però questa soluzione è insoddisfacente.

Escluso dal mondo dell'essenza, il tempo è trasferito nella autocoscienza del soggetto filosofante ma non ha che vedere col mondo. Diversamente stanno le cose con Epicuro. Escluso dal mondo dell’essenza, il tempo diventa per lui la forma assoluta della fenomenicità. Esso è cioè determinato come accidente dell'accidente. L'accidente è il mutamento della sostanza in quanto tale. L'accidente dell'accidente è il mutamento quale in sé si riflette, il cambiamento quale cambiamento. Questa forma pura del mondo fenomenico è appunto il tempo.

Il composto è la forma meramente passiva della natura concreta, il tempo la sua forma attuosa. Se considero il composto sotto il profilo della sua esistenza, vedo che l’atomo gli sta dietro, nel vuoto, nella immaginazione; se considero l’atomo sotto il profilo del suo concetto, trovo che il composto o non esiste affatto o esiste solo nella rappresentazione soggettiva; che esso è un rapporto nel quale gli atomi, chiusi m sé, per cosi dire disinteressantisi gli uni degli altri, non sono neanche in relazione tra loro. Il tempo invece, il cambiamento del finito, in quanto è posto come cambiamento è parimenti la forma reale che divide il fenomeno dall'essenza, lo pone come fenomeno nell'atto in cui esso riconduce all’essenza. Il composto esprime soltanto la materialità sia degli atomi sia della natura, che da essi deriva. Il tempo invece è nel mondo fenomeni o quello che è il concetto di atomo nel mondo dell'essenza, vale a dire l’astrazione, l'annullamento e la riconduzione di ogni esistenza determinata all'esser-per-sé.

Da queste considerazioni derivano le seguenti conseguenze. Anzitutto Epicuro fa della antitesi di materia e forma il carattere della natura fenomenica, che diventa così l'opposto della natura essenziale, dell'atomo. Ciò accade in quanto allo spazio viene contrapposto il tempo, alla forma passiva della fenomenicità la forma attiva. Secondariamente solo in Epicuro il fenomeno viene per la prima volta concepito come fenomeno, vale a dire come un estraniamento dell'essenza, il quale attua se stesso nella sua realtà appunto come estraniamento. In Democrito invece, per il quale il composto è l'unica forma della natura fenomenica, il fenomeno non mostra in se stesso che è fenomeno, qualche cosa di diverso dall'essenza. Considerata dunque nella sua esistenza, l'essenza viene confusa completamente con essa, ma concettualmente del tutto da essa separata, sì che l’esistenza si degrada a parvenza soggettiva. Il composto si comporta indifferentemente e materialmente nei confronti dei suoi fondamenti essenziali. Il tempo invece è la fiamma dell'essenza, che eternamente consuma il fenomeno e gl'imprime il marchio della dipendenza e della inessenzialità. Infine, essendo il tempo per Epicuro il cambiamento come cambiamento, la riflessione del fenomeno in se stesso, giustamente la natura fenomenica è posta come oggettiva, giustamente la percezione sensibile diventa il criterio reale della natura concreta, sebbene l'atomo, suo fondamento, sia contemplato solo dalla ragione.

Poiché insomma il tempo è la forma astratta della percezione sensibile, così, stante la forma atomistica della coscienza epicurea, è necessario che esso venga fissato come una natura dotata di una particolare esistenza nella natura stessa. La mutevolezza del mondo sensibile, dunque, in quanto mutevolezza, il suo cambiamento in quanto cambiamento, questa riflessione del fenomeno in se stesso, che del tempo costituisce il concetto, ha la sua esistenza a sé nella sensibilità cosciente. La sensibilità umana è pertanto il tempo che ha preso corpo, la riflessione esistenziale del mondo sensibile in sé.

Come ciò deriva immediatamente dalla determinazione concettuale del tempo in Epicuro, così risulta anche determinatamente provabile nel particolare. Nella “Lettera ad Erodoto” di Epicuro il tempo è configurato come nascente allorché gli accidenti dei corpi percepiti dai sensi sono pensati come accidenti. La percezione sensibile riflessa è dunque qui la fonte del tempo e il tempo stesso. Il tempo perciò non può essere determinato per analogia, nè di esso può predicarsi altro, ma va ammessa l'evidenza stessa; giacchè, essendo la percezione sensibile riflessa lo stesso tempo, non è dato trascenderla.

In Lucrezio, Sesto Empirico e Stobeo invece l'accidente dell'accidente, il mutamento che in sé si riflette è determinato come tempo. La riflessione degli accidenti nella percezione sensibile e la loro riflessione in se stessi sono poste quindi come un tutt'uno.
In virtù di questo nesso tra il tempo e il sensibile anche gli eidwla , che si trovano parimenti in Democrito, assumono una posizione più conseguente.

Gli eidwla sono le forme dei corpi naturali, le quali come superfici si desquamano, per così dire, da essi e ne determinano la fenomenizzazione. Queste forme delle cose fluiscono costantemente dalle medesime, e penetrano nei sensi, e appunto così fanno apparire gli oggetti. Nell'udito pertanto la natura ode se stessa, nell'olfatto odora se stessa, nella vista vede se stessa. La sensibilità umana è dunque il mezzo nel quale, come in un punto focale, i processi naturali si riflettono e si accendono alla luce della fenomenicità.
Democrito in ciò non è conseguente, giacché il fenomeno è meramente soggettivo; in Epicuro è una conseguenza necessaria, giacché la sensibilità è la riflessione del mondo fenomenico in sé, il suo tempo fatto corpo. Il nesso di sensibilità e tempo si rivela infine nel fatto che la temporalità delle cose e la loro manifestazione sensibile sono poste come un tutt’uno . Chè proprio nel loro manifestarsi ai sensi i corpi svaniscono. Distaccandosi cioè continuamente dai corpi e fluendo nei sensi, avendo la loro sensibilità fuori di se stessi come una seconda natura, e non in se stessi, e quindi non cessando di essere disgiunti, gli eidwla. si dissolvono e svaniscono.

Come dunque l'atomo non è che la forma naturale dell'astratta autocoscienza individuale, la natura sensibile è solo l'empirica, individuale autocoscienza oggettiva, e cioè l'autocoscienza sensibile. I sensi sono perciò i soli criteri validi nella natura concreta, al modo stesso che l'astratta ragione è l'unico criterio valido nel mondo degli atomi.

V
LE METEORE

Le vedute astronomiche di Democrito possono essere acute in relazione ai tempi, ma sono prive d'interesse filosofico. Non superano l'ambito della riflessione empirica, ne presentano un più preciso legame interiore con la dottrina degli atomi.

Invece la teoria di Epicuro intorno ai corpi celesti ed ai processi ad essi ricollegantisi, ovvero intorno alle meteore (qualunque delle due espressioni egli adoperi), è in contrasto non solo con l'opinione di Democrito ma con tutta la filosofia greca. L'adorazione dei corpi celesti è un culto che tutti i filosofi greci celebrano. Il sistema dei corpi celesti è la prima ingenua e naturisticamente configurata forma di esistenza della ragione concreta. La stessa posizione ha l'autocoscienza greca nel piano spirituale. È il sistema solare dello spirito. I filosofi greci adoravano dunque nei corpi celesti il loro proprio spirito.

Lo stesso Anassagora, che primo spiegò fisicamente il cielo e in tal modo lo portò sulla terra in un senso diverso da Socrate, rispose, allorché gli si domandò perche fosse nato: EiV qewrian hliou kai selhnhV kai ouranou (“per contemplare sole e luna e cielo”). Senofane invece alzò gli occhi al cielo e disse: “l'uomo è il Dio”. Dei Pitagorici, di Platone e di Aristotele è noto il rapporto religioso con i corpi celesti.

Sì, Epicuro si contrappone alla concezione di tutto il popolo greco.

Sovente sembra, dice Aristotele , che il concetto deponga a favore dei fenomeni ed i fenomeni depongano a favore del concetto. Così gli uomini hanno un'idea degli dèi ed assegnano al divino la sede più celeste, sia barbari sia elleni: tutti insomma quelli che credono nell'esistenza degli dèi, manifestamente l'immortale collegando all'immortale; chè fare diversamente è impossibile. Se dunque il divino esiste, come realmente esiste, vera è anche la nostra affermazione intorno alla sostanza dei corpi celesti. Il che corrisponde poi anche alla percezione sensibile, per parlare secondo le convinzioni umane. In tutto il passato infatti sembra, secondo il ricordo che ci siamo venuti tramandando, che nulla si sia mutato, ne in tutto il ciclo ne in qualsivoglia sua parte. Anche il nome sembra essersi tramandato dagli antichi fino al tempo d'oggi, in quanto essi ammettevano quel che sosteniamo anche noi. Chè non una, non due ma infinite volte ci sono pervenute le stesse concezioni. Poiché dunque il primo corpo è altra cosa oltre la terra e il fuoco e l'aria e l'acqua, essi chiamarono il luogo superno “etere” da qein aei (“correre sempre”), soprannominandolo tempo eterno. Il cielo poi e il luogo superiore assegnaron gli antichi agli dèi, esso solo essendo immortale. Ma la dottrina attuale attesta che esso è indistruttibile, innato, sottratto ad ogni mortale avversità. In tal modo i nostri concetti corrispondono anche ai responsi intorno al Dio. Ma che un cielo vi sia, è manifesto. Dagli antenati e dagli antichi ci è stato tramandato, ed è rimasto nei posteri in forma di mito, che i corpi celesti sono dèi e che il divino abbraccia la natura tutta. Il resto è stato aggiunto in forma di mito per la fede dei più, come utile per le leggi e per la vita. Chè essi immaginano gli dèi simili agli uomini e ad altri esseri viventi, e si foggiano altre finzioni a questa connesse ed affini. Se uno separa da ciò il rimanente e ritiene solo la prima cosa, cioè la loro fede che le sostanze prime siano dèi, deve ritenere che ciò sia divinamente detto, e che dopo che, come avvenne, fu inventata e andò di nuovo perduta ogni possibile arte e filosofia, queste opinioni, simili a reliquie, siano pervenute fino ai tempi nostri.

Oltre a tutto ciò - dice invece Epicuro - bisogna pensare anche che il maggiore turbamento dell'anima umana nasce dal fatto che gli uomini ritengono beati e indistruttibili i corpi celesti, ed hanno desideri e compiono azioni con quelli contrastanti, e prendono in sospetto i miti. Quanto alle meteore, è da credere che in esse non vi siano movimento e posizione ed eclissi e principio e fine e cose simili, governando e ordinando, o avendo ordinato, Uno che possedeva ogni beatitudine oltre alla indistruttibilità. Chè le azioni non si accordano con la beatitudine, ma presentano la massima affinità con la debolezza, la paura e il bisogno. È da ritenere altresì che alcuni corpi ignei, che posseggono beatitudine, si sottopongano spontaneamente a questi movimenti. Ma se non si è d'accordo su ciò, questo stesso contrasto produce il maggior turbamento nelle anime.

Perciò, se Aristotele ha rimproverato agli antichi di aver creduto che il cielo avesse bisogno di appoggiarsi ad Atlante, Epicuro invece biasima coloro i quali credono che l'uomo abbia bisogno del cielo; e in Atlante stesso, sul quale poggia il cielo, egli vede l'insipienza e la superstizione degli uomini. Anche l'insipienza e la superstizione sono Titani.

Tutta la “Lettera a Pitocle” di Epicuro tratta della teoria dei corpi celesti, eccettuata l'ultima parte. Questa chiude l'epistola con delle sentenze morali. E opportunamente vengono aggiunte massime morali alla dottrina delle meteore: questa dottrina è per Epicuro un caso di coscienza. Le nostre considerazioni perciò si baseranno principalmente su questo scritto a Pitocle, che integreremo con elementi tratti dalla “Lettera ad Erodoto”, cui lo stesso Epicuro in quella a Pitocle si richiama.

Anzitutto non è da credere che con la conoscenza delle meteore, intesa nelle linee generali o nei particolari, si possa raggiungere un fine diverso dall'atarassia e dalla ferma fiducia, così come con tutta la restante scienza della natura. Non di ideologia e vuote ipotesi abbisogna la nostra vita, ma di svolgersi senza agitazioni. Come è compito preciso della filosofia indagare sui fondamenti di ciò che e d'importanza principalissima, anche qui la beatitudine si basa sulla conoscenza delle meteore. In sé e per sé la teoria del tramontare e del sorgere, della posizione e dell'eclissi non contiene nessun motivo particolare di beatitudine: essa ci dice solo che la paura possiede coloro i quali vedono questi vari fenomeni senza conoscerne la natura e le cause principali. Fin qui è soltanto negato il primato che la teoria delle meteore dovrebbe avere rispetto alle altre scienze, e tale teoria è posta al loro stesso livello.

Ma la teoria delle meteore si distingue anche specificamente sia dall'etica sia dagli altri problemi fisici: vi sono, per esempio, degli elementi indivisibili e altre simili cose, in cui ai fenomeni corrisponde una sola spiegazione. Ciò infatti non ha luogo con le meteore: queste non hanno una causa semplice che ne spieghi l'origine, ed hanno più d'una categoria dell'essenza, che corrisponde ai fenomeni. Non si può fare infatti della fisiologia in base a vuoti assiomi e leggi. Si ripete continuamente che non aplwV (semplicemente, assolutamente) ma pollacwV (in molti modi) bisogna spiegare le meteore. Ciò vale per il sorgere e tramontare del sole e della luna, per la crescenza e la mancanza della luna, per il chiarore della fascia lunare, per la diversa lunghezza del giorno e della notte e per gli altri fenomeni celesti.

Quale spiegazione daremo dunque?

Qualunque spiegazione è sufficiente. Solo il mito va rimosso. Ma rimosso esso sarà quando, seguendo i fenomeni, da questi si desumerà l'invisibile. Bisogna attenersi al fenomeno, alla percezione sensibile. Perciò va fatto ricorso all'analogia. Così, per mezzo di spiegazioni, si può bandire la paura e liberarsene, mostrando le cause delle meteore e del resto, vale a dire di ciò che continuamente si avvera e sommamente affligge gli uomini.

L'abbondanza delle spiegazioni e delle possibilità deve non solo rasserenare la coscienza e allontanare i motivi di paura, ma, al tempo stesso, negare l'unità, la legge costante ed assoluta, perfino nei corpi celesti. Essi potrebbero comportarsi ora in un modo ora in un altro; questa possibilità senza legge sarebbe il carattere della loro realtà; tutto in essi sarebbe incostante e instabile. La molteplicità delle spiegazioni annullerebbe anche l'unità dell'oggetto.

Mentre dunque Aristotele, d'accordo con gli altri filosofi greci, considera eterni ed immortali i corpi celesti, perché si comportano sempre allo stesso modo; mentre attribuisce ad essi un elemento loro proprio, superiore, non soggiacente alla gravita, Epicuro afferma, in netto contrasto con lui, che le cose procedono proprio all'opposto. Secondo lui la teoria delle meteore è essenzialmente diversa da tutte le altre dottrine fisiche per il fatto che nelle meteore tutto avviene in svariate guise e senza regola, tutto è da spiegare in base a cause varie e indeterminatamente molteplici. Anzi, sdegnato, egli respinge con veemenza l'opinione contraria: coloro i quali si attengono ad una sola spiegazione, escludendo tutte le altre, coloro i quali vedono nelle meteore un che di unico e perciò di eterno e di divino cadono nella vana mania di tutto spiegare e nei servili artifizi degli astrologi: essi oltrepassano i confini della fisiologia e si gettano nelle braccia del mito; tentano l'impossibile e s'affannano intorno all'assurdo; non sanno neanche quando la stessa atarassia viene a trovarsi in pericolo. Da spregiare sono i loro vaniloqui. Bisogna tenersi lontani dal preconcetto che l'indagine su quegli oggetti non sia abbastanza profonda e sottile in quanto mira unicamente alla nostra atarassia e felicità. Norma assoluta è invece che una natura indistruttibile ed eterna nulla possa avere che turbi l'atarassia, che dia luogo a pericoli. La coscienza deve capire che questa è una legge assoluta.

Epicuro conclude perciò affermando che, poiché l'eternità dei corpi celesti turberebbe l'atarassia dell'autocoscienza, ne consegue necessariamente, rigorosamente che essi non sono eterni.

Ora, come bisogna intendere questa caratteristica veduta di Epicuro?

Tutti gli autori che hanno scritto sulla filosofia epicurea hanno presentato questa dottrina come incoerente rispetto al resto della fisica, alla dottrina degli atomi. La polemica contro lo Stoicismo, la superstizione, l'astrologia sarebbe argomento sufficiente a sostegno di questa tesi. E noi abbiamo visto che lo stesso Epicuro distingue il metodo che si segue nella teoria delle meteore dal metodo delle altre teorie fisiche. Ma quale punto della sua teoria rende necessaria questa distinzione? Come gli viene questa idea? E non solo con l'astrologia ma con la stessa astronomia, con la legge eterna e la razionalità nel sistema celeste egli polemizza. Infine a nessuna spiegazione conduce l'opposizione agli Stoici. La loro superstizione e tutta la loro concezione erano già confutate quando i corpi celesti furon presentati come unioni casuali di atomi e i loro processi come casuali movimenti dei medesimi. La loro natura eterna risultava così annullata: conseguenza, questa, che Democrito s'era contentato di trarre da quella premessa. Anzi, la loro stessa esistenza era in tal modo distrutta. Agli Atomisti non occorreva dunque un nuovo metodo.

Ma questa non è tutta la difficoltà. Una più enigmatica antinomia ci si para davanti.

L'atomo è la materia nella forma dell'autonomia, della individualità: la rappresentazione, per cosi dire, della gravita. Ma la gravità nella sua realtà suprema sono i corpi celesti. In essi sono risolte tutte le antinomie tra forma e materia, tra concetto ed esistenza, che danno luogo allo sviluppo dell'atomo, e sono attuate tutte le determinazioni richieste. I corpi celesti sono eterni ed immutabili; in sé, non fuori di sé hanno il loro centro di gravita; l'unico loro atto è il movimento, e, separati l'un dall'altro dallo spazio vuoto, deviano dalla linea retta, formano un sistema di repulsioni ed attrazioni nel quale conservano intatta la loro autonomia; infine generano da se stessi il tempo, quale forma della loro fenomenicità. I corpi celesti son dunque gli atomi diventati reali. In essi la materia ha in sé concepito la propria individualità. Qui dunque dovette Epicuro vedere la forma più elevata di esistenza del suo principio, l'apice e il punto conclusivo del suo sistema. Egli affermò di supporre gli atomi per dare alla natura fondamenti immortali. Affermò che quello che gl'importava era la individualità sostanziale della materia. Ma quando trova la realtà della natura quale è da lui concepita - ed altra, oltre a quella meccanica, non ne conosce -, la materia autonoma, indistruttibile nei corpi celesti, la cui eternità e immutabilità sono provate dalla fede del volgo, dal giudizio filosofico e dalla testimonianza dei sensi, allora ad altro non tende se non a trarla giù nella terrena caducità, allora si volge incollerito contro gli adoratori della natura autonoma, che in sé possiede il principio della sua individualità. È questa la sua maggiore contraddizione.

Epicuro sente perciò che le sue precedenti categorie qui crollano, che il metodo della sua teoria muta. E il significato più profondo del suo sistema, la sua conseguenza più rigorosa è che egli sente ciò e lo esprime con piena consapevolezza.

Abbiamo visto insomma come tutta la filosofia naturale di Epicuro sia pervasa dalla antinomia di essenza ed esistenza, di forma e materia. Nei corpi celesti però questa contraddizione è limitata, e i due momenti contrastanti sono conciliati. Nel sistema celeste la materia ha concepito in sé la forma, ha assunto la individualità, ed ha cosi raggiunto la sua autonomia. A questo punto però essa cessa di essere affermazione dell'autocoscienza astratta. Nel mondo degli atomi come nel mondo dei fenomeni la forma lottava con la materia, l'una determinazione distruggeva l'altra; e proprio in questo contrasto l'astratta autocoscienza individuale sentiva oggettivata la sua natura. Era appunto la forma astratta, che sotto forma di materia lottava con la materia astratta. Ora invece che la materia si è conciliata con la forma ed ha acquistato la sua autonomia, l'autocoscienza individuale esce dalla sua crisalide, e si proclama vero principio, ed avversa la natura diventata autonoma.

Sotto un altro aspetto ciò si esprime così: la materia, in quanto ha in sé concepito l'individualità, la forma, come accade nei corpi celesti, ha cessato di essere astratta individualità: è diventata individualità concreta, universalità. Nelle meteore dunque, di contro all'astratta autocoscienza individuale, risplende il suo opposto diventato concreto, l'universale diventato esistenza e natura. Questo riconosce perciò nelle meteore il suo nemico mortale. Ad esse attribuisce quindi, come fa Epicuro, la causa di tutte le paure ed agitazioni degli uomini; che l'universale è l'incubo e il dissolvimento dell'individuale astratto. Qui non si cela più insomma il vero principio di Epicuro, l'astratta autocoscienza individuale. Essa esce fuori dal suo nascondiglio e, liberata dal mascheramento materiale, cerca, spiegando secondo la possibilità astratta - ciò che è possibile può essere anche diverso; del possibile è possibile anche il contrario -, di annullare la realtà della natura diventata autonoma. Donde la polemica contro coloro i quali spiegano aplwV , vale a dire in una determinata maniera, i corpi celesti; giacché l'uno è il necessario e l'autonomo in sé.

Fintanto che, insomma, la natura quale atomo e fenomeno esprime l'autocoscienza individuale e il suo contrario, la soggettività di quest'ultimo emerge soltanto in forma di materia; quando invece la natura diventa autonoma, allora l'autocoscienza si riflette in se stessa, e si contrappone alla materia nella configurazione sua propria come forma autonoma. Fin dall'inizio era da dire che, quando il principio di Epicuro si attua, cessa per lui di avere realtà. Se infatti l'autocoscienza individuale fosse stata posta realiter sotto la determinatezza della natura, o la natura fosse stata posta sotto la determinatezza di essa autocoscienza, tale determinatezza, vale a dire l'esistenza dell'autocoscienza individuale, sarebbe finita, giacché solo l'universale liberamente distinguentesi da sé può conoscere al tempo stesso la sua affermazione.

Nella teoria delle meteore si rivela dunque l'anima della filosofia naturale di Epicuro. Niente è eterno di ciò che distrugge l'atarassia dell'autocoscienza individuale. I corpi celesti turbano la sua atarassia, la sua interna armonia, perché sono l'universale esistente, perché in essi la natura è diventata autonoma.

Non dunque la gastrologia di Archestrato , come pensa Crisippo, ma l'assolutezza e libertà dell'autocoscienza è il principio della filosofia epicurea, anche se l'autocoscienza è concepita solo sotto l'aspetto dell'individuale.

Se l'astratta autocoscienza individuale è posta come principio assoluto, ogni scienza vera e reale in tanto risulta soppressa in quanto l'individualità non domina nella natura stessa delle cose. Ma crolla anche tutto ciò che è in una posizione di trascendenza di fronte alla coscienza umana e perciò appartiene all'intelletto immaginato. Se invece l'autocoscienza, che si conosce solo nella forma dell'universalità astratta, è elevata a principio assoluto, allora si aprono tutte le porte alla mistica superstizione ed estranea alla sfera della libertà. La riprova storica di ciò è nella filosofia stoica. L'astratta autocoscienza universale ha insomma in sé l'impulso ad affermarsi anche nelle cose, nelle quali si afferma solo negandole. Epicuro è perciò il più grande illuminista greco, ed a lui spetta la lode di Lucrezio.

“Humana ante oculos foede cum cita iaceret,
in terris, oppressa gravi sub Religione,
quae caput a caeli regionibus ostendebat,
horribili super aspectu mortalibus instans,
primum Graius homo mortalis tollere centra
est oculos ausus primusque obsistere contra;
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum...
Quare Religio pedibus subiecta vicissim
opteritur, nos exaequat victoria caelo”. 

(“Mentre l’umana stirpe, aperto spettacol deforme, / su la terra giaceva schiacciata, chè, d’incubi grave, / la Religione, il capo sporgendo da l’alto dei cieli, / con orribile aspetto minace su i vivi incombeva, / primo fu un uomo greco, mortale, che, alzando lo sguardo, / conficcoglielo in volto, incontro, a magnanima sfida: / né degli déi la fama, né folgori e rombi minaci / l’atterriron dal cielo… / onde la Religione a terra a sua volta prostrata / sotto i piedi ci giace, e al cielo il trionfo ne aderge”, traduzione di Parrella)

La differenza tra la filosofia naturale di Democrito e quella di Epicuro, esposta alla fine della parte generale, si è trovata ulteriormente confermata e sviluppata in tutti i campi della natura. In Epicuro dunque 1’atomistica, con tutte le sue contraddizioni, è svolta e compiuta come scienza naturale dell'autocoscienza, la quale è un principio assoluto nella forma dell'individualità astratta, fino all'estrema conseguenza, e cioè fino alla sua dissoluzione ed alla sua cosciente opposizione all'universale. Per Democrito invece l'atomo è solo l'espressione generale obbiettiva della stessa indagine empirica della natura. Di conseguenza l'atomo rimane per lui pura ed astratta categoria, ipotesi, che dell'esperienza è il risultato, non il principio energetico, e che perciò rimane inattuata, così come l'indagine naturalistica positiva non è più da essa determinata. 


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