Da: www.jacobinmag.com - https://jacobinitalia.it - La traduzione è di Gaia Benzi - Benjamin
Y. Fong insegna all’Arizona State University.
Forse
dovremmo uscire dai social network. Rappresentano una minaccia
politica: attraggono gioia e cooperazione sociale e le trasformano in
depressione e individualismo narcisista
La
visione fantasiosa dei social media come strumento magico di
connessione sociale è in netto contrasto con la sua realtà di pozzo
senza fondo per viscidi attacchi personali e sbotti di indignazione
paranoica.
Attribuire
questo ampio divario al capitalismo sfrenato è una tentazione
allettante: Facebook e Twitter non hanno concorrenti virtuali e sono
perfettamente a loro agio nel fare qualsiasi cosa, dal manipolare i
dati degli utenti al fornire un palcoscenico agli hater fintanto
che gonfiano i loro bilanci. Forse strappare i social media dalle
mani delle società private potrebbe finalmente permetterci di
realizzare la visione che li ha generati.
È
questo il pensiero stimolante dietro l’ultimo pezzo di Evan
Malmgren, Socialized
Media,
che tratta di cosa potrebbe voler dire una cosa del genere per il
dominio dei giganti delle piattaforme digitali. Invece che introdurre
una competizione artificiale in una campagna antitrust, o
regolamentarli come servizi pubblici – o addirittura
nazionalizzarli, Malmgren sostiene che dovremmo piuttosto vedere «i
social media come beni comuni» e dare «il potere collettivo sulle
piattaforme digitali alle persone che mettono in connessione». Dal
suo punto di vista, lo stato non dovrebbe agire come un «tutore
legale» di scorte collettive di dati ma al contrario, data la natura
transnazionale di queste società, come un intermediario tra
cooperative di utenti.
Sebbene
sia interessante riflettere sui molti modi che avremmo per
socializzare il monopolio delle piattaforme, Malmgren lascia senza
risposta una domanda centrale: vale la pena salvare i social media?
In
una società socialista, dovremmo trarre vantaggio dai progressi
scientifici e dalla conoscenza tecnologica raggiunta dal capitalismo,
al fine di avere livelli produttivi più o meno uguali ma senza
il meccanismo di spoliazione privata o la distruzione del pianeta. In
alcuni casi, questo potrebbe voler dire socializzare e riorientare
imprese già esistenti – le banche, ad esempio – ma per altri
settori probabilmente significherebbe un’eliminazione drastica o al
limite un drastico ridimensionamento.
È
inimmaginabile che, per dire, sotto il socialismo l’industria
automobilistica possa essere anche solo una frazione di quanto è
ora. Senza dubbio dovremmo sfruttare la capacità del capitalismo
contemporaneo di spostare le persone, ma questo includerebbe azioni
come espandere
e implementare il sistema ferroviario,
non fornire «un’automobile a tutti».
Nel
caso delle macchine, c’è stata un’evidente operazione di natura
pratica e ideologica di manipolazione dell’opinione pubblica:
l’industria automobilistica non solo ha convinto le persone che le
macchine rappresentassero la libertà di movimento, ma ha anche fatto
tanto per distruggere
il trasporto pubblico esistente,
o comunque prevenirne lo sviluppo. Mentre possiamo effettivamente
avere bisogno di macchine in una società capitalista, sicuramente
non ne avremmo così bisogno in un mondo che ha al centro il
benessere delle persone e del pianeta anziché il profitto.
Forse
un discorso simile può essere fatto per i social media. Sotto il
capitalismo, in un contesto in cui le persone passano la maggior
parte del loro tempo a fare lavori che odiano e non hanno quasi più
occasione di sperimentare una socialità che non sia predeterminata,
ha perfettamente senso che passino la maggior parte del loro “tempo
libero” abbuffandosi con brevi e intensi picchi di interazioni
“sociali”. Malmgren ha senz’altro ragione quando sostiene che
mettere le piattaforme digitali sotto controllo democratico le
indurrebbe ad essere meno dopanti e manipolatorie. Ma se tutte e
tutti lavorassimo di meno, e di conseguenza avessimo più tempo a
disposizione per perseguire i nostri obiettivi e interessi personali,
spenderemmo davvero tutto questo tempo a guardare uno schermo?
Conversazioni difficili
La
domanda centrale è se gli effetti negativi del capitalismo delle
piattaforme sulle nostre vite siano specifici del capitalismo – nel
qual caso le piattaforme sarebbero legittimi beni comuni da liberare
dall’avidità del mercato – o se invece non siano proprio le
piattaforme stesse, un po’ come per le automobili, ad essere
connesse in maniera inestricabile alle leggi distruttive della
società capitalista – nel qual caso dovrebbero scomparire o essere
profondamente ridimensionate sotto il socialismo.
Per
rispondere a questa domanda, cominciamo con un dato scioccante: su
internet ci si imbatte in comportamenti scorretti. Succede anche
nella realtà, certo. Ma il livello di depravazione esibito sui
social media è di una qualità tutta particolare, specifica di
quell’ambito.
Da
un lato, il comportamento degli utenti è sfrontato, e nel caso di
Twitter questa caratteristica fa il paio con il limite di caratteri.
Ma dimostra anche una tendenza di marca psicopatica: l’ossessione
per l’opinione altrui combinata con una disturbante assenza di
empatia verso quelle stesse persone da cui cerchiamo, in maniera
implicita o esplicita, un riconoscimento.
Per
molti ricercatori, un comportamento simile non è semplicemente
espresso ma letteralmente plasmato dai
social media. Incrociando le analisi di settantadue studi diversi, la
psicologa Sara Konrath e il suo team di ricerca hanno rilevato che i
livelli di empatia fra gli studenti del college sono del 40%
più bassi oggi
di quanto non fossero vent’anni fa – uno sviluppo che loro
attribuiscono a, tra le altre cose, «l’importanza crescente dei
social media nella vita quotidiana»: «Con così tanto tempo speso a
interagire con gli altri online invece
che nella realtà, le dinamiche interpersonali come l’empatia
potrebbero sicuramente risentirne».
Questa
spiegazione è corroborata da uno studio di Cyberpsychology che
ha rilevato come ci sia pochissimo
contatto umano nelle
interazioni online e nella messaggistica, malgrado tutti i tentativi
di “scaldare” conversazioni con i maiuscoli, le finte risate, le
emoticon e i like. Clifford Nass, psicologo cognitivo dell’università
di Stanford, ha ugualmente scoperto che un «basso
livello di benessere sociale»
si accompagna ad alti livelli di utilizzo dei social.
Ancor
più terrificante, l’essere più abituati a connessioni digitali
che a conversazioni umane scatena un loop di feedback negativi: più
ci si abitua a interazioni umani distanti e controllabili, più una
conversazione umana vera e propria comincia ad apparire persecutoria
e goffamente spontanea, e dunque qualcosa da evitare. Secondo
la sociologa Sherry Turkle,
«può essere difficile relazionarsi con le persone reali e i loro
modi di fare imprevedibili, quando ci si è abituati a una loro
pallida simulazione».
La
maggior parte delle ricerche ha confermato che i social media fanno
da rinforzo positivo e aumentano un senso di isolamento sociale. Già
nel 1998, un gruppo al Carnegie Mellon ha elaborato il «paradosso
di internet»,
secondo cui più connessioni online producono come risultato un
maggior senso di solitudine. Questo problema è diventato più acuto
nell’epoca di Facebook e Twitter, anche se i ricercatori e gli
opinionisti sono riluttanti nel
dire che queste piattaforme causano la
solitudine: diciamo che Facebook non sta tanto generando
l’atomizzazione, quanto fa da perfetto complemento e rinforzo ad
una solitudine crescente.
Sentendosi
soli, gli utenti di Facebook sono naturalmente portati a cercare
qualsiasi forma di riconoscimento abbiano a disposizione.
C’è uno
studio australiano che
è molto chiaro a questo proposito: «Gli utenti di Facebook
presentano livelli più alti di narcisismo totale, esibizionismo, e
tendenza al comando dei non utenti. In realtà, si potrebbe sostenere
che Facebook gratifichi soprattutto il bisogno tipico dei narcisisti
di auto-promozione e comportamento superficiale».
Paradossalmente,
un atteggiamento solitario rinforzato dai social media non si
accompagna semplicemente a più tempo passato da
soli:
i social media si assicurano di non farci mai avere abbastanza tempo
per starcene seduti a riflettere sui nostri pensieri. Questo
significa che siamo indotti a non sopportare la noia, a non
affrontarla, elemento
ampiamente riconosciuto come
una conquista fondamentale. Ancora una volta, Turkle inquadra
eloquentemente il problema: «Senza la solitudine, in giorni e notti
perennemente connessi, potremmo facilmente sperimentare quel ‘momento
in più’ ma vivere con meno».
Considerando
tutto ciò, l’appello di Malmgren affinché siano «gli stessi
utenti delle piattaforme a rappresentare il modello ideale per un
sistema democratico di governo» suona strano. Com’è possibile che
persone abituate da
quelle stesse piattaforme alla
mancanza di empatia, introspezione e genuina conversazione
rappresentino «il modello ideale per un sistema democratico di
governo»? La democrazia ha bisogno di istituzioni che abituino le
persone alle decisioni democratiche e al processo decisionale in sé,
un processo che necessita proprio di quel genere di «conversazioni
difficili» che
Jane McAlevey incoraggia. Davvero Twitter rispecchia questa
descrizione?
Sia il male che la cura
Recentemente
per definire l’eccessivo uso di internet si è diffusa una
locuzione che i giganti digitali hanno a lungo usato per descrivere
ciò che desideravano accadesse: dipendenza comportamentale.
Una
dipendenza comportamentale è molto simile a una dipendenza da
sostanze: secondo
Adam Alter,
«attivano le stesse regioni celebrali, e si nutrono in parte degli
stessi bisogni basilari: interazioni e supporto di natura sociale,
stimolazione mentale, e un senso di efficacia». Ma le dipendenze
comportamentali non portano lo stesso stigma delle dipendenze da
sostanze. È qui che si nasconde il pericolo: consideriamo emarginati
sociali categorie gli eroinomani, e sarebbe impensabile per noi voler
partecipare in qualsiasi forma alla loro stessa supposta marginalità.
I
giganti della tecnologia non si fanno simili scrupoli. Concepiscono i
loro prodotti affinché siano oggetto di ossessione e generino
dipendenza. Siamo incoraggiati, nel discorso tipico neoliberista, a
sentirci responsabili per il nostro comportamento. Ma come dice
“l’esperto di etica” e disertore della Silicon Valley Tristan
Harris «non riconosciamo che ci sono oltre un migliaio di
persone dall’altra parte dello schermo il cui lavoro è distruggere
qualsiasi tipo di responsabilità l’individuo riesca a garantire».
Né
è un segnale incoraggiante nei confronti dell’utilizzo di queste
piattaforme il fatto che i ricchi non lascino che i loro figli ne
facciano uso. I guru della tecnologica, da Steve Jobs a Chris
Anderson, hanno
severamente limitato il
tempo che i loro figli passavano online, e mentre le scuole pubbliche
vengono inondate di iPad per creare ambienti di “apprendimento
ibrido” – la soluzione tecnologica alla carenza di insegnanti –
gli ingegneri della Silicon Valley sono impazienti di mandare i
loro figli nelle
scuole private device-free.
Come
ci spiega Alter, «le persone che producono tecnologia» seguono «la
regola d’oro di ogni spacciatore: non farti della tua stessa roba».
La mancanza di empatia, introspezione e genuina socialità –
caratteristiche di un uso eccessivo dei social media – diventano
allora inquadrabili come sintomi di una specie di dipendenza, una
malattia dalla quale i ricchi sono abbastanza consapevoli e
benestanti da preservare i loro figli, ma non abbastanza premurosi da
impedire a tutti gli altri di infettarsi.
Tutto
ciò, in ogni caso, dev’essere letto in parallelo alla prospettiva
sociale che crea. Oltre a produrre e rinforzare l’assenza di
connessione fra individui e umanità, le piattaforme social, come
tutte le droghe, promettono di rimediare all’assenza
di connessione fra individui e umanità che è endemica della società
capitalista.
«Nell’assenza
di istituzioni collettive, le strutture sociali devono essere
elaborate dal basso verso l’alto individualmente… La vita sociale
consiste in individui che costruiscono reti di connessioni private
attorno a loro, facendo del loro meglio con quello che hanno a
disposizione. L’intrecciare relazioni centrate sui singoli crea
delle strutture sociali laterali, volontarie e contrattualistiche, il
che le rende flessibili ma deperibili, bisognose di un continuo
lavoro di ‘networking’ per tenerle insieme e aggiustarle alle
circostanze mutevoli. Strumento ideale sono allora i ‘new social
media’, che producono strutture sociali per gli individui
sostituendo con forme volontarie le forme obbligatorie di relazioni
sociali, e reti
di utenti a comunità
di cittadini».
Le
malattie dei social media non sono però l’unico problema; sono
anche delle “soluzioni” a problemi sociali molto
più ampi e storicamente determinati. Nell’assenza di progetti
sociali universali e legami comunitari tradizionali, «la vita
sociale nell’epoca dell’entropia è di necessità
individualistica», e i social media sono la struttura perfetta per
ospitare questa tendenza in un’ultima analisi anti-sociale.
Alleviano l’isolamento e la disumanità del vivere in una società
capitalista mentre contribuiscono a quello stesso isolamento e
disumanizzazione. Come nel gesto di grattarsi un prurito, sono un
sollievo di breve durata che non fa altro che aumentare il problema.
Una minaccia imminente
Non
ci vuole molto a convincere qualcuno dei vari lati negativi derivanti
dall’uso dei social, lati che però vengono velocemente scartati
come effetto collaterale di una tendenza che è, tutto sommato,
positiva. «Certo, le persone fanno cose stupide su Twitter e certo,
forse spendiamo troppo tempo parlando fra di noi attraverso uno
schermo invece che di persona. Ma i social media ci tengono informati
e connessi in modi storicamente nuovi». Anche i critici più severi
dei social attualmente esistenti sono cauti nel condannarli in
toto: «Ci
sono anche cose buone nei social, certamente».
Se
però prendiamo sul serio quanto emerso dagli studi sopra citati,
dire che i social media hanno dei “lati negativi” non è
abbastanza. Il quadro generale qui dipinto è quello di una crisi
di salute mentale –
una crisi che è, se non causata, perlomeno alimentata dalle
piattaforme social.
Secondo
Malmgren, «depressione, ansia, odio diffuso, paura, e falsità
complottiste sono tutte conseguenze accettabili [per i monopolisti
delle piattaforme] fin quando sono poste, coscientemente o meno, al
servizio della crescita». Anche se questo è sicuramente vero,
Malmgren ritiene che sottrarre le piattaforme a una logica di
profitto e metterle sotto controllo democratico risolva
automaticamente i problemi che ha elencato.
Al
contrario, la conclusione che se ne trae è duplice: prima di tutto,
il solo fatto di essere incollati agli schermi per avere interazioni
“sociali” indotte è in sé stesso un fenomeno preoccupante, che
sia votato al profitto oppure no; secondo poi, questo fenomeno è una
manifestazione diretta dell’alienazione che sperimentiamo nel
capitalismo. L’estrazione di profitto, in altre parole, non è
l’unico modo in cui i social servono il capitalismo.
Per
la sinistra, allora, i social media rappresentano una minaccia
immediata: attraggono le persone che sono naturalmente portate per le
politiche socialiste e le catturano in un narcisismo automatico fatto
di dichiarazioni pseudo-politiche, dove dare sfogo a quel loop
negativo che li allontana dalla realtà di rapporti umani quotidiani.
Twitter
non è un semplice mezzo
di espressione per
le “patologie psichiche” che Mark Fisher ha
descritto bene in Vampire
Castle. È
proprio il Castello dei Vampiri,
che fa il lavoro del capitalismo per atomizzare ulteriormente la
società e allontanare le persone dal genere di conversazioni che
sarebbe necessario avere in un reale percorso politico. Prima ce ne
renderemo conto, prima potremo liberarcene.
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