lunedì 9 gennaio 2017

Cuba protagonista del processo di decolonizzazione in Africa*- Alessandra Ciattini

*Da:    https://www.lacittafutura.it/

Il dissolvimento dell’Unione Sovietica e dei paesi socialisti dell’est europeo ha prodotto nel movimento comunista la dispersione dei suoi appartenenti in gruppuscoli di scarsa rilevanza politica; al contempo, ha generato un profondo senso di sconfitta e di impotenza, probabilmente non esaminato fino in fondo, e che purtroppo non ha suscitato un’intensa riflessione sui caratteri del “socialismo realizzato”, che era stata avviata con l’affermarsi dello stalinismo.

Questi sentimenti comprensibili, accompagnati da un senso di smarrimento, e dalla martellante propaganda ideologica mirante a farci credere che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che la “democrazia realizzata” – come la definisce Luciano Canfora [1] – costituisce il regime politico più rispettoso dei diritti umani, ci ha fatto dimenticare una serie di vittorie straordinarie. Ho in mente il fondamentale contributo di Cuba alla decolonizzazione dell’Africa; processo che negli ultimi decenni – con il mutare del sistema delle relazioni internazionali – non solo ha subito una battuta d’arresto, ma addirittura un’involuzione, giacché siamo ormai nel pieno di una fase neocoloniale e di ritorno alla colonizzazione diretta.

Come scrive lo storico Piero Gleijeses, in una lettera indirizzata a Barack Obama con l’obiettivo di difendere i cinque cubani fino a qualche tempo fa ingiustamente incarcerati negli Stati Uniti, la vittoria cubana in Angola e Namibia ebbe ampie ripercussioni e – citando Nelson Mandela - aggiunge che smontò il mito dell’invincibilità dell’oppressore bianco. A suo parere tale vittoria produsse l’umiliazione degli Stati Uniti, evento che questi ultimi non possono perdonare a Fidel Castro, e per questo si sono rivalsi sui cinque cubani agenti dell’antiterrorismo, che di fatto sono stati solo dei <<prigionieri politici>>. Naturalmente si potrebbe aggiungere a queste parole che la stessa esistenza di Cuba, dopo cinquant’anni di bloqueo, costituisce un’umiliazione perenne per la superpotenza, difficile da mandare giù.

E ciò soprattutto perché la Rivoluzione cubana trionfante ha costituito un esempio per i movimenti di liberazione nazionale dei paesi sottoposti al dominio coloniale e, in particolar modo, per quelli africani. Tuttavia, essa è anche intervenuta concretamente per appoggiare tali movimenti a partire dal sostegno dato al Movimento nazionale congolese subito dopo l’assassinio di Patrice Lumumba, avvenuto nel gennaio 1961. Questi fu primo ministro del Congo liberatosi sia pure non completamente dal dominio esercitato dal Belgio dal 1877; dominio che per un certo periodo vide il Congo ridotto ad essere un possesso privato del re Leopoldo II. L’indipendenza del Congo non suscitò né il plauso del Belgio né quello degli Stati Uniti, che si trovarono a sostenere la secessione del Katanga, regione ricca di risorse minerarie, in particolare di cobalto e poi quella del Kasai provvista di giacimenti diamantiferi. In tale situazione caotica, resa più intricata dai conflitti etnici, intervennero i caschi blu, ma non si impegnarono nella lotta contro i secessionisti. Per questa ragione Lumumba si rivolse all’Unione Sovietica, la quale fornì armi, consiglieri militari, mezzi di trasporto. Si configurò quindi il solito scenario, nel quale le due superpotenze si confrontavano indirettamente attraverso le parti da loro sostenute.

In seguito a questi tragici avvenimenti, che mostravano come le potenze coloniali erano assai restie ad abbandonare i loro possedimenti a costo di scatenare sanguinose guerre civili, i dirigenti cubani decisero di mandare il Che per documentarsi sulla situazione di quei paesi in cui si stavano organizzando movimenti antimperialisti. Il suo viaggio durò alcuni mesi e la sua prima tappa fu il Congo, che per la sua collocazione strategica poteva essere usato come centro di diffusione della ribellione anticoloniale secondo la nota teoria guevariana del fochismo. Si decise di inviare trenta soldati cubani neri, i quali per non essere notati viaggiarono separati con voli civili. Il Che viaggiò truccato in maniera tale che era impossibile riconoscerlo e, prima di arrivare in Tanzania, fece un ampio giro accompagnato da altri 14 cubani. All’arrivo in Congo il Che si rese conto che l’esercito di Joseph Mobuto, appoggiato dagli Stati Uniti e protagonista del colpo di Stato che aveva fatto fuori Lumumba, aveva strappato gran parte del territorio congolese ai seguaci del premier assassinato. Abbiamo resoconti di questa esperienza scritti dal Che nel suo diario; in particolare, il “guerrillero heroíco” osservava con rincrescimento la mancanza di disciplina e di preparazione dei soldati congolesi, i quali per di più seguivano un antico costume (l’ingestione di un’infusione di piante differenti), che avrebbe avuto il potere di difenderli dalle pallottole.

Tali condizioni rendevano urgente un intervento per addestrare i congolesi alla lotta armata con un nemico temibile e per modificare le loro credenze, che li avrebbero sicuramente portati alla sconfitta coinvolgendo anche i cubani. Ma tale obiettivo si mostrò irraggiungibile e da ciò possiamo ricavare una considerazione che risulta etnocentrica a tutti coloro che hanno una visione idealizzata delle società precapitalistiche. Per combattere l’imperialismo bisogna acquistare una serie di strumenti, non solo materiali, ma anche intellettuali e culturali, che sono stati creati dalla stessa società capitalistica. Come mostra il noto film di Gillo Pontecorvo Queimadache ricostruisce in forma metaforica la storia cubana, il primo passo che debbono fare gli oppressi per emanciparsi dall’Occidente è paradossalmente occidentalizzarsi, anche se ovviamente in una certa forma e secondo certi criteri che sono funzionali al raggiungimento della completa liberazione. E ciò perché gli strumenti tradizionali, pur appartenenti ad una secolare tradizione profondamente radicata, si rivelano inefficaci di fronte ad un nemico equipaggiato materialmente e culturalmente di ben altri apparati sviluppatisi in un contesto nazionale e internazionale, che ha radicalmente rivoluzionato le forme di vita precapitalistiche. D’altra parte che le cose stiano così, è stato ampiamente dimostrato dall’espansione del colonialismo, che ha comportato la sconfitta e l’assoggettamento anche di vasti imperi (si pensi per esempio agli Inca e agli Aztechi).

In seguito ad uno scontro con i soldati di Mobuto nel giugno del 1961, in cui morirono 4 cubani, a causa di un paio di pantaloni indossati da uno di questi che portava l’etichetta hecho en Cuba, la CIA cominciò a sospettare la presenza del Che nel Congo. Immediatamente gli Stati Uniti incrementarono il loro appoggio all’esercito del golpista, che riuscì a bloccare i rifornimenti ai lumumbisti. In tale situazione la stessa vita del Che era in pericolo, ma egli decise di lasciare il continente africano solo dopo che l’Unione africana intimò l’allontanamento dal Congo di tutte le truppe straniere, sia i mercenari occidentali che gli internazionalisti cubani. Il Che espresse con significative parole la disillusione provocata da questo primo tentativo di scalzare il colonialismo dall’Africa, cui Cuba era strettamente legata in virtù del fatto che molti cubani erano i discendenti degli schiavi importati dagli europei in America. Egli scrisse: <<Durante queste ultime ore nel Congo, mi sono sentito solo come mai mi ero sentito…mai come oggi, proprio in questo momento, ho capito fino a che punto il mio camino è solitario>> (trad. mia).

Quanto alle colonie portoghesi, anche da esse spirava un vento liberatore, che non poco preoccupava il Portogallo a quel tempo governato dal regime fascista di Salazar, sostituito nel 1968 da Marcelo Caetano. In Mozambico furono inviati da Cuba 800 consiglieri militari e una consistente quantità di armi.

Amilcar Cabral era a capo del Movimento di liberazione della Guinea Bissau, il quale nel corso della Prima Conferenza Tricontinentale, tenutasi all’Avana nel 1966, chiese l’appoggio cubano, in particolare rifornimenti di materiale bellico e consulenza logistica e militare. Non richiese la presenza di militari cubani per evitare l’intervento diretto degli Stati Uniti. Nel 1973 la Guinea Bissau fece un primo passo verso l’indipendenza e questo evento, cui si aggiungevano le perdite subite dall’esercito portoghese in Mozambico e in Angola, suscitò un generale malcontento tra gli ufficiali stanchi di portare avanti con il proprio sangue le guerre coloniali. L’atteggiamento degli ufficiali si concretò in un sollevamento, che travolse il regime fascista e che è rimasto nella storia come la Rivoluzione dei garofani. Tuttavia, a Cabral toccò la stessa sorte di Lumumba; infatti, agenti portoghesi lo assassinarono nel 1973 e, pertanto, non riuscì a vedere liberato completamente il suo paese.

Ma il contributo più significativo di Cuba è stato quello dato alla lotta anticoloniale portata avanti dal Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola d’ ispirazione marxista, diretto da Antonio Agostinho Neto e che cominciò ad operare a partire dal 1961. Così il Portogallo si trovò coinvolto su vari fronti in Africa, sovraccaricandosi di consistenti spese militari per mantenere il suo impero coloniale in sfacelo.

Secondo un canovaccio, utilizzato anche oggi nelle guerre in Siria, in Libia e in Iraq, paventando che il governo della colonia liberata sarebbe finito nelle mani del marxista Neto, supportato dall’Unione Sovietica, gli Stati Uniti e altre potenze europee dettero il loro sostegno agli altri movimenti di liberazione di carattere più moderato. Ciò fu possibile grazie all’intervento di Mobuto, che inviò le sue truppe a occupare dal nord l’Angola, paese ricco di petrolio, diamanti, uranio; e grazie alla collaborazione del Sud Africa, che attraversando la Namibia, invase il paese da sud. In questa difficile situazione Neto si vide costretto a chiedere formalmente l’aiuto militare cubano e Fidel Castro, senza consultarsi con i sovietici, mandò 35.000 soldati equipaggiati di artiglieria pesante e di carri armati.

Mostrando quali erano i veri interessi degli occupanti, questi in parte si diressero verso Cabinda, la regione dell’Angola più ricca di petrolio, il cui sfruttamento stava già nelle mani di società statunitensi, ma non riuscirono a conquistarla. Al contempo, i guerriglieri del MPLA con l’aiuto dei soldati cubani bloccarono gli invasori che si stavano dirigendo verso Luanda, la capitale del paese, fermando anche l’esercito sudafricano in prossimità del fiume Kebe. Naturalmente a fianco degli invasori combattevano i soldati degli altri movimenti indipendentisti, compreso il FLEC, che tutt’ora opera per sciogliere i legami di Cabinda con l’Angola. Queste vittorie consentirono a Neto di dichiarare nel novembre del 1975 l’indipendenza del paese.

Ciò nonostante Cabinda stava sempre sotto la mira degli invasori e degli oppositori di Neto, i cubani mandarono pertanto altri soldati, materiale bellico e carri armati. Nel frattempo l’esercito sudafricano non aveva desistito dal conquistare Luanda, ma un battaglione motorizzato di fanteria cubano fu deviato in direzione della capitale del paese e dette un apporto decisivo ad una significativa sconfitta del Sud Africa. Tuttavia, quest’ultimo teneva ancora sotto il suo controllo circa la metà del paese.

Le potenze occidentali auspicavano un accordo tra i vari movimenti di liberazione in lotta (FNLA, UNITA e MPLA) e sollecitarono l’Organizzazione per l’unità africana a pretendere il ritiro di tutti gli eserciti stranieri e la formazione di un governo di coalizione, in cui il Portogallo avrebbe mantenuto un ruolo importante. Nonostante tale decisione la guerra continuò per circa trent’anni – terminò nel 2002 – opponendo le varie fazioni sostenute le prime dalle potenze occidentali (in particolare dagli Stati Uniti) e il secondo dall’Unione Sovietica, da Cuba e dalla Germania democratica. Ma la guerra continuò con l’arrivo da Londra di centinaia di mercenari europei e di veterani statunitensi di pelle nera.

Nel 1978 l’ONU decise all’unanimità che il Sud Africa abbandonasse la Namibia, dove il movimento di liberazione di questo paese (SWAPO) stava opponendosi con forza all’occupazione.

Sia negli Stati Uniti che in Unione Sovietica si formarono fazioni politiche che avevano idee diverse sul grado di coinvolgimento dei due paesi nelle guerre civili africane; in particolare, alcuni dirigenti statunitensi erano favorevoli ad un appoggio che rimanesse segreto per non danneggiare l’immagine internazionale del paese. Tuttavia, nel 1986 il cristiano Jonas Savimbi, capo dell’UNITA fu ricevuto a Washington da Ronald Reagan, il quale gli promise aiuti militari e finanziari per sostenerlo nella guerra contro l’espansione del comunismo in Africa. Grazie a tale supporto, a quello del Sud Africa e della Cina, Savimbi continuò a combattere contro il governo del MPLA, sostenuto dall’Unione Sovietica e da Cuba. Questa fase della guerra civile si concluse con la durissima battaglia di Cuito Cuanavale, nel sud-est del paese, durata sei mesi (1987-1988), che vide il sanguinoso scontro tra i cubani e le Forze armate per la liberazione dell’Angola da un lato, e dall’altro l’esercito sudafricano e i soldati dell’UNITA. L’esito di tale battaglia fu decisivo, perché determinò anche la liberazione della Namibia e dette un grave colpo al regime sudafricano dell’apartheid definitivamente abolita nel 1991. Nel dicembre del 1988 si arrivò a un accordo tra le parti in lotta e gradualmente i 450.000 soldati cubani, che avevano collaborato alla liberazione di questa parte del continente africano, tornarono in patria, lasciando circa 2.000 morti. Come scrive Gleijeses, riportando le parole di Mandela: <<La battaglia di Cuito Cuanavale costituì una svolta nel processo di liberazione del nostro continente e del mio popolo dal flagello dell’apartheid>>.

Anche se in misura minore, Cuba non fece mancare il suo aiuto ad altri paesi africani come l’Algeria, il Mozambico e l’Etiopia; anche in questo caso, nello scenario della guerra fredda, le parti in lotta ricevettero l’appoggio di varie potenze, in un intreccio di alleanze non sempre di facile lettura.

Concludendo questa rapida e incompleta ricostruzione, dobbiamo chiederci che cosa è rimasto di tutto ciò nell’Africa contemporanea e purtroppo dobbiamo rispondere con le parole dell’attuale presidente del Sud Africa Jacob Zuma. In un’intervista a RT questi ha dichiarato che Washington, Londra e Parigi condizionano ancora l’operato dei governi africani, che l’Occidente non è affatto interessato allo sviluppo del continente e continua incontrastato la sua politica di accaparramento delle risorse. Egli si mostra fiducioso, invece, nei confronti della Cina, la quale a suo dire sta da circa 10 anni facendo investimenti in infrastrutture in Africa su di un piano paritario e preparando studenti africani [8].

Quanto al Sud Africa c’è chi, come il noto giornalista australiano John Pilger, parla di un vero e proprio tradimento delle promesse fatte da Mandela all’abbattimento dell’apartheid, che sarebbe stata sostituita dall’apartheideconomica con la complicità di una emergente classe media nera e dei dirigenti dell’ANC. Ma ovviamente la storia non finisce qui.

Note

[1] Per Canfora non si comprende a fondo cosa sia la “democrazia realizzata” perché <<non si vuole prendere atto del dato sostanziale: che cioè anche le cosiddette democrazie si fondano sul predominio delle élites>> (Critica della retorica democratica, 2002: 41). Ossia che sono sostanzialmente delle oligarchie, per di più corrotte e incompetenti. 


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