Link all’intervista in inglese Notes & Commentaries
Quella che segue è la trascrizione di un’intervista al
celebre storico britannico E. H. Carr come pubblicata dalla New Left
Review nel 1978, col titolo “La sinistra oggi”. Carr, uno dei primi
seri specialisti della storia russa e sovietica (forse un po’ datato ma ancora
utile e leggibile), all’epoca aveva ottantasei anni. Pur non
essendo mai stato comunista, egli si identificava chiaramente con la
sinistra politica, dedicando gran parte dei suoi sforzi accademici a combattere
la storiografia conservatrice e liberale (Whig). Ciò nonostante, per una significativa parte della
sua carriera non fu un accademico, lavorando presso il Foreign Office, ed in
seguito come vicedirettore del Times, due organi non certo noti per la loro
vicinanza alla sinistra. Questo gli consentì di avere una prospettiva ampia e
non settaria sugli eventi.
Il discorso di Carr tocca questioni ancor’oggi rilevanti per
il comunismo, a dispetto del fatto che l’articolo qui riprodotto abbia ormai
più di trent’anni. Per molti versi, esso è rappresentativo della disillusione
della sinistra post-stalinista. Disillusione allora talmente profonda in alcuni
comunisti, e frutto dello scontro tra la realtà e le loro aspettative, da
spingerli a trarre conclusioni opposte e divenire rabbiosi esponenti della
destra. Carr, d’altra parte, non seguì tale percorso, conservando una
prospettiva più distante e dunque maggiormente obiettiva, nonché meno isterica.
Ancor più importante, egli non solo fu in grado di separare il grano dal loglio
nell’esperienza comunista, e ciò nonostante l’enorme pressione accademica e
politica esercitata contro di lui (persino Orwell lo considerava pericoloso),
ma ebbe anche la capacità in età avanzata di analizzare correttamente gli
sviluppi politici ricorrendo al metodo di Marx. Meglio di tanti comunisti, in
particolare i cosiddetti “eurocomunisti”, esaminò gli sviluppi nelle
relazioni economiche che avevano avuto luogo dopo la morte di Marx e, in particolare,
dopo la Seconda guerra mondiale, indicando, inoltre, la sempre più
aristocratica e compromessa condizione della classe operaia nelle nazioni più
sviluppate, se comparata con quella dei paesi caratterizzati da
un’industria, e dunque, un proletariato sottosviluppati. Senza timore di trarre
le conclusioni necessarie, diede un forte impulso ad una migliore comprensione
storica di tale fenomeno, il quale a posteriori diverrà generalmente accettato
come una delle decisive rotture storiche del XX secolo.
La fama di Carr non è legata esclusivamente alla sua
eccellente analisi della storia economica sovietica, campo nel quale è stato un
pioniere insieme a R. W. Davies, bensì è dovuta in egual misura al suo lavoro
storiografico Sei lezioni sulla storia. Un libro generalmente
considerato come l’espressione maggiore della scrittura
storiografica moderna, una presa di distanza dalla vecchia storia
Whig, così come da un certo positivismo sterile e conservatore (à la Namier). In esso viene inaugurata un’epoca in cui il
mestiere dello storico, in maniera crescente, è stato visto come un
particolare modo di selezionare e disporre gli elementi storici, che si
vogliano o meno definire questi ultimi “fatti storici”; e nel fare ciò, ha
aperto la strada, sostenendole, a quelle modalità di scrittura
storiografica che hanno enfatizzato inediti trattamenti di materiali
esistenti e ignorati, allo scopo di condurre alla ribalta segmenti sino ad
allora oscuri della storia, quali la storia sociale, quella delle donne, del
quotidiano e così via. Il clima generale instaurato dall’ascesa della New Left
e dall’influenza del gruppo degli storici vicini al PCGB, particolarmente in
Gran Bretagna, ha senz’altro avuto un ruolo. Altro aspetto importante del
contributo fornito da Carr alla storiografia, nel libro in questione come in
altri, è la sua rivendicazione dell’idea di progresso nella storia, come
prerequisito necessario al fine di rendere la disciplina storica un’impresa, in
primo luogo, comprensibile ed utile. Il tutto senza invocare il deus ex
machina del Geist o concezioni analoghe, cosa di per
sé degna di nota, per quanto anche un prodotto della peculiare avversione
britannica nei confronti della filosofia della storia. Gran parte di questa
intervista e da vedersi sotto questa luce, compresi i riferimenti al
lavoro succitato. Poiché è essenziale difendere l’idea di progresso nella
storia senza cadere nella trappola del progressismo o idealismo whig, Edward
Hallett Carr è stato un grande storico anche solo per quest’unico motivo.
Ormai ha completato la sua “Storia della Russia
sovietica”, la quale copre gli anni dal 1917 al 1929 in quattordici volumi, e
domina l’intero campo di studi della prima esperienza dell’URSS. A partire da
un ampio sguardo retrospettivo, come giudica il significato della Rivoluzione
di ottobre – tanto per la Russia, quanto per il resto del mondo?
Iniziamo dal suo significato per la Russia stessa. Non
richiede un grande sforzo oggi soffermarsi sulle conseguenze negative della
Rivoluzione. Per diversi anni, e sopratutto negli ultimi mesi, esse hanno
costituito un tema ossessivo nei libri pubblicati sull’argomento, nei giornali,
nella radio e nella televisione. Il pericolo non sarebbe dunque quello di
stendere un velo sulle enormi macchie del bilancio della Rivoluzione, sui
costi umani e sulle sofferenze, sui crimini commessi in suo nome. Il pericolo,
semmai, sarebbe quello di dimenticare tutto, e di passare sotto silenzio le sue
immense conquiste. Mi riferisco in parte alla determinazione, all’impegno,
all’organizzazione e al duro lavoro che negli ultimi sessant’anni hanno
trasformato la Russia in un grande paese industriale e in una superpotenza.
Chi, prima del 1917, avrebbe potuto predire tutto ciò? Ma oltre a questo, mi
riferisco alla trasformazione, avvenuta a partire dal 1917, nella vita della
gente comune: la trasformazione della Russia da paese nel quale oltre l’ottanta
percento della popolazione era composta da analfabeti o semianalfabeti in uno
la cui popolazione urbana supera il sessanta percento, oltre ad essere
totalmente alfabetizzata e in rapida acquisizione degli elementi della cultura
urbana. La maggior parte dei membri di questa nuova società sono nipoti di
contadini; alcuni pronipoti di servi. Costoro non possono che essere
consapevoli di ciò che la Rivoluzione ha fatto per loro. E queste cose sono
state realizzate rigettando i principali criteri della produzione
capitalistica – i profitti e la legge del mercato – sostituendovi un piano
economico complessivo volto a promuovere il bene comune. Per quanto molto di
quanto realizzato possa essere rimasto al di sotto delle promesse, ciò che è
stato fatto in URSS negli ultimi sessant’anni, nonostante le spaventose
interruzioni dall’esterno, rappresenta un notevole progresso verso la
realizzazione del programma economico del socialismo. Naturalmente, sono
consapevole che chiunque parli delle conquiste della rivoluzione può essere
bollato come stalinista. Ma non sono disposto a prestarmi a un simile ricatto
morale. Dopo tutto, uno storico inglese può lodare i risultati del regno di
Enrico VIII senza che ciò implichi tollerare la decapitazione delle mogli.
La sua “Storia” copre il periodo nel quale Stalin ha
stabilito il proprio potere autocratico in seno al Partito bolscevico,
sconfiggendo ed eliminando le successive opposizioni, gettando le fondamenta di
quello che in seguito sarebbe stato definito stalinismo, inteso come sistema
politico. Sino a che punto ritiene che la sua vittoria fosse inevitabile nel
PCUS? Quali erano i margini di scelta negli anni Venti?
Di solito tendo ad evitare il nodo dell’inevitabilità nella
storia, poiché conduce ben presto in un vicolo cieco. Lo storico si pone
l’interrogativo del “perché?”, compresa la questione di come mai, tra i diversi
percorsi disponibili in un dato momento, uno in particolare sia stato
intrapreso. Se vi fossero stati antecedenti diversi, i risultati sarebbero
stati differenti. Non nutro molta fiducia nella cosiddetta “storia
controfattuale”. Mi viene in mente il proverbio russo che ama citare Alec Nove:
“Se la nonna avesse avuto la barba, sarebbe stata nonno”. Riarrangiare il
passato per adattarlo alle proprie predilezioni e punti di vista è
un’occupazione assai piacevole. Ma, d’altra parte, non sono sicuro sia molto
proficua.
Se, tuttavia, mi si chiede di avanzare delle supposizioni,
dirò questo. Lenin, se avesse vissuto nel corso degli anni Venti e Trenta nel
pieno possesso delle sue facoltà, avrebbe dovuto affrontare gli stessi
problemi. Egli era perfettamente consapevole che un’agricoltura meccanizzata su
larga scala era la prima condizione di qualsiasi progresso economico. Non credo
avrebbe trovato soddisfacente “l’industrializzazione a passo di lumaca”
prefigurata da Bucharin. E non credo avrebbe fatto troppe concessioni al
mercato (si tenga a mente la sua insistenza sul mantenimento del monopolio del
commercio con l’estero). Sapeva che non si andrebbe da nessuna parte in assenza
di un qualche effettivo controllo e direzione del lavoro (si tengano presenti
le sue osservazioni circa la “direzione individuale” nell’industria e anche a
proposito del “taylorismo”). Ma Lenin non solo era stato allevato in una
tradizione profondamente umana, ma godeva di enorme prestigio, autorità morale
e capacità di persuasione; e simili qualità, assenti negli altri leder, lo
avrebbero spinto a minimizzare e mitigare gli elementi di coercizione. Stalin
non aveva alcuna autorità morale (in seguito cercò di costruirsela nei modi più
crudeli). Non comprendeva altro che la coercizione, e sin dal principio vi
ricorse apertamente e brutalmente. Sotto Lenin la transizione non sarebbe stata
del tutto liscia, ma non vi sarebbe stato niente di paragonabile a ciò che
effettivamente si è verificato. Lenin non avrebbe tollerato la falsificazione
dei dati, cosa in cui Stalin indulgeva costantemente. In presenza di fallimenti
della politica o della pratica del partito,egli li avrebbe apertamente
riconosciuti e ammessi come tali; non avrebbe, come Stalin, esaltato
espedienti disperati come brillanti vittorie. L’URSS sotto Lenin non sarebbe
mai diventata, nelle parole di Ciliga, il “paese della menzogna”. Queste le mie
congetture. Se non altro, esse possono rivelare qualcosa circa le mie
convinzioni e il mio punto di vista.
La sua ricostruzione si conclude alla soglia degli
anni Trenta, col varo del primo piano quinquennale. La collettivizzazione e le
purghe sono dietro l’angolo. Nella prefazione al primo volume lei ha
scritto che le fonti sovietiche per gli anni Trenta si
rarefacevano al punto che il proseguimento della ricerca, sulla stessa
scala, era impossibile. La situazione è ancora la stessa oggi, o in anni
recenti sono stati pubblicati più documenti in determinate aree? La scarsità
degli archivi l’ha prevenuta dal continuare oltre il 1929?
Da quando ho scritto questa prefazione, nel 1950, molto è
stato pubblicato, ma vi sono ancora punti oscuri. R. W. Davies, che ha
collaborato al mio ultimo volume economico, sta lavorando sulla storia
economica dei primi anni Trenta, e sono convinto produrrà risultati
convincenti. Ultimamente mi sono interessato agli affari esterni e al percorso
verso i Fronti popolari; anche qui, non parlerei di carenza di materiali. Ma la
storia politica in senso stretto è più o meno un libro chiuso. Ovviamente, ci
sono state grandi controversie. Ma tra chi? Quali i vincitori, quali gli
sconfitti, quali compromessi sono stati raggiunti? Non abbiamo documenti
disponibili comparabili ai dibatti relativamente liberi nei congressi di
partito degli anni Venti, o le piattaforme delle opposizioni. Una densa nebbia
di mistero avvolge ancora episodi come l’omicidio di Kirov, la purga dei
generali, o gli accordi segreti tra emissari sovietici e tedeschi che molti
ritengono essere occorsi nei tardi anni Trenta. Non avrei potuto proseguire la
mia Storia oltre il 1929 con la stessa confidenza.
Gli anni Trenta vengono spesso presentati come uno
spartiacque decisivo, o una rottura, nella storia dell’URSS. Le dimensioni
della repressione scatenata nelle campagne con la collettivizzazione, e
all’interno dello stesso partito e degli apparati di stato col grande terrore –
si afferma – hanno qualitativamente alterato la natura del regime sovietico. La
razionalità politica delle purghe e dei campi – non ripetutisi nella stessa
scala in nessuna delle rivoluzioni socialiste successive – rimane a tutt’oggi
oscura. Qual è il suo punto di vista in proposito? Ritiene l’idea di una
rottura politica, in particolare dopo il 17° congresso del partito, idea
ampiamente diffusa nella stessa Unione Sovietica, valida?
Questo ci introduce alla ben nota questione della
“periodizzazione”. Un evento come la Rivoluzione del 1917 è talmente drammatico
e travolgente nelle sue conseguenze da imporsi di per sé ad ogni storico come
un punto di svolta nella storia, l’inizio o al fine di un periodo. In linea di
massima, tuttavia, lo storico deve definire il proprio periodo e, nel processo
di organizzazione del materiale, scegliere i suoi “punti di svolta” e
“spartiacque”; scelte che riflettono – senza dubbio, spesso inconsciamente – il
suo punto di vista, la sua prospettiva circa la sequenza degli eventi. Gli
storici della Rivoluzione russa che si occupano, per esempio, del periodo dal
1917 al 1940, si trovano di fronte ad un dilemma. Il regime rivoluzionario che
aveva esordito come forza liberatrice, è stato associato, ben prima della fine
del periodo detto,con la più spietata repressione. Lo storico dovrebbe
affrontarlo come un unico periodo con un continuo processo di sviluppo – e
degenerazione? O dovrebbe suddividerlo in periodi di liberazione e repressione,
separati d significativi spartiacque?
Gli storici seri che assumono il primo punto di vista
(escludo gli autori da guerra fredda che si limitano ad infangare Lenin con i
peccati di Stalin) argomenteranno che sia Marx che Lenin (quest’ultimo con
grande enfasi) affermano il carattere essenzialmente repressivo dello stato; e
nel momento in cui la Repubblica sovietica russa si proclama come stato
essa diviene per sua natura strumento di repressione; un elemento gonfiatosi
mostruosamente, ma non modificato in linea di principio, dalle pressioni e vicissitudini
cui è stato sottoposto successivamente. Lo storico che adotta la prospettiva
del doppio periodo sembra avere un argomento più plausibile, sino a quando non
deve identificare il suo spartiacque. La transizione alle politiche di
repressione di massa andrebbe collocata all’epoca della rivolta di Kronstadt
nel marzo 1921 – o forse in quella della sollevazione contadina, nella Russia
centrale, l’inverno precedente? O va identificata con la conquista del partito
e della macchina statale da parte di Stalin alla metà degli anni Venti, con le
campagne contro Trotsky e Zinoviev, e con l’espulsione e l’esilio di decine di
leader oppositori nel 1928? O ancora con i primi processi pubblici su larga
scala, nei quali gli imputati si dichiaravano colpevoli delle bizzarre accuse
di sabotaggio e tradimento, nel 1930 e 1931? I campi di detenzione e il lavoro
forzato esistevano ben prima del 1930. Personalmente non sono troppo
impressionato da una soluzione che rinvii lo spartiacque sino alla metà degli
anni Trenta. Come ho già detto, la scelta dei periodi riflette il punto di
vista dello storico. Non posso fare a meno di pensare che una tale carenza di
periodizzazione sia stata cucita su misura al fine di spiegare e
giustificare la lunga cecità degli intellettuali di sinistra occidentali
riguardo il carattere repressivo del regime. Ma anche questo non è sufficiente.
Anche quando le grandi purghe e i processi erano in corso, un numero senza
precedenti di intellettuali di sinistra affollava i partiti comunisti occidentali.
Il che ci riporta alla seconda parte della nostra domanda
iniziale – il significato della Rivoluzione russa per il mondo capitalista.
Mi sia concesso riassumere brevemente. Inizialmente, la
Rivoluzione polarizzò la destra e la sinistra nel mondo capitalistico. In
Europa centrale, la rivoluzione si profilava all’orizzonte. Persino in questo
paese non mancavano posizioni estreme: i comunisti che issavano la bandiera
rossa a Glasgow, e Churchill che voleva inviare l’esercito britannico a
schiacciare la rivoluzione in Russia. Un numero considerevole, sebbene da
nessuna parte la maggioranza, di lavoratori entrarono nei partiti comunisti in
Germania, Francia, Italia e Cecoslovacchia. Ma intorno alla metà degli anni
Venti il riflusso aveva iniziato a diffondersi – specie fra i lavoratori
organizzati. L’Internazionale sindacale rossa non riuscì a minare l’autorità
della socialdemocratica Internazionale di Amsterdam, la quale divenne sempre
più aspramente anticomunista. Il TUC [Trade Union Congress, n.d.t.] sotto Citrine
e Bevine ne seguì a breve l’esempio. i lavoratori dei paesi occidentali non
erano più rivoluzionari; essi lottavano per migliorare la propria condizione
all’interno del sistema capitalistico, non per rovesciare quest’ultimo. Il
“fronte popolare” degli anni Trenta (quantomeno in questo paese) fu
prevalentemente una questione di liberali e intellettuali. Dopo il 1945, gli
intellettuali -come i lavoratori vent’anni prima – iniziarono ad allontanarsi
dalla Rivoluzione. Orwell e Camus sono i nomi più noti. Da allora, il processo
è proseguito ad un ritmo crescente. La polarizzazione fra destra e sinistra del
1917 è stata rimpiazzata da quella tra oriente e occidente. La repulsione
contro lo stalinismo ha prodotto – in nessun luogo quanto in questo paese
– un fronte unito della destra e della sinistra contro l’URSS.
Ma prima di andare oltre, vorrei azzardare due
generalizzazioni. Primo, le sorprendenti oscillazioni nelle opinioni sulla
Rivoluzione russa nei paesi occidentali, fin dal 1917, vanno spiegate sulla
base di ciò che stava accadendo in essi, tanto quanto su quello che si
verificava in URSS. Secondo, laddove queste oscillazioni erano frutto delle
attività sovietiche, erano relative alle politiche internazionali dell’URSS, e
non ai suoi affari interni. È difficile ricostruire lo stato dell’opinione
pubblica britannica circa la Rivoluzione russa durante il suo primo anno:
avevamo tanto altro a cui pensare. Ma di una cosa sono certo dai miei stessi
ricordi. La stragrande maggioranza di coloro che disapprovavano la Rivoluzione
erano mossi dall’indignazione, non per le storie sulla comunità dei beni o
delle donne, bensì per la dura realtà che i bolscevichi avevano tirato
fuori la Russia dalla guerra, abbandonando gli alleati nel loro momento più
critico.
Una volta sconfitti i tedeschi tutto cambiò.
Emergeva stanchezza rispetto alla guerra, l’intervento in Russia era
oggetto di ampia condanna e il clima in Gran Bretagna verso i bolscevichi di
simpatia, i quali erano vagamente considerati di “sinistra”, democratici e
amanti della pace. Ma vi era ben poca ideologia in tutto ciò: capitalismo
contro socialismo non era davvero il problema. Dopo la vittoria di Pirro del
primo governo laburista, la marea si ritirò. L’ondata antisovietica del 1924-9
venne favorita in parte da considerazioni di partito (la lettera di Zinoviev
era stata un grande collettore di voti), in parte dalla convinzione, non del
tutto infondata, che i russi stessero aiutando a minare il prestigio e la
prosperità britannici in Cina. Era l’epoca nella quale Eusten Chamberlain
pensava che Stalin non fosse male, perché occupato a costruire il socialismo
nel suo paese e non, come i molto più nocivi Trotsky e Zinoviev, a fomentare la
rivoluzione internazionale.
Tutto questo venne cancellato dalla grande crisi economica
del 1930-33 che suscitava preoccupazione in tutto il mondo occidentale. Per la
prima volta, una diffusa disillusione riguardo al capitalismo creava un
movimento di simpatia per l’URSS. L’opinione pubblica britannica non
sapeva niente di ciò che li accadeva. Ma aveva sentito parlare del piano
quinquennale, e aveva l’impressione generale che laggiù l’erba fosse più verde.
La campagna per il disarmo condotta da Litvinov a Ginevra ebbe grande impatto
sul prevalente sentimento pacifista. Tuttavia vi è una riserva da fare. I
sindacati contrastarono con successo ogni tentativo d’infiltrazione, e i
lavoratori non erano troppo coinvolti. La storia degli anni Trenta è quella di
una fuga precipitosa di liberali e intellettuali di sinistra verso il campo
sovietico. La sola purga stalinista che ebbe un reale effetto in Gran Bretagna
fu quella dei generali. Scoraggiando la fazione antitedesca del Partito
conservatore, la quale aveva dato un certo supporto alla campagna sovietica,
nella convinzione che l’Armata rossa avrebbe potuto essere un utile strumento
contro Hitler. Dubbi incrementati dall’esitazione sovietica a Monaco. L’evento
che alla fine distrusse l’intero edificio dall’amicizia britannico-sovietica fu
il patto Molotov-Ribbentrop. Persino il Partito comunista di Gran Bretagna, il
quale aveva navigato agevolmente attraverso le purghe, venne scosso nelle sue
fondamenta dl patto. Si trattò di un colpo dal quale il prestigio sovietico in
Inghilterra, malgrado l’entusiasmo del tempo di guerra, non si riprese mai
veramente.
Non è necessario andare oltre la guerra. Una minaccia
sovietica venne presto identificata e pubblicizzata. Il discorso di Churchill a
Fulton sollevò la cortina di ferro. Il primo Sputnik segnò l’emergere di una
nuova superpotenza, la quale sfidava i precedente monopolio degli Stati Uniti.
Da allora, la crescita del potere militare ed economico sovietico, e
l’espandersi della sua influenza in altri continenti, elevò l’URSS al rango di
pericolo pubblico numero uno, facendone l’obiettivo di una raffica di
propaganda che al momento supera, per intensità, le “guerre fredde” degli anni
Venti e Cinquanta. Il che, a grandi linee, è la torbida e intricata storia
delle reazioni occidentali alla Rivoluzione russa.
Come valuta l’evoluzione del sistema statale sovietico?
In quale misura la vita culturale ed intellettuale nell’URSS può essere
comparata, per dire, a quella degli anni Cinquanta e Venti? In occidente, oggi,
il fenomeno della dissidenza monopolizza l’attenzione della sinistra. Ritiene
sia un prisma adeguato col quale osservare la situazione politica contemporanea
in Russia?
Esaminare le condizioni economiche, sociali e culturali
dell’URSS odierna va ben oltre gli scopi di quest’intervista, e dovrei davvero
attenermi alla questione delle relazione est-ovest. l’attuale prominenza dei
dissidenti in tali rapporti è, ovviamente, un sintomo, e non un fattore
causale. Tuttavia, costituisce un problema estremamente complesso e
imbarazzante per la sinistra dei paesi occidentali. Storicamente, la sinistra,
e non la destra, è stata la paladina delle vittime di regimi oppressivi.
I dissidenti nella Russia sovietica e nell’Europa dell’est rientrano nella
categoria, e possono giustamente contare sulla simpatia e le proteste
organizzate dalla sinistra. Il problema e che la loro causa è stata ripresa in
grande stile dalla destra, e quello che è iniziato come movimento umanitario si
è trasformato in un’enorme campagna politica, ispirata da motivazioni
assai diverse, con finalità e modalità di conduzione differenti; e poiché la
destra possiede la maggior parte della ricchezza e delle risorse, ha
l’organizzazione più potente, e controlla in buona parte i media, essa ne
determina la strategia e la domina. La sinistra si trova in una posizione
gregaria, lottando vanamente per mantenere la propria indipendenza, servendo
scopi non suoi, e macchiandosi a causa della fondamentale disonestà della
campagna.
Due punti necessitano di essere sottolineati. Il primo e che
i diritti umani sono universali, qualcosa che appartiene agli esseri umani in
quanto tali, e non ai membri di una particolare nazione. Una grande campagna
per i diritti umani risulta inficiata se confinata ad un angolo del mondo.
L’Iran è sede di un regime notoriamente repressivo. eppure il presidente Carter,
nel pieno della sua campagna per i diritti umani in Russia, ha ricevuto con
tutti gli onori lo Shah alla Casa Bianca, e lo stesso Carter e Callaghan
[all’epoca primo ministro britannico, n.d.t.] gli hanno inviato gli auguri per
il successo nelle trattative coi dissidenti. In cina la Banda dei quattro, e le centinaia e forse migliaia di suoi
sostenitori a Shanghai e altre città della Cina, sono semplicemente scomparsi.
Non si è tenuto alcun processo, nessun’accusa è stata mossa loro. Che ne è
stato di loro – sono ancora vivi? Nessuno lo sa o se ne interessa. Preferiamo
non sapere. I diritti umani dei dissidenti cinesi sono oggetto di indifferenza.
Tutto ciò è abbastanza comprensibile in una campagna condotta da politici
interessati, innanzitutto, non alla protezione dei diritti umani, bensì
all’incitazione dell’indignazione popolare e dell’ostilità contro la
Russia sovietica. Ma l’integrità morale della sinistra è compatibile col
coinvolgimento in una campagna che sfrutta le motivazioni sinceramente e
profondamente radicate di persone rispettabili ma politicamente ingenue, per
scopi totalmente estranei agli obiettivi dichiarati?
L’altro punto concerne lo stile e il carattere della
campagna. Alcuni giorni fa mi sono imbattuto in una citazione di Macaulay: “Non
vi è spettacolo maggiormente ridicolo di quello del popolo britannico in uno
dei suoi periodici accessi di moralità”. Temo che quello attuale sia non tanto
ridicolo, quanto sinistro e spaventoso. Non si può aprire un giornale senza
incappare in questo odio ossessivo, in questa paura della Russia. La persecuzione
dei dissidenti, gli armamenti militari e navali della Russia, le spie russe, il
marxismo come termine corrente e abusato nelle controversie di partito – tutto
ciò contribuisce. Un’esplosione di isteria nazionale in questa scala è
certamente il sintomo di una società malata – una di quelle società che
tentano di scaricare la propria condizione, la propria impotenza, le proprie
colpe, cercando un capro espiatorio in qualche gruppo esterno – i russi, i
neri, gli ebrei e quant’altro. Trovo che tutto ciò posa condurre ad una
situazione estremamente allarmante. È consolante pensare che una simile isteria
popolare non ha infettato, allo stesso livello, nessun altro paese
europeo, e che persino negli Stati Uniti sembrerebbe esserci una reazione contro
la diplomazia da pulpito di Carter; dispiace che gran parte della nostra
sinistra sia stata inghiottita dalla marea.
Uno degli sviluppi più sorprendenti degli anni Settanta è
stato il distacco dei partiti comunisti dell’Europa occidentale dalla loro
tradizionale fedeltà rispetto all’URSS. Nel nome dell’eurocomunismo, il partito
spagnolo ora parla di USA e URSS come minacce equivalenti per un’Europa
socialista, e quello italiano si riferisce benevolmente alla NATO come scudo
contro le incursioni sovietiche. Tali prese di posizione sarebbero state
impensabili un decennio fa. Qual è il suo punto di vista sulla tendenza che
rappresentano? La ricerca di un modello di società socialista distinto
dall’URSS, adatto all’occidente più avanzato, giustifica la tonalità antisovietica
dell’eurocomunismo?
L’eurocomunismo è sicuramente un movimento nato morto, un
disperato tentativo di sfuggire alla realtà. Se si vuole ritornare a Kautsky e
denunciare il rinnegato Lenin, bene. Ma perché confondere le acque continuando
ad etichettarsi come comunisti? Nella terminologia finora accettata si è
socialdemocratici di destra. L’unico asse solido dell’eurocomunismo è
l’indipendenza e l’opposizione rispetto al partito russo; da qui si salta
facilmente sul carro antisovietico. Il resto della piattaforma è totalmente
amorfo, il genere di cosa che nel nostro paese definiamo “Lib-Lab“. Le sue escursioni nella pratica politica ne tradiscono
la vacuità. Gli eurocomunisti italiani stanno un po a destra dei socialisti.
Quelli francesi stanno in diversi luoghi allo stesso tempo. Quelli spagnoli non
stanno da nessuna parte. Gli inglesi sono pressoché invisibili. Si sarebbe
potuto fare a meno di questa triste dimostrazione della bancarotta dei partiti
comunisti occidentali.
Marx intendeva il socialismo come una società
incomparabilmente più libera e produttiva del capitalismo – un’armoniosa ed
avanzata associazione di liberi produttori, senza sfruttamento economico e
coercizione politica. La transizione ad una simile società in Unione Sovietica,
sebbene essa abbia proceduto oltre il capitalismo, rimane lontana dagli
obiettivi di Marx o Lenin. Nei ben più ricchi paesi occidentali, il capitalismo
deve ancora essere rovesciato, in parte a causa della delusione all’interno
della classe lavoratrice riguardo i progressi sinora registrati in URSS. In una
situazione che, talvolta, può sembrare di doppio stallo, ritiene che oggi
le possibilità di una svolta politica, un’accelerazione, verso i classici
obiettivi del socialismo rivoluzionario siano maggiori in oriente o in
occidente? Lei conclude il suo libro “Sei lezioni sulla storia” con le parole
di Galileo, “Eppur si muove”. Dove si colloca principalmente il movimento
storico sul finire dl XX secolo?
È una questione con così tante sfaccettature che dovrò
suddividerla e rispondere in maniera un po’ discorsiva. Innanzitutto, una
digressione sul posto di Marx e del marxismo nel nostro pensiero. Adam Smith ha
avuto intuizioni geniali; e La ricchezza delle nazioni è
divenuta per un intero secolo, e anche di più, la bibbia dell’emergente
capitalismo. Oggi, il diverso scenario economico ha invalidato alcuni dei suoi
postulati, modificando la nostra visione delle sue predizioni e ingiunzioni.
Karl Marx ha avuto intuizioni geniali ancor più profonde; non solo ha previsto
e analizzato l’incombente declino del capitalismo, ma ci ha fornito nuovi
strumenti di pensiero per scoprire le fonti del comportamento sociale. Ma da
quando ha scritto, molta acqua è passata sotto i ponti: i recenti sviluppi, se
hanno confermato la sua analisi, hanno gettato alcuni dubbi sulla sua prognosi.
Ammettere tali dubbi, e indagarli, non significa disonorare Marx. Ciò che pare
incompatibile con lo spirito del marxismo sono gli ingenui e scolastici
tentativi – come quelli che ho visto talvolta in alcuni articoli della
NLR [New Left Review, n.d.t.] – di adattare il marxismo a condizioni e
problemi dei quali egli non ha tenuto conto, e che non avrebbe potuto
prevedere. Ciò che vorrei vedere da parte degli intellettuali marxisti è meno
analisi astratta di testi, e maggiore applicazione del metodo marxista
all’esame delle condizioni sociali ed economiche che differenziano la nostra
epoca da quella di Marx.
Mi ha chiesto circa le prospettive di una svolta verso una
società socialista o marxista in URSS e in occidente. Sono due problemi molto
diversi. La Rivoluzione russa ha rovesciato il vecchio ordine, issando la
bandiera marxista. Ma le premesse marxiste non erano presenti, e pertanto non
ci si poteva aspettare la realizzazione delle prospettive marxiste. L’esiguo
proletariato russo, prevalentemente senza educazione, era assai diverso da
quello prefigurato da Marx come alfiere della rivoluzione, ed era inadeguato al
ruolo impostogli dallo schema marxista delle cose. Lenin in uno dei suoi ultimi
saggi deplorava la carenza di “genuini proletari”, e notava amaramente che Marx
non sta scrivendo “della Russia, bensì del capitalismo in generale”. La
dittatura del proletariato, comunque si voglia interpretare, era una chimera.
Ciò che Trotsky definiva “sostituzionismo”, ovvero la sostituzione del partito
al proletariato, era inevitabile, risultante da una crescita per lente tappe di
una burocrazia privilegiata, dal divorzio dei vertici dalle masse, dalla
coercizione di operai e contadini e dai campi di detenzione. Dall’altra parte,
qualcosa è stata fatta rispetto all’occidente. Il capitalismo è stato
smantellato e rimpiazzato dalla produzione e distribuzione pianificate; e, se
il socialismo non è stato realizzato, alcune delle condizione della sua
realizzazione sono state, per quanto imperfettamente, create. Il proletariato è
cresciuto enormemente in termini quantitativi; il suo tenore di vita, la salute
e la sua educazione sono notevolmente migliorati. Se si volesse indulgere
in voli di fantasia, si potrebbe immaginare che questo nuovo proletariato un
giorno potrà assumersi l’onere che i suoi deboli antenati non erano in grado di
portare sessant’anni fa, e così giungere al socialismo. Personalmente non sono
affezionato a simili speculazioni. La storia raramente produce soluzioni
teoricamente ordinate. La società sovietica sta ancora progredendo. Ma a quale
fine, e se il resto del mondo le permetterà di proseguire indisturbata la sua
avanzata – questi sono interrogativi ai quali non proverò a rispondere.
Il problema del marxismo in occidente è più complicato. Qui
le premesse marxiste esistono, ma non hanno condotto – sinora- all’epilogo
marxista. Marx formulò le sue teorie alla luce delle condizione dell’Europa
occidentale, in particolare l’Inghilterra. La sua intuizione e lungimiranza
sono state brillantemente confermate – almeno sino ad un certo punto. Il
sistema capitalista è declinato sotto il peso delle sue contraddizioni interne.
È stato duramente scosso da due conflitti mondiali e da crisi economiche
ricorrenti. Si dimostra impotente di fronte alla crescente disoccupazione. I
lavoratori organizzati hanno guadagnato molto in termini di forza, forza che
non hanno esitato ad utilizzare per i propri fini. Eppure, l’unica cosa che non
è accaduta è la rivoluzione proletaria. Ovunque, nel mondo capitalista, la
rivoluzione si sia profilata momentaneamente – in Germania nel 1919, in Gran
Bretagna nel 1926 ed in Francia nel 1968 – i lavoratori si sono affrettati a
voltarle le spalle. Ciò che volevano non era la rivoluzione. Trovo difficile
rigettare l’evidenza che, a dispetto di tutte le fessure che si sono
aperte nella corazza del capitalismo, l’umore dei lavoratori è meno
rivoluzionario oggi di quanto non fosse sessant’anni fa. Attualmente in
occidente, il proletariato – intendendo con esso, come Marx, i lavoratori
organizzati dell’industria – non è rivoluzionario, se non addirittura una forza
controrivoluzionaria.
Perché l’operaio oggi in occidente – un fatto che io ritengo
si debba riconoscere – non vuole la rivoluzione? La prima risposta è “la
paura”, stimolata in parte dall’esempio del 1917. La Rivoluzione russa, quali
che siano i benefici, in ultima analisi, da essa derivati, ha causato miseria e
devastazioni infinite. Rovesciare la classe dominante nei paesi capitalisti,
oggi, sarebbe un’impresa ancor più disperata, e il costo ben più alto.
L’operaio russo nel 1917 poteva non avere altro da perdere che le proprie
catene. L’operaio occidentale ha molto più da perdere, e non sembra esservi
troppo incline. Quando emerge tale questione, ricorro ad un’analogia. Il medico
dice al paziente che è affetto da una malattia incurabile, la quale peggiorerà
ad un ritmo imprevedibile, ma che egli può sperare di andare avanti in
qualche modo per alcuni anni. La malattia può essere curata con un intervento
chirurgico, ma vi è la possibilità che l’operazione uccida il paziente.
Quest’ultimo decide di andare avanti senza intervento. Rosa Luxemburg ha detto
che la decadenza del capitalismo poteva concludersi o col socialismo o con la
barbarie. Ho il sospetto che molti lavoratori oggi preferiscano affrontare il
lento decadimento del capitalismo, sperando si protragga per il loro tempo,
anziché il bisturi della rivoluzione, il quale potrebbe, ma non
necessariamente, produrre il socialismo. Si tratta di un punto di vista
plausibile.
Ma vorrei approfondire ulteriormente. Non so chi ha
inventato la frase “sovranità del consumatore”. Ma l’idea è implicita in Adam
Smith e nel complesso dell’economia classica. Marx giustamente pone il
produttore al centro del processo economico. Ma ha dato per scontato che il
produttore produce per il mercato, e produce ciò che vuole comprare il consumatore;
si tratta probabilmente di una buona descrizione di ciò che è accaduto fino
alla fine del secolo scorso – pochi anni dopo la morte di Marx. Da allora la
situazione si è capovolta, ed il potere del produttore è cresciuto ad un tasso
frenetico. L’imprenditore, ormai sempre più spesso una grande corporation,
controlla e standardizza i prezzi. La produzione di massa ha reso imperativa la
creazione di un mercato uniforme. La pubblicità ha fatto passi d gigante, per
estensione ed ingegnosità. Per la prima volta il produttore è stato in grado di
plasmare i gusti del consumatore, persuadendolo a desiderare ciò che egli ha
ritenuto più conveniente e redditizio produrre. Siamo arrivati all’età della
sovranità del produttore.
Tuttavia, è questo è il punto principale, essendo il
proletariato cresciuto in numeri ed educazione, può sempre più efficacemente
far valere la propria pretesa ad una parte dei crescenti profitti della nuova
epoca. Engels ha svelato la corruzione da parte dei capitalisti di quella che
definiva aristocrazia operaia. Lenin ha applicato il medesimo concetto alla
classe lavoratrice dei paesi capitalisti di fronte al mondo coloniale. Ma lo
stesso Lenin non prevedeva una collaborazione fra produttori, ossia datori
di lavoro e lavoratori, al fine di sfruttare il consumatore attraverso il
mercato interno. Non è necessario grande acume per vedere cosa sta accadendo.
“La protezione del lavoro” per i produttori è divenuta un fattore decisivo
delle politiche economiche. L’eccedenza di personale nel management e nella
fabbrica viene condonata; i prezzi crescenti si occuperanno del costo. I
miglioramenti tecnologici che consentano di tagliare costi e prezzi
incontrano resistenze poiché potrebbero implicare perdite di posti di lavoro;
il consumatore non può pagare. Persone serie hanno proposto l’altro giorno di
macellare un quarto di milione di galline al fine di ridurre l’offerta di uova,
così da prevenire un crollo disastroso dei prezzi. Le prestazioni ineguali
della CEE per quanto riguarda burro, vino e carni sono ben note. Un’economia
talmente impazzita non può sopravvivere a lungo andare. Ma la corsa può
rivelarsi lunga – più di quanto coloro che al momento ne traggono profitto
potrebbero prevedere. Non ho menzionato questioni come l’investimento di grandi
fondi pensionistici dei sindacati in azioni industriali e finanziarie. Se i
profitti capitalistici crollano, crollano le pensioni dei lavoratori. “Dov’è il
tuo tesoro, lì è il tuo cuore”. I lavoratori ormai in molti modi hanno una
grande ruolo nella sopravvivenza del capitalismo. Nelle presenti condizioni, la
nazionalizzazione delle industrie, e l’inserimento dei lavoratori nei consigli
di amministrazione (rispetto al quale, per inciso, i lavoratori
britannici hanno mostrato ben scarso interesse), rappresentano non una
presa in carico dell’industria da parte dei lavoratori, bensì un ulteriore
passo verso la loro integrazione nel sistema capitalista. Lord Robens va bene
come capitalista quanto Lord Robins [Alfred Robens, sindacalista, politico e
industriale britannico; Lionel Robins, economista marginalista; n.d.t.].
È da questo punto di vista che dobbiamo diagnosticare la
malattia della sinistra, parte integrante di quella che colpisce l’intera
nostra società. La sinistra ha smarrito il cuore delle proprie convinzioni, e
continua a ripetere formule ormai prive di credibilità. Per un centinaio di
anni o più, le speranze della sinistra sono state riposte nella classe operaia
intesa quale classe rivoluzionaria del futuro. La democrazia capitalista
sarebbe stata rovesciata e rimpiazzata dalla dittatura del proletariato. È
possibile assumere che una simile visione possa ancora realizzarsi. Vaste
trasformazioni della società, nel passato, si sono estese per decenni e secoli;
forse siamo semplicemente troppo impazienti. Ma devo confessarlo, con così
tanti segnali che puntano in un’altra direzione, tale prospettiva mette a dura
prova le mie capacità di ottimismo. Non mi rassicura vedere l’attuale scompigli
nella sinistra, divisa in una galassia di minuscole sette in lotta fra loro,
unite solo dal fallimento nell’attrarre qualcosa di più che una frangia
insignificante del movimento operaio, nonché dalla coraggiosa illusione che le
loro prescrizioni per la rivoluzione rappresentino interessi ed ambizioni dei
lavoratori. Ricordo che Trotsky, in un articolo scritto poco dopo lo scoppio
della guerra nel 1939, ammetteva, con esitazione e riserve, che se la guerra
non avesse provocato la rivoluzione, ciò avrebbe costretto a cercare la ragione
del fallimento “non nel’arretratezza del paese, e nel circostante ambiente
imperialista, ma nella congenita incapacità del proletariato a divenire una
classe dirigente”. Forse non si dovrebbe dare eccessiva importanza ad
un’ammissione strappatagli in un momento di buia disperazione. Mi soffermo sul
termine “congenita”; l’articolo è stato pubblicato in inglese, e non so cosa
quale parola russa Trotsky avrebbe potuto usare. Tuttavia, se fosse
sopravvissuto tanto da assistere allo scenario contemporaneo, non credo avrebbe
trovato molte occasioni per ritrattare il suo verdetto.
Dunque, come analizzare la situazione e volgere lo sguardo
al futuro. In primo luogo, datori di lavoro e lavoratori combattono ancora in
modo tradizionale circa la divisione dei profitti dell’impresa
capitalistica, sebbene recentemente vi siano state occasioni in cui si è giunti
a un accordo, accordo al quale il governo ha opposto resistenza sul piano
dell’interesse pubblico. In secondo luogo, un silenzioso, ma estremamente
potente, consenso si è stabilito tra datori di lavoro e lavoratori rispetto
alla necessità di mantenere i profitti. Le parti possono ancora litigare sulla
suddivisione del bottino, ma sono unite nel desiderio di massimizzarlo. È
ancora aperto l’interrogativo su quale di questi due fattori sarà , in ultima
analisi, in cima alle priorità. Si potrebbe argomentare che, una volta
raggiunti i limiti fisici dello sfruttamento del mercato del consumo, e quando
le opportunità di rafforzamento del capitalismo dall’esterno saranno esaurite
in un dato paese, lo scontro tra interessi dei padroni e dei lavoratori
riacquisterà la sua prominenza, liberando la strada per la tanto rimandata
rivoluzione sul modello marxista. Ma devo ammettere il mio scetticismo rispetto
ad una simile prospettiva. Trovo impressionante il fatto che le due sole
notevoli rivoluzioni compiutesi dal 1917 si sono svolte in Cina e a Cuba, e che
i movimenti rivoluzionari oggi sono vivi solo nei paesi nei quali il
proletariato è debole se non inesistente.
Mi ha sfidato citando le parole conclusive del mio Sei
lezioni sulla storia. Sì, sono convinto che il mondo stia procedendo in
avanti. Non ho cambiato punto di vista rispetto al 1917 inteso come un punto di
svolta della storia. Direi che, insieme alla guerra del 1914-1918, ha segnato
l’inizio della fine del sistema capitalistico. Ma il mondo non si muove in ogni
momento ed in ogni luogo simultaneamente. Sarei tentato dall’affermare che i
bolscevichi hanno ottenuto la loro vittoria nel 1917, non malgrado
l’arretratezza dell’economia e della società russe, bensì proprio a causa di
essa. Ritengo dovremmo seriamente prendere in considerazione l’ipotesi che la
rivoluzione mondiale, della quale ha costituito la prima tappa, e che
completerà l’abbattimento del capitalismo, si rivelerà essere la rivolta dei
popoli colonizzati contro il capitale nelle vesti dell’imperialismo anziché una
rivolta del proletariato dei paesi capitalisti avanzati.
Quali conclusioni trarre per la nostra sinistra nella sua
attuale situazione? Non molto incoraggianti, temo, considerato che questo è un
periodo profondamente controrivoluzionario in occidente, e la sinistra non
possiede alcuna solida base rivoluzionaria. Al momento, mi sembra vi siano
aperte due sole alternative ai membri più seri della sinistra. La prima
consiste nel rimanere comunisti, conservarsi come gruppo dai fini educativi e
propagandistici separato dall’azione politica. La funzione di un simile gruppo
sarebbe quella di analizzare le trasformazioni sociali ed economiche
attualmente in corso nel mondo capitalista; studiare i movimenti rivoluzionari
attivi in altre parti del mondo – le loro conquiste, sconfitte e potenzialità;
e cercare di trarre un immagine più o meno realistica di ciò che il socialismo
potrebbe significare nel mondo contemporaneo. La seconda alternativa per la
sinistra è quella di buttarsi nella politica corrente, diventare
socialdemocratica, riconoscere e accettare francamente il sistema capitalista,
perseguire quegli obiettivi minimi raggiungibili all’interno dello stesso, e
lavorare per i compromessi tra padroni e lavoratori utili a conservarlo.
Non si può essere contemporaneamente comunisti e
socialdemocratici. Il socialdemocratico critica il capitalismo, ma in ultima
istanza lo difende. Il comunista lo rigetta, ed è convinto che esso finirà per
autodistruggersi. Ma il comunista nel paesi occidentali, al momento attuale, è
conscio dell’energia di cui dispongono ancora le forze che sostengono il
sistema, nonché dell’assenza di qualsiasi forza rivoluzionaria abbastanza
potente da rovesciarlo.
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